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Transizione e Comunità Energetiche tra passato, presente e futuro: opportunità, criticità e sfide

Transizione e Comunità energetiche sono arrivate a un bivio, con nuovi rischi e nuove opportunità per il futuro. È cambiato tutto il contesto geopolitico, avvalorando non il sospetto ma la constatazione che la strada sin qui seguita richiede cambiamenti rilevanti. Ciò che non è cambiata è l’importanza decisiva per lo sviluppo del Paese.
È quindi opportuno fare il punto della situazione, analizzando cosa e perché è successo, in modo da riflettere meglio sulle possibili strade da prendere.

La transizione energetica: come è nata

Conviene partire dall’inizio. Sono passati ormai vent’anni da quando si è cominciato a parlare di transizione energetica. All’origine di tutto c’è il lavoro di Charles Keeling (1928-2005), un eccezionale chimico statunitense che si era dedicato alla geochimica e alla climatologia.

Prima di lui uno scienziato svedese (Svante Arrhenius, 1859-1927) aveva cercato di calcolare l’impatto dell’aumento di CO2  sulla temperatura globale.

Keeling si dedicò a misurare l’andamento dell’inquinamento da CO2. Quando cominciò a lavorare, non esistevano gli strumenti tecnici e analitici per fare le misure e dovette crearseli.

Arrivò così a determinare l’importantissima curva (detta curva di Keeling) relativa all’inquinamento ambientale da anidride carbonica. Le misure furono fatte nel laboratorio di Mauna, che ha particolarità molto rilevanti. Si trova in un punto al di sopra del fenomeno dell’inversione della temperatura marina, emergendo in uno strato d’acqua più calda (pulita) al di sopra di un sottostante strato più freddo (inquinato). L’aria indisturbata, la posizione remota e le minime influenze della vegetazione e dell’attività umana consentono una condizione quasi ideale per monitorare le condizioni ambientali.

Keeling scoprì anche i fenomeni del cosiddetto ‘respiro ambientale’, a cui corrispondono oscillazioni sistematiche dell’inquinamento.

La meteorologia aveva fatto i primi passi sin dal 1850, raccogliendo dati di temperatura da termometri di terra e di mare disposti in vari punti del pianeta. Progressi tecnologici (in particolare i satelliti) hanno consentito, dal 1970 in poi, misurazioni sempre più estese e precise.

L’analogo andamento crescente delle due curve (inquinamento da CO2 e variazioni della temperatura globale) autorizzò il sospetto che i due fenomeni fossero in qualche modo correlati e che questa correlazione avesse un’origine antropica, conseguenza delle attività umane.

  

   

Uno degli allievi di Keeling era Al Gore, vicepresidente degli Stati Uniti con Bill Clinton (1993-2001) e sfortunato candidato presidenziale nelle successive elezioni. Dopo la morte di Keeling (2005) Al Gore realizzò un report e un film documentario (An Inconvenient Truth), coronati da un Nobel e da un Oscar.

Da quel momento esplose l’attenzione mediatica mondiale, che ha trovato il suo punto più alto nell’attività del gruppo intergovernativo IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) delle Nazioni Unite.

Ciò che era un sospetto è diventato una verità conclamata, rispetto alla quale ogni minimo dubbio era subissato da iracondo disprezzo. Previsioni catastrofiche sulla possibile distruzione del pianeta hanno portato ad accordi internazionali (come l’accordo di Parigi COP 2015 e le successive COP), che hanno coinvolto quasi tutti i Paesi del pianeta nell’obiettivo di mitigare il cambiamento climatico di origine antropica.

Nessuno può mettere in dubbio che la temperatura globale del pianeta stia aumentando. Analogamente nessuno può mettere in dubbio che alcune azioni umane abbiano un effetto negativo sulla salute dell’ambiente.

Le ovvie conseguenti domande sono: quanto incidono le azioni umane nell’aumento della temperatura? Quali sono le azioni più nocive da correggere?

