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Sicurezza negli ambienti di lavoro: che cosa sono i COV (o VOC) e quanto sono pericolosi

Per quanto costituiscano un problema estremamente diffuso, è spesso complicato distinguere tra i diversi inquinanti presenti nell'aria che respiriamo: in questo, i COV o VOC (Composti Organici Volatili) non fanno eccezione. Conoscerne le specificità, tuttavia, facilita il lavoro di chi studia il modo di migliorare la qualità della vita dei lavoratori nei diversi ambienti di vita.

Cosa sono i COV (Composti Organici Volatili)?

Col generico acronimo "COV" si è soliti riferirsi ad un'ampia categoria di sostanze dette "Composti Organici Volatili"[1] tra cui figurano molteplici sostanze chimiche caratterizzate da gruppi funzionali diversi tra loro e con comportamenti chimico-fisici difformi, ma tutte accomunate da un'elevata volatilità, ossia da una marcata attitudine − tipica, ad esempio, di certi solventi organici[2] − a passare allo stato di vapore a temperatura ambiente, miscelandosi facilmente con l'aria e, in certi casi, con l'acqua.

Tra i COV, figurano diverse varietà ordinarie di:

  • idrocarburi alifatici (es. butano, propano ecc.), comunemente allo stato liquido e impiegati per l'estrazione dei grassi, ovvero per rimuovere macchie, smalti, pitture[3]. Sono piuttosto diffusi, ad esempio, nei pro-fumi, nei propellenti, nei refrigeranti e/o negli insetticidi;
  • idrocarburi aromatici (es. benzene, toluene, xilene ecc.) che rivestono, tra l'altro, un ruolo primario nel contesto dell'industria petrolchimica (carburanti) e della produzione dei polimeri;
  • alogenoderivati (es. alcuni pesticidi e sgrassatori), alcoli e aldeidi, nonché un'articolata serie di composti di cloro e/o fluoro come i clorofluorocarburi (CFC) e gli idroclorofluorocarburi (HCFC)[4].
Struttura del butano (a sinistra) e del toluene (a destra)
Figura 1 - Struttura del butano (a sinistra) e del toluene (a destra)

  

Con ciò, sin dal nostro primo approccio ad un argomento così vasto, appare evidente che l'esatta classificazione di una o più sostanze all'interno di questa macro-categoria imponga il ricorso a criteri rigorosi e in continuo aggiornamento, anche in riferimento alla ricerca scientifica e alla normativa internazionale.

Se, ad esempio, la Direttiva 2004/42/CE definisce i COV come "qualsiasi composto organico avente un punto di ebollizione iniziale pari o inferiore a 250 °C, misurato ad una pressione standard di 101.3 kPa" (Art. 2, Comma 5) e ne riporta un inquadramento su base applicativa (Allegati I e II)[5], l'Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) applica una differente classificazione, distinguendo tra composti organici:

  • molto volatili (VVOC) con un punto di ebollizione da < 0 a 50-100 °C;
  • volatili (VOC) con un punto di ebollizione da 50-100 a 240-260 °C;
  • semivolatili (SVOC) con un punto di ebollizione da 240-260 a 380-400 °C;
  • associati a materiale particolato (POM) con un punto di ebollizione superiore a 380 °C.

Un'ulteriore classificazione[6], ripartisce i composti organici volatili in:

  • biogenici, se emessi in natura (es. terpeni);
  • antropogenici, se emessi in conseguenza di attività umane (es. solventi derivati dal petrolio).

Per quanto concerne specificamente le emissioni atmosferiche antropogeniche, la Direttiva UE 2016/2284 ha introdotto la categoria dei COVNM (Composti Organici Volatili Non Metanici) da intendersi come "tutti i composti organici, diversi dal metano, che possono produrre ossidanti fotochimici per reazione con gli ossidi di azoto in presenza di radiazioni solari" (Articolo 3, Comma 7) e ponendo l'accento sul fatto che i COV, mediante reazioni fotocatalitiche, possano produrre "smog fotochimico" che va ad aggiungersi al novero dei numerosi inquinanti già comunemente presenti nell'aria.

 

Classificazione dei COV secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
Figura 2 - Classificazione dei COV secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)

In modo più intuitivo, l'esperienza diretta ci mostra come la produzione di COV sia associabile ad una grande varietà di fonti, siano esse all'aperto (sorgenti outdoor) o al chiuso (sorgenti indoor), in rapporto agli effetti prodotti da:

  • veicoli, macchinari, attrezzature e impianti (industriali, ma anche civili, es. i comuni impianti di riscalda-mento domestico);
  • materiali costruttivi (es. laminati trattati con formaldeide, tappezzerie, moquette ecc.), isolanti e/o di rivestimento (anche a scopo decorativo, funzionale e/o protettivo);
  • sostanze e miscele (es. biocidi, colle, resine, deodoranti, vernici, pesticidi, cosmetici, smalti ecc.);
  • abitudini quotidiane (es. la cottura dei cibi, il fumo di tabacco e sigarette ecc.).

  

Quanto sono pericolosi i COV?

