Usi temporanei anche in difformità alle previsioni urbanistiche vigenti ? perché no?
Vianello: ho letto l’articolo di Ermete Dalprato “Testo Unico Edilizia: l’uso temporaneo e difforme non può essere “rigenerante” e su un punto non sono d'accordo
Ho letto l’articolo di Ermete Dalprato pubblicato su INGENIO di venerdì 20 novembre, dal titolo “Testo Unico Edilizia: l’uso temporaneo e difforme non può essere “rigenerante”.
Niente da dire sul piano giuridico delle interrelazioni tra il Decreto semplificazione che all’art. 23 quater introduce il tema degli usi temporanei – anche in difformità alle previsioni urbanistiche vigenti – come fattore di stimolo ed attivazione dei processi di rigenerazione urbana, e la bozza del Testo Unico Edilizia, attualmente in discussione nelle aule parlamentari, sulla quale va ad impattare.
Quello che non ci trova d’accordo è il giudizio negativo che viene attribuito all’utilizzo temporaneo di un’area dismessa, anche in difformità al piano. Secondo Dalprato questa è una pratica che attenta alla sacralità del piano urbanistico in quanto lo modifica senza passare per la tradizionale procedura di variante. Anche se il testo prevede che il procedimento vada approvato dal Consiglio Comunale e sottoposto a convenzione. Tanto più che – dice Dalprato – in Italia è consuetudine che il provvisorio diventi definitivo, e qui ha pienamente ragione.
Sappiamo tutti qual è lo stato comatoso della rigenerazione urbana in Italia. Dopo gli anni 1995/2005 in seguito al Decreto Fontana del 1994 e all’introduzione dei programmi integrati in variante, che ha dato il via alla prima stagione della rigenerazione urbana cambiando il volto di molte città italiane (Torino in primis), ben presto la situazione si è avvitata portando al blocco degli interventi di riqualificazione. La crisi finanziaria scoppiata ancora nel 2008 con il crac della Lehmann Brothers ha devastato il settore edilizio mettendo fuori mercato buona parte degli operatori.
Nell’ultimo anno il covid ha dato il colpo di grazia, ammesso che ce ne fosse bisogno. I soldi girano al largo, la domanda è caduta a livelli abissali, gli operatori finanziari si guardano bene dall’investire nei progetti di sviluppo, al massimo comprano qualche immobile già affittato in quel di Milano, gli operatori dell’immobiliare si sono ridotti ad una sparuta schiera. Nel mentre le aree dismesse aumentano vertiginosamente, non più le vecchie industrie abbandonate, ma anche i nuovi grattacieli del terziario mezzi vuoti anche per lo smart working; in attesa che Amazon metta per carità la quantità spropositata di centri commerciali realizzata negli ultimi decenni.
In questo panorama spettrale alcuni amministratori avveduti – specialmente amministratrici – ma anche progettisti ed operatori (pochi) si lambiccano il cervello sul come far partire almeno qualcuno dei tanti progetti di rigenerazione previsti nei piani. Firenze ne ha fatto addirittura uno splendido volumetto.
Una delle buone pratiche che hanno partorito è quella di far partire qualche intervento parziale di riuso delle grandi aree dismesse nella speranza che, richiamando un afflusso di persone si possa suscitare l’interesse degli operatori ed avviare quindi un processo che altrimenti appare molto stentato. In Italia sono già diversi i progetti che seguono questa linea. In genere si comincia attivando iniziative di carattere pubblico - un centro sociale, un consiglio di quartiere, ma può essere anche più semplicemente la rivegetazione dell’area (ottimi alcuni interventi di Andreas Kipar con il gruppo Land) che almeno hanno il vantaggio di reinserire nel circuito urbano aree altrimenti emarginate e veicolo di crescente degrado. Se la cosa funziona può darsi che anche le imprese abbiano interesse ad intervenire.
All’estero invece, in un clima che è sicuramente più vivace di quello italiano, spesso sono i privati a proporre qualche iniziativa. In un viaggio a Berlino con il Centro Studi Urbanistici del Veneto ricordo una splendida birreria installata in un capannone dismesso, quella che era un’area abbandonata era diventata un luogo di richiamo.
Quindi, al contrario di quanto dice Dalprato, l’uso temporaneo di un’area dismessa va incentivato; non boicottato come fosse un oltraggio all’autorità precostituita. Se poi la cosa funziona l’attività da temporanea diventa definitiva. E’ il segno che il programma ha avuto successo, ben vengano altri.
A questo punto si lascia il tema circoscritto di un articolo di legge per entrare in una delle più complesse problematiche della disciplina urbanistica, quella delle zone funzionali e delle destinazioni d’uso, di zona e/o degli edifici. L’urbanistica italiana dal secondo dopoguerra in poi è nata sotto il segno della funzione. Le zone A-B-C residenziali, D industriale, E agricola; zone che nei piani si sono moltiplicate all’infinito, la fantasia degli urbanisti è senza limiti. Un cambio di destinazione di zona è considerato un peccato mortale, richiede una variante di piano con tutte le grane che ne conseguono. Il poveretto che la propone è considerato un malfattore che attenta alla verginità del piano urbanistico.
Nel mentre la attuale società cammina su percorsi completamente diversi, tutti all’insegna della flessibilità. Scusate se cito un esempio che mi riguarda. Tanti anni fa – era il 1977 – feci il PRG di Vicenza, il primo piano in Italia, insieme a quello di Bergamo, completamente basato sulla trasformazione delle aree industriali dismesse. Ben 12 Piani particolareggiati che segnavano la transizione della città dal secondario al terziario. In vent’anni tutte le aree sono state trasformate, al posto dei capannoni industriali sono sorti complessi per uffici, in buona parte banche, e centri commerciali. Adesso la Popolare di Vicenza è andata in malora, buona parte degli edifici sono vuoti. L’amico Giovanni Crocioni sta rifacendo il piano regolatore. Mi metto nei suoi panni: cosa ci metterà dentro?
Il virus ha ulteriormente aggravato la situazione. A Milano i grattacieli per uffici sono occupati per il 20/30%, e dopo la pandemia con lo smart working probabilmente sarà peggio ancora.
Annie Hidalgo sindaca di Parigi lancia “la città dei 15 minuti”: il percorso casa-lavoro deve durare al massimo 15 minuti, così si può fare in bicicletta. Sala a Milano segue l’esempio di Parigi. Forse è un’utopia, chi lo sa?
Un’idea sarebbe quella di ritrasformare almeno in parte in residenza i complessi terziari, fare alloggi più grandi dove si viva meglio in tempi di lockdown, ma che comprendano anche i nuovi spazi di lavoro.
L’esperienza del covit ha messo in primo piano il tema della flessibilità, anzitutto nel campo della sanità ma anche negli altri settori. I francesi da tempo hanno unificato il residenziale con il terziario e le attività produttive compatibili con la residenza. Solo le destinazioni impattanti nel contesto urbano – centri commerciali, terziari, industrie inquinanti – devono avere una regolamentazione urbanistica.
E’ tempo che anche noi ci incamminiamo su questa linea. La nostra disciplina urbanistica è vecchia, non corrisponde più alle esigenze della società. Non di manutenzione, non di integrazioni e modifiche (come dicono gli avvocati) c’è bisogno, ma di rivoluzione. Almeno così sarà servita l’esperienza del virus.
Buon lavoro a tutti.
Dionisio Vianello