  

Le risposte incerte

Nel rispondere alle domande, dobbiamo avere ben chiaro che non abbiamo ancora strumenti concettuali e analitici per trovare risposte affidabili. Un conto è dare indicazioni qualitative, tutt’altra cosa è azzardare valutazioni quantitative.

Il problema è complicatissimo. Fare previsioni meteorologiche a lungo raggio su tutto il pianeta è decisamente aleatorio. Fare previsioni sull’inquinamento antropico significa prevedere dinamiche economiche e sociali su tutto il pianeta, con situazioni diversissime da Paese a Paese.

Mettere insieme le due cose per capire le interazioni e prevedere la temperatura globale del pianeta su una scala temporale di decine di anni non è molto lontano del tirare a indovinare. In pratica si va avanti a più o meno a spanne.

Allo stato delle nostre conoscenze non può essere diversamente. Bisogna umilmente ammettere che non abbiamo modelli matematici affidabili e verificabili secondo il comune senso ingegneristico.

Da tempo (COP di Parigi, 2015) le organizzazioni internazionali hanno posto il valore di 1,5 °C come limite entro il quale bisogna contenere entro il 2050 l’aumento della temperatura globale rispetto al periodo pre-industriale, pena effetti disastrosi che potrebbero mettere in pericolo la sopravvivenza umana.

Questo limite però è già stato quasi superato. Certamente gli eventi atmosferici pericolosi si moltiplicano, con intensità sempre maggiori. Le preoccupazioni aumentano, ma non siamo ancora alla catastrofe. Però non possiamo fare spallucce e rimanere inerti. Qualcosa dobbiamo fare. Dobbiamo anzitutto capire quali sono le azioni umane più pericolose. Anche questa non è una cosa semplice.

Alcuni (molti premi Nobel) mettono al primo posto l’aumento della popolazione mondiale. Altri puntano il dito sull’uso smodato del territorio (agricoltura e allevamento), sul ricorso eccessivo ai fossili, sugli stili di vita superiori alle possibilità.

Anche se non è al primo posto nella classifica di pericolosità, tutti convergono sulla necessità di ‘decarbonizzare’ i processi energetici (ossia di ridurre l’uso delle energie fossili quali carbone, petrolio, gas in quanto la loro combustione provoca gas inquinanti (CO2 in primo luogo, ma non solo).

Decarbonizzare sinteticamente viene definita come ‘transizione verde’, il cui l’obiettivo di produrre energia elettrica (usando fonti rinnovabili non inquinanti, come acqua, sole, vento...) e di razionalizzare l’uso dell’energia (migliorando l’efficienza dei processi energetici e riducendo gli sprechi).

Sullo sfondo rimane immanente una perplessità su un possibile delirio di onnipotenza dell’uomo. Le forze che la natura mette in campo sono ben maggiori di quelle che possono essere sviluppate dall’uomo. I grandi mutamenti climatici fanno parte della lunghissima storia del pianeta e certamente non sono stati di origine antropica.
Che le azioni umane possano modificare drammaticamente le condizioni ambientali in negativo (creando le condizioni per una catastrofe ambientale del pianeta) o in positivo (correggendo le evoluzioni ambientali in atto) è un approccio concettuale che solleva parecchi dubbi. C’è troppa sproporzione di forze. In ogni caso queste perplessità non possono però essere una giustificazione per non fare niente o fare poco.

La transizione giusta

I progressi economici dei principali Paesi sono stati sin qui basati sulla disponibilità di energia fossile a basso costo. Rinunciare all’uso delle energie fossili mette in crisi il sistema produttivo sin qui utilizzato, con contraccolpi economici e sociali.

Nel linguaggio politico la ‘transizione verde’ è adesso sostituita dalla ‘transizione giusta’, che cerca di mettere assieme le preoccupazioni ambientali con i rischi economici e sociali.

Già l’ultima COP di Baku (2024) aveva cambiato direzione, riducendo di molto l’enfasi sulla eliminazione delle energie fossili, che addirittura non vengono neanche menzionate nel documento finale.

