T.U. Edilizia
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Si fa presto a dire Nuova Costruzione

Articolo di approfondimento inerente l'articolo 3 del DPR 380/01, che si è fatto carico di definire la “nuova costruzione” in modo unificato su tutto il territorio nazionale nell’intento di dirimere ogni dubbio in merito e, soprattutto, di rendere di facile individuazione l’atto abilitativo dovuto in funzione del tipo di opera

Ermete Dalprato esamina e approfondisce i contenuti dell'articolo 3 del DPR 380/01, che si è fatto carico di definire la “nuova costruzione” in modo unificato su tutto il territorio nazionale nell’intento di dirimere ogni dubbio in merito e, soprattutto, di rendere di facile individuazione l’atto abilitativo dovuto in funzione del tipo di opera.
Ha adottato allo scopo il criterio di residualità deformandolo però con l’introduzione di specifici interventi che ricomprendessero anche le trasformazioni immateriali del territorio (come voleva l’abrogato articolo 1 della legge n. 10/77). Poi ha ri-applicato il criterio di residualità per la individuazione dell’atto dovuto (articoli 6, 10,22 e, oggi, anche 6-bis). La realtà dei fatti ha dimostrato la sostanziale difficoltà di funzionamento del sistema - che ancora non è stata risolta dai successivi e ripetuti interventi legislativi - dovuta alla sostanziale incongruenza concettuale conseguita all’“inquinamento” originario del metodo che impone un’urgente rimessa a sistema non solo con interventi tampone

Fino al Testo Unico dell’Edilizia il Legislatore non aveva mai definito cosa fosse la “nuova costruzione”.

L’esigenza di una definizione nazionale unica delle tipologie di intervento edilizio nasce nel 1978...

La precedente occasione in cui aveva ritenuto di definire le varie modalità di intervento sulle costruzioni unificandone una volta per tutte la descrizione a livello nazionale era stato nella legge n. 457/78 quando aveva introdotto l’articolo 31. Il quale però si fermava a definire gli interventi sull’edilizia già esistente disinteressandosi della definizione di cosa fosse la nuova costruzione, dandola per scontata e lasciandola “al buon senso” e al “comune sentire”.

Intervento comunque meritevole (ancorché limitato) quello della legge n. 457/78 non solo per aver disciplinato in modo più tecnico una materia fino a quel dì lasciata alla discrezionalità definitoria dei singoli strumenti urbanistici locali, ma soprattutto per averne imposto (aver cercato di imporne) la prevalenza immediata sulle discipline locali a volte veramente fantasiosa.

Per cui dalla mattina alla sera fu disposto che la Manutenzione Straordinaria (tanto per fare un esempio) fosse la stessa da Torino a Palermo, cosa che prima non era perché ogni singola amministrazione comunale aveva definito la “propria” manutenzione, ad uso e consumo delle “proprie” finalità locali, coniando addirittura terminologie tanto nuove quanto specifiche. Certamente sovrabbondanti, che tendevano a piegare la normativa tecnica a fini sostanzialmente impropri, generando una totale confusione lessicale e, quel che è peggio, una disparità di trattamento tra comune e comune.

L’articolo 31 della legge n. 457/78 titolava “Definizione degli interventi” ma in realtà si limitava agli “interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente” dando quindi per scontato che tutti fossimo d’accordo sul concetto di “nuova costruzione” che evitava di affrontare.

e si espande nel 2001

Quando il Legislatore mise mano al Testo Unico però sentì il bisogno (o l’opportunità) di ampliare questo “pacchetto di definizioni” disciplinando questa volta anche cosa fosse la “nuova costruzione.

Lo fece all’articolo 3 (ancora denominandolo “Definizioni degli interventi edilizi”) ri-utilizzando il preesistente articolo 31 della l. 457/78, un po’ (forse) per semplicità, un po’ (forse di più) per necessità (perché il Testo Unico (essendo redatto su delega del Parlamento) non poteva introdurre norme nuove, ma solo riordinare quelle esistenti.

Così facendo cercava di non far apparire che l’innovazione apportata al testo dell’articolo 31 della legge n. 457/78 fosse davvero tale, ma fosse invece un semplice riordino. Ma in realtà l’innovazione c’era, eccome.
Sta di fatto che pensò di cavarsela con poco non dando una definizione effettivamente nuova, ma usando il criterio di residualità, dicendo in pratica: tutto ciò che non è intervento sull’esistente è “nuova costruzione”.

Questo dice la lettera e) dell’articolo 3 del DPR 380/01 - aggiuntiva delle lettere da a) a d) tratte pari pari dal previgente articolo 31 della legge n. 47/85 -.

Definire senza definire: il criterio di residualità

Questo modo di procedere (nel non definire ex novo, ma per esclusione) comprendendo in una categoria residuale tutto ciò che non sta in quelle precedenti puntualmente definite, di solito funziona egregiamente perché non lascia fuori nessuno, ma, nel caso delle costruzioni qualche imbarazzo lo ha creato sia negli inclusi che negli esclusi.