Dando per assunto che i COV sono estremamente comuni e che, in parte, derivano da fenomeni naturali (es. come nel caso dei terpeni provenienti dagli oli essenziali di origine vegetale), l'attenzione si concentra necessariamente su quella varietà di composti che possono rappresentare un rischio per la salute umana: non a caso, negli ultimi trent'anni si è accresciuto in modo via via più rilevante l'interesse nei confronti dell'inquinamento atmosferico in genere così come dello studio dei danni correlati a singole sostanze di pericolosità conclamata (es. classificate dalla IARC come cancerogene e/o mutagene).

In quest'ottica, al netto di una crescente tendenza rivolta all'attività sistematica di ricerca e sostituzione sul mercato delle sostanze giudicate più nocive (es. CFC, cloruro di metilene, MTBE ecc.), resta la consapevolezza che − trovandoci nell'impossibilità di creare e mantenere ambienti di vita ad "emissioni zero" − diventa cruciale valutare fattori ulteriori, quali:

  • il tasso di evaporazione e la concentrazione dei COV stessi;
  • la compresenza di altri inquinanti (es. particolato atmosferico, radon[7] ecc.)
  • i criteri di ventilazione degli ambienti al chiuso;
  • il tipo di attività svolte negli ambienti in analisi e il relativo impegno aerobico (più o meno intenso);
  • il tempo di esposizione di ogni soggetto in funzione del suo metabolismo e di altri parametri specifici legati al suo profilo (es. genere, età, patologie pregresse ecc.) nonché alla capacità polmonare individuale (che può variare da 0.4 a 0.7 m3/h negli adulti in salute, riducendosi ad es. nei fumatori e nei bambini);
  • dall'esistenza di particolari ambiti nei quali la limitata disponibilità di spazio (es. mezzi di trasporto colletti-vi) e/o la presenza di vincoli strutturali (es. edifici storici) vincola fortemente le possibilità di adottare le migliori soluzioni tecniche teoricamente esistenti.

Il ragionamento che ne deriva prende dunque le mosse da un assunto di base, ovvero dalla constatazione che il nostro stile di vita ci porta, mediamente, a trascorrere al chiuso circa il 90% del nostro tempo e che, di conseguenza, la concentrazione di COV negli ambienti indoor − specie in presenza di fonti emissive continuative e di un ridotto ricircolo dell'aria − risulta dalle 2 alle 5 volte maggiore rispetto a quelli rilevati all'aperto[8] generando effetti sulla salute riconducibili ad un duplice profilo di tossicità:

  • di tipo acuto (a breve termine), dovuta ad una limitata (o intermittente) esposizione nell'arco di una giornata e legata ad effetti moderati (es. mal di testa, nausea, irritazioni a occhi, gola e naso, dispnea, vertigini, asma ecc.);
  • tossicità di tipo cronico (a lungo termine), imputabile ad un'esposizione continuata nel tempo e in grado di originare danni più gravi che vanno solitamente ad interessare il sistema nervoso centrale, i reni e/o il fegato dando origine a patologie il cui decorso può manifestarsi anche dopo anni, rendendone difficile la diagnosi e la cura tempestiva.

   

I COV negli ambienti di lavoro

Se le considerazioni sin ora poste appaiono interessanti in sé per quel che concerne le attività quotidiane, a prescindere dal loro contesto e finalità, ecco che guadagnano un'importanza particolare nel momento in cui ci concentriamo sugli ambienti lavorativi anche e soprattutto alla luce delle ulteriori complessità legate al difficile equilibrio tra le legittime aspettative in fatto di qualità dell'aria da parte di tutti i soggetti coinvolti e le responsabilità di chi, come il Datore di Lavoro, è chiamato a garantire elevati standard di sicurezza, igiene e salubrità dei luoghi di lavoro nel loro complesso.

In quest'ottica, l'obiettivo delle "emissioni zero" rappresenta − per lo più − un traguardo utopistico perché:

  • il monitoraggio e la gestione in continuo della qualità dell'aria sono processi normalmente soggetti ad un margine di errore residuale, anche in relazione alle soglie di rilevamento poste dalla normativa;
  • la problematica è trasversale a pressoché tutti i settori applicativi ed è complicata dalla concomitanza con altre priorità di pari (o superiore) importanza (es. ambienti ATEX);
  • alcune tipologie di comparti (specie nell'ambito dell'industria di processo e/o petrolchimica) non possono eliminare né sostituire a priori le sostanze a fondamento delle particolari attività di trasformazione, stoccaggio e distribuzione cui sono deputate.

Resta inoltre l'incognita rappresentata dall'evoluzione dei processi d'avanguardia che, inevitabilmente, intro-duce un fattore d'incertezza per quel che concerne l'evenienza legata al rilascio imprevisto di COV nel corso di attività non tradizionali (è il caso delle problematiche allo studio negli ultimi anni per quel che riguarda la stampa 3D[9]), il che ci riporta ad una delle sfide più difficili che si pongono a quanti si occupano professionalmente di sicurezza sul lavoro, ossia comprendere quali eventuali risvolti nocivi caratterizzino le nuove tecnologie ai loro esordi.

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Si tratterà di come rilevare i COV e come gestire la qualità dell'aria.

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