Trump ha dato adesso una botta tremenda, partendo dall’idea che l’enfasi sulla transizione energetica sia una bufala inventata dai cinesi per attaccare la competitività americana. Gli Stati Uniti quindi si sono ritirati dalle COP e riprendono a estrarre e usare le energie fossili. C’è il rischio di un effetto valanga negli altri Paesi. Molti dei Paesi poco sviluppati interpretano la transizione energetica come una sorta di rivalsa economica sui Paesi che in passato hanno inquinato (e che ovviamente non sono d’accordo).

L’Unione Europea è particolarmente impegnata nella decarbonizzazione, con direttive che prevedono la progressiva riduzione dell’uso dei fossili, sino ad arrivare al 2050 con una prospettiva ‘carbon free’.

La direttiva europea 2018/2001 (RED II) fornisce un quadro di riferimento, nel quale trovano posto concetti come le comunità energetiche e gli autoconsumatori collettivi, in modo da favorire l’indispensabile coinvolgimento degli utenti nell’installazione e nell’uso di energie rinnovabili.

La direttiva europea RED III (novembre 2023) ha posto l’obiettivo molto sfidante di raggiungere entro il 2030 una quota di consumi da energia rinnovabile pari al almeno il 45% dei consumi totali.

  

Decarbonizzazione e smart grid

Le preoccupazioni ambientali si sommano a rischi geopolitici di altra natura, a partire dall’indipendenza energetica per arrivare alla convenienza economica. Sotto questo aspetto energie rinnovabili come sole e vento presentano indubbi vantaggi. La loro disponibilità non dipende da fattori geopolitici. La loro convenienza economica aumenta sempre più rapidamente.

L’evoluzione tecnologica consente oggi di produrre energia elettrica da rinnovabili con impianti più piccoli vicini ai consumi, con costi competitivi rispetto alle energie fossili utilizzate nelle grandi centrali.

È così partito lo sviluppo della generazione distribuita. Ciò ha comportato un drastico cambiamento dei paradigmi di base dell’infrastruttura elettrica in tutti i suoi aspetti, dalla generazione sino agli usi finali, passando per la trasmissione e la distribuzione.

I vecchi paradigmi ipotizzavano flussi unidirezionali di energia dalle centrali agli utenti. La generazione distribuita, con flussi d’energia di direzione variabile e in parte incontrollabili, ha creato situazioni completamente diverse.

L’infrastruttura elettrica è il più grande manufatto creato dall’uomo, con miliardi di componenti che lavorano insieme.

Per fare posto alla generazione distribuita le reti elettriche devono necessariamente evolvere verso le cosiddette smart grid, affiancando nuovi sistemi di gestione e controllo basati sull’informatica e sull’automazione.

Cosa è una Smart Grid

Una Smart Grid è un sistema elettrico avanzato che integra tecnologie digitali di sensori, comunicazione e controllo per monitorare, gestire e ottimizzare in tempo reale l’intero ciclo dell’energia elettrica (produzione, trasmissione, distribuzione e consumo). Grazie alla raccolta e all’analisi continua dei dati, la Smart Grid abilita l’automazione delle reti, il bilanciamento dinamico del carico, la riduzione delle perdite e l’integrazione di fonti rinnovabili e sistemi di accumulo, garantendo maggiore efficienza, affidabilità e sostenibilità rispetto alle reti elettriche tradizionali.

Inevitabilmente la complessità delle smart grid porta alle mini smart grid, basate sul concetto di suddividere il sistema elettrico in sottosistemi più piccoli, in grado di avere un maggior grado di autonomia e responsabilità, evitando di intasare la rete con flussi che possono essere contenuti all’interno del sottosistema e riducendo il rischio di fenomeni a cascata.

Le mini smart grid interconnettono fonti di generazione distribuita e carichi all’interno di un perimetro ben definito, con possibilità di operare sia in connessione alla rete locale sia eventualmente in isola (magari con funzionalità ridotte).
In questa evoluzione è fondamentale il coinvolgimento degli utenti, chiamati a realizzare impianti di generazione rinnovabile e a usare l’energia in modo diverso.

