Trump ha cambiato il linguaggio politico globale sul clima: effetti su Africa, Cina ed Europa
L’elezione di Donald Trump ha già avuto un impatto profondo non solo sulla politica statunitense, ma anche sul linguaggio politico globale.
La sua retorica anti-globalista, il suo scetticismo nei confronti del cambiamento climatico e la sua politica isolazionista hanno già modificato la narrazione dominante in diverse aree del mondo, portando a effetti molto diversi in Africa, Cina ed Europa.
Se negli Stati Uniti il concetto di sostenibilità è stato ridimensionato e spesso ridicolizzato, in altre parti del pianeta si è verificato un riadattamento strategico del discorso politico.
Africa: il clima è fuori dal dibattito, lo sviluppo è la nuova parola d’ordine
Un esempio emblematico di questo fenomeno si è visto nel recente summit di Dar es Salaam, in Tanzania, dove decine di paesi africani si sono riuniti con i principali istituti finanziari internazionali per annunciare un massiccio investimento nelle energie rinnovabili.
Un piano da 35 miliardi di dollari per portare elettricità a 300 milioni di persone ancora prive di accesso all’energia.
Sorprendentemente, la parola clima è stata quasi del tutto assente dai discorsi ufficiali. Akinwumi Adesina, presidente della Banca Africana di Sviluppo, ha parlato con enfasi dell’urgenza di fornire elettricità alle famiglie, evitando però di collegare il tema alla lotta contro il cambiamento climatico. Il motivo è chiaro: i leader africani hanno smesso di fare appelli ecologici perché sanno che le nazioni ricche non stanno mantenendo le loro promesse. Non vogliono più moralismi, vogliono investimenti immediati. Così, il linguaggio climatico viene rimpiazzato da un discorso puramente economico e sociale.
Cina: il clima diventa un affare strategico
Se in Africa il tema del clima viene evitato per convenienza politica, in Cina è stato trasformato in un’opportunità economica e geopolitica. Negli ultimi dieci anni, Pechino ha consolidato il proprio dominio nel settore delle energie rinnovabili, in particolare nel fotovoltaico. L’industria solare cinese è ormai una forza inarrestabile e la Cina ha capito che la transizione energetica è un business, non una battaglia ideologica.
A differenza dell’Occidente, dove la sostenibilità è spesso oggetto di dibattiti politici, la Cina la utilizza come leva strategica. Pechino si presenta come il principale fornitore globale di soluzioni energetiche pulite, vendendo infrastrutture a paesi in via di sviluppo senza nemmeno menzionare il cambiamento climatico. La narrazione è chiara: la sostenibilità non è una questione di coscienza ambientale, ma di crescita economica. Una strategia che le consente di rafforzare la propria influenza nel Sud del mondo, mentre gli Stati Uniti e l’Europa si dividono tra scetticismo e conflitti ideologici interni.
Europa: la parola green è diventata un campo di battaglia ideologico
Mentre in Africa il clima viene omesso e in Cina diventa un’opportunità di mercato, in Europa la transizione ecologica è diventata una delle questioni più divisive del panorama politico. L’onda sovranista, rafforzata anche dal populismo di Trump, ha trasformato il concetto di *green* in un simbolo delle élite globaliste e delle istituzioni di Bruxelles.
In Italia, Francia e Germania, le forze politiche emergenti non rifiutano necessariamente le energie rinnovabili, ma attaccano la retorica ecologista, considerata un’imposizione burocratica che penalizza l’industria e il ceto medio. Il Green Deal europeo è visto come un cavallo di Troia per l’austerità e la perdita di sovranità economica.
In questo contesto, la parola clima ha assunto un valore ideologico: per alcuni è sinonimo di progresso e responsabilità, per altri è diventata un termine da evitare, simbolo di politiche punitive e lontane dalle esigenze della popolazione.
Conclusioni: tre strategie, un unico cambiamento di paradigma
L’impatto di Trump sulla politica globale è stato, tra le altre cose, quello di ridisegnare i confini del linguaggio politico legato alla sostenibilità. L’Africa evita di parlare di clima e preferisce puntare su sviluppo e investimenti; la Cina trasforma la transizione ecologica in un’arma strategica per consolidare il proprio dominio; l’Europa è bloccata in un conflitto ideologico che ha reso la parola green un termine divisivo.
Ciò dimostra che il dibattito sul cambiamento climatico non è solo una questione scientifica o ambientale, ma è diventato un riflesso delle dinamiche geopolitiche ed economiche globali. Il lessico utilizzato dai leader mondiali non è mai neutrale: ogni parola, o assenza di essa, racconta una strategia precisa. E la sfida del futuro sarà proprio questa: trovare un linguaggio comune per affrontare il più grande problema della nostra epoca.
Nel frattempo, la temperatura media del pianeta ha già raggiunto il valore che l'Accordo di Parigi del 2015 voleva evitare: quell'aumento di un grado e mezzo che di fatto segna un primo punto di non ritorno.
Le conseguenze sono evidenti e solo chi si ostina a negare la realtà può non vederle: incendi più frequenti e devastanti, alluvioni catastrofiche, tornado sempre più intensi e siccità persistenti. Ma gli effetti si manifestano anche nei territori antropizzati, come lo spostamento delle coltivazioni di uva per la produzione di vino verso il nord o in altitudine, la riduzione delle risorse idriche per l'agricoltura, l'erosione delle coste con il rischio di sommersione di intere comunità e la desertificazione di aree un tempo fertili. I cambiamenti sono ormai tangibili in ogni angolo del pianeta e richiedono un'azione immediata e concreta.
Ecco perché con Ingenio continueremo ad affrontare il tema della lotta al cambiamento climatico con determinazione e costanza, utilizzando un linguaggio chiaro e rigoroso, basato sui dati prodotti da chi studia il fenomeno con serietà.
È fondamentale impedire che l'ideologia negazionista guadagni terreno e che il terrapiattismo antiscientifico prenda il sopravvento.
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