 

Esempio di Smart Grid complessa
Esempio di Smart Grid complessa (@Sunis You)

  

 Investire nelle rinnovabili

Il ricorso alle rinnovabili non ha solo una valenza ambientale. Per molti Paesi (e particolarmente per l’Italia) le rinnovabili possono contribuire decisamente all’indipendenza e alla sicurezza energetica. Sole e vento non dipendono da fattori geopolitici.

Le energie rinnovabili consentono anche una riduzione dei costi, per la cui valutazione conviene fare riferimento al cosiddetto Levelized Cost of Energy (LCOE), espresso in $/MWh.

Il LCOE rappresenta il costo medio per produrre un megawattora di energia elettrica durante l’intero ciclo di vita di un impianto di generazione, tenendo conto dei costi di capitale, dei costi operativi e dell’effettivo utilizzo.

LCOE è un parametro significativo, ma va accompagnato da altre valutazioni.

Comunque, tanto per dare un’idea, la tabella riporta una panoramica dei costi medi LCOE di generazione elettrica per alcune delle principali fonti energetiche. Si tratta di valori medi approssimati, che possono variare a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di mercato.

 

Confronto dell'LCOE tra diverse fonti di energia
Confronto dell'LCOE tra diverse fonti di energia

 

Per il fotovoltaico le valutazioni sono molto diverse quando si passa dai grandi impianti agli impianti sui tetti residenziali (decisamente più costosi, fra il doppio e il triplo).

La tabella va considerata una sintesi molto sommaria, soggetta a rilevanti cambiamenti, anche perché il mercato dell’energia è molto ballerino. Per informazioni più dettagliate, rimandiamo al Renewable Energy Report 2024 (Politecnico di Milano) e allo LCOE Report 2024 (Lazard).

Comunque, a valle di tutte le precisazioni, è chiara la convenienza di usare eolico e fotovoltaico, che però sono fonti energetiche aleatorie. Le batterie possono ridurre l’aleatorietà, ma si attendono ulteriori sviluppi tecnologici per arrivare alla fattibilità su larga scala e alla convenienza economica.

Lo sviluppo delle rinnovabili va quindi inevitabilmente accompagnato da sistemi non aleatori di produzione elettrica. Torna prepotentemente in ballo l’opzione nucleare, resa più attraente dalle nuove tecnologie (in particolare con i nuovo piccoli reattori modulari SMR in fase di sviluppo).

 

La transizione italiana

L’introduzione della generazione distribuita e delle mini smart grid nel sistema elettrico italiano è stata particolarmente travagliata. Per anni l’idea che dei clienti finali potessero mettersi insieme per produrre e usare energia elettrica è stata considerata quasi un’operazione blasfema, avente l’obiettivo di sottrarsi in modo fraudolento al pagamento delle spese elettriche generali.

Il cambio di atteggiamento per aprire il sistema elettrico alla nuova realtà delle generazione distribuita è stato quindi alquanto traumatico.

Alla fine, però, l’Italia ha recepito la direttiva europea RED II, con il decreto legislativo 199 dell’8 novembre 2021.

Via quindi alle rinnovabili e alle Comunità Energetiche, che nell’interpretazione italiana sono una versione molto (ma molto) ridotta delle mini smart grid teorizzate dallo sviluppo tecnico-scientifico.

È ipocrita pensare che la molla principale della transizione energetica italiana sia solo la preoccupazione ambientale. Sotto questo aspetto l’Italia ha già fatto la sua parte e comunque il nostro Paese conta meno dell’1% rispetto all’inquinamento provocato da tutti gli altri Paesi.

Contano molto (o forse di più) le preoccupazioni sulla sicurezza e indipendenza energetica, oltre che sulla stabilità e sulla riduzione dei costi.

Per la transizione italiana conviene a questo punto richiamare da dove partiamo e quali sono gli obiettivi da raggiungere, secondo i piani facenti riferimento alle decisioni europee.

Per le rinnovabili, la tabella riporta l’evoluzione verso le rinnovabili dal 2022 sino al 2030, secondo i piani approvati.

   

Tabella sulla evoluzione italiana delle rinnovabili 2022-2030
Evoluzione italiana delle rinnovabili 2022-2030

  

La transizione prevista è ambiziosa. Per la produzione installata, di qui al 2030 bisognerebbe aggiungere 9-12 GW all’anno di potenza rinnovabile installata.

I ritmi di incremento sono ancora bassi: circa 5,2 GW nel 2023 e circa 7,5 GW nel 2025. Al ritmo attuale l’obiettivo 2030 potrà essere raggiunto con un ritardo di circa 10 anni, se tutto va bene. È quindi necessaria una decisa accelerazione.

Per i consumi energetici passare da una quota del 37,1% del 2022 a una quota del 63,4% nel 2030 richiede molti interventi, dall’aumento della produzione rinnovabile sino a una maggiore penetrazione del vettore elettrico sino, infine, a modifiche nello stile dei consumi.

In ogni caso senza il coinvolgimento attivo degli utenti finali (investimenti e comportamenti) non si va da nessuna parte. Sotto questo aspetto le Comunità energetiche rappresentano un tassello fondamentale per lo sviluppo del Paese.

  

Neutralità ed equità

L’evoluzione della transizione energetica è legata a tecnologie che evolvono con velocità mai riscontrata in passato. Queste tecnologie mettono in crisi il modello di sistema elettrico consolidato da tempo, che si era assestato da tempo in una posizione di equilibrio con gli stessi attori, gli stessi prodotti e variazioni marginali. Conviene tenere presente alcune considerazioni sull’equità e sulla neutralità del nuovo modello al quale tendere.

Con la generazione distribuita le novità tecnologiche hanno introdotto tecniche dirompenti, che comportano le cosiddette ‘discontinuità innovative’, a cui corrisponde una fase di sviluppo.

Un famoso economista (J. Shumpeter, 1883-1950) elaborò una legge economica che porta il suo nome (legge di Shumpeter) e che afferma che questa fase di sviluppo non può essere portata avanti dagli attori del precedente equilibrio, ma da nuovi imprenditori visionari, purchè posti in condizione di operare in un mercato con regole liberali (che non ostacolino l’innovazione competitiva) e con possibilità di disporre dei fattori produttivi (accedendo a crediti bancari). 

Da tenere presente è anche la dottrina di Bell, che fa riferimento alla causa USA 1982 per lo smembramento della monopolista AT&T delle telecomunicazioni.

Questa dottrina, confermata sperimentalmente da molti differenti casi, afferma che se c’è a monte un mercato di tipo monopolista (o oligopolista) che serve da ingresso a un mercato a valle poco regolato e che è vincolato da regole che non permettono al monopolista (o agli oligopolista) di sfruttare pienamente il loro potere di mercato, inevitabilmente il monopolista (o gli oligopolista) del mercato a monte faranno di tutto per controllare il mercato a valle, sbarrando il passo a possibili competitori e quindi mettendo in atto comportamenti anticompetitivi, che cercheranno di soffocare ogni innovazione potenzialmente in grado di indebolire il controllo da parte loro del mercato a valle.

In effetti il mercato delle comunicazioni fu totalmente cambiato non dagli attori precedenti, ma da un imprenditore che non proveniva dal precedente mercato e che con l’invenzione del cellulare ha completamente rivoluzionato il sistema delle comunicazioni, aprendone l’uso a soluzioni innovative prima neanche immaginate. Questo è solo uno dei tanti esempi di verifica della dottrina di Bell.

Questi avvertimenti economici vanno tenuti ben presenti quando si considera il mercato elettrico verso il quale tendere.

L’innovazione tecnologica della generazione distribuita ha creato una discontinuità innovativa in un sistema nel quale gli attori a monte dei contatori alimentano il sistema a valle degli utenti, che, se non protetti adeguatamente, rischiano di vedersi sbarrata la strada a innovazioni a loro beneficio a favore della sola innovazione a beneficio degli attori a monte.

   

Le CACER

Il legislatore italiano, recependo la direttiva comunitaria RED II, ha introdotto le CACER (Configurazioni di Autoconsumo per la Condivisione dell’Energia Rinnovabile).

Sono modelli organizzativi che permettono a soggetti diversi di produrre, condividere e consumare energia elettrica da fonti rinnovabili.

Questi soggetti possono essere consumatori (utenti con solo consumo di energia elettrica), produttori (con sola produzione di energia elettrica), prosumatori (che contemporaneamente producono e consumano).

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Energie rinnovabili e autoconsumo: direzione giusta?
Approfondimento sul decreto CACER del MASE, emanato il 7 dicembre 2023: riflessioni sul meccanismo normativo messo in piedi e sulle perplessità che lo accompagnano.

Il legislatore italiano ha previsto diversi tipi di CACER:

  • CER Comunità energetiche rinnovabili: insieme di cittadini, piccole e medie imprese, enti territoriali e autorità locali, incluse le amministrazioni comunali, cooperative, enti di ricerca, enti religiosi, enti del terzo settore e di protezione ambientale, che condividono l’energia elettrica rinnovabile prodotta da impianti nella disponibilità di uno o più soggetti associatisi alla comunità. Sono soggetti giuridici di diritto autonomo senza scopo di lucro. La forma societaria ha molta importanza e condiziona aspetti rilevanti ai fini IVA e Irpef.
  • AUC Gruppo di autoconsumatori di energia rinnovabile, che agiscono collettivamente; insieme di almeno due soggetti distinti, facenti parte della configurazione in qualità di membri attivi (produttori, prosumatori) e passivi (consumatori), con almeno due punti di connessione distinti a cui siano collegati rispettivamente un'utenza di consumo e un impianto di produzione. Riguardano edifici e strutture condominiali. Possono essere avviate con semplici delibere assembleari;
  • AID Autoconsumatore individuale a distanza di energia rinnovabile: un cliente finale che condivide l'energia prodotta dagli impianti a fonti rinnovabili ubicati in aree nella sua piena disponibilità per autoconsumarla virtualmente nei punti di prelievo dei quali è titolare.

Tutti i membri delle varie CACER devono essere alimentati dalla stessa cabina primaria. Ogni struttura deve avere un referente a cui compete la gestione.

La normativa è decisamente contorta. I procedimenti burocratici sono abbastanza arzigogolati. Infatti, non appena sono stati disponibili i testi normativi, la chiarezza (!) era tale che sono fioccati convegni e incontri per capire cosa fare, come interpretare le varie disposizioni, quali procedure seguire.

A valle delle prime esperienze, è adesso disponibile un abbondante materiale in linea (molto chiaro e ben fatto quello disponibile sul sito GSE, che mette anche a disposizione una piattaforma informatica come ausilio alla progettazione). Utile anche la piattaforma ENEA.

Le CACER hanno come obiettivo principale quello di fornire benefici ambientali, economici e sociali a livello di comunità. È escluso ogni obiettivo di realizzare profitti finanziari.

Dal punto di vista della struttura elettrica, erano possibili due soluzioni, brevemente definibili come user-centric e user-peripheric.

Nella soluzione user-centric la CACER va vista come un singolo utente finale, che può gestire la distribuzione elettrica e i contatori al suo interno, o con l’acquisto o con l’affitto.

Nella soluzione user-peripheric le linee di distribuzione e i contatori rimangono nella piena disponibilità dei concessionari esistenti.

Non è necessaria nessuna modifica elettrica. L’aggregazione avviene solo a livello software, gestita dal GSE, con il meccanismo del cosiddetto autoconsumo virtuale.

Il normatore italiano ha blindato la soluzione user-peripheric, proibendo tassativamente la soluzione user-centric.

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Si ringrazia l' Ordine degli Ingegneri della Provincia di Torino per la gentile collaborazione.

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