In realtà però la necessità di definire la nuova costruzione nascondeva in effetti un secondo recondito fine e cioè quello di poter accoppiare ad ogni tipo di intervento edilizio il corrispondente dovuto atto abilitativo; in altri termini dall’inquadramento del tipo di intervento dell’articolo 3 si doveva poter passare con certezza al titolo dovuto che, all’epoca era inquadrato:

  • nell’articolo 6 (nulla) = edilizia libera;
  • nell’articolo 10 (permesso) = nuova costruzione;
  • nell’articolo 22 (all’epoca d.i.a. poi diventata s.c.i.a.) = tutto ciò che non è edilizia libera o nuova costruzione (individuabile quindi ancora col principio di residualità).

(Soprassediamo al fatto che oggi esiste anche la c.i.l.a. e la c.i.l.)

Però la duplice applicazione del principio di residualità rendeva fondamentale la definizione di nuova costruzione, che diventava perno di snodo dell’atto dovuto e, per di più, della rilevanza penale dell’intervento.

Il sistema funziona bene se la definizione del “perno” (la nuova costruzione) è tassativa; se non lo è il sistema scricchiola.

E se la definizione è residuale e quindi necessariamente non tassativa per definizione – perché ricomprende tutto l’indistinto scarto delle definizioni puntuali dalle lettere da a) alla d) dell’articolo 3 -, il sistema scricchiola.

Questo è il punto debole concettuale che ha inficiato il metodo: la doppia applicazione del criterio residuale. C’è stato però anche un secondo elemento di criticità del metodo.

La (doppia) forzatura della definizione

Se nella lettera e) dell’articolo 3 ci si fosse fermati al solo primo capoverso (l’applicazione del principio di residualità) omettendo le specifiche delle lettere e) da 1 a 7) il metodo di far discendere il titolo dovuto dall’inquadramento della tipologia di intervento (come sopra illustrato) avrebbe escluso dall’obbligo del permesso quelle “attività comportanti trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale” per le quali già dal 1977 l’articolo 1 della legge n. 10 aveva imposto la “concessione edilizia”. Ovvero quelle “trasformazioni dell’uso del territorio” attuate senza manufatti e non comprese nella “Definizione degli interventi edilizi” per il solo fatto che “edilizi” non sono.

Chiaramente però non si poteva disattendere il “principio” introdotto dalla legge n. 10/77 esonerando queste “attività non costruttive” dall’obbligo del permesso.

Il Legislatore allora ha forzato la norma dell’articolo 3 lett. e) riportando dentro la definizione di costruzione ciò che (nel comune sentire) costruzione non è.

Così alle lettere e.3) ed e.7) ha introdotto nella “nuova costruzione” anche alcuni interventi di “trasformazione in via permanente del suolo inedificato” che certamente costruzioni non sono e che in comune con le costruzioni vere e proprie hanno solo la caratteristica di “trasformare in via permanente” il suolo inedificato.

Così la lettera e) è stato aggiunto che “sono comunque da considerarsi” nuova costruzione:

  • “e.3) la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato;


  • e.7) la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato”;

Il che è una evidente doppia forzatura:

  • concettuale perché smentisce il principio di residualità (che per sua natura non ammette definizioni, perché appunto comprende ciò che sta fuori dalle categorie definite);
  • logica e di buon senso perché appare di tutta evidenza che non si può definire costruzione ciò che non ha consistenza materiale.

E ciò fu fatto al solo fine di ricondurre all’obbligo del permesso anche le trasformazioni senza opere edilizie.

Il Legislatore ha operato però in modo frammentario e incompleto perché non ha ricompreso tutte le trasformazioni del territorio senza opere, ma solo quelle elencate, facendo illudere che le altre ne fossero escluse, quando invece la disposizione dell’articolo 1 della legge n. 10/77 era ampia e concettualmente onnicomprensiva di tutte (ma proprio tutte) le trasformazioni permanenti del territorio (con o senza opere).

Se si fosse voluto trasporre il concetto dell’articolo 1 della legge n. 10/77 senza alterare il contenuto dell’articolo 3 (sulle categorie edilizie) riaffermando contestualmente la necessità del permesso anche per “operazioni meramente urbanistiche”, sarebbe bastato aggiungere all’elenco dell’articolo 10 anche le mere “trasformazioni urbanistiche” permanenti. Così la disposizione avrebbe avuto portata generale inequivocabile.

Ma così il Legislatore non ha fatto. E l’articolo 10 del Testo Unico (pur dichiarandosi nel sottotitolo del testo in G.U. la trasposizione dell’articolo 1 della legge n. 10/77) non riporta il concetto in modo altrettanto chiaro.

Un’invasione di campo dell’Urbanistica in una regolamentazione Edilizia

A voler essere raffinati dobbiamo riconoscere che nell’articolo 3 lett. e) del DPR 380/01 il Legislatore ha (in modo un po’ maldestro) fatto un’invasione di campo introducendo il concetto urbanistico di trasformazione del territorio in uno strumento normativo che avrebbe dovuto trattare solo dell’edilizia (se è vero che si chiama Testo Unico dell’Edilizia) e quindi ha “deformato” la definizione di “costruzione” (che è una definizione edilizia) dilatandola fino a diventare comprensiva di operazioni tipicamente urbanistiche.

Intervento, come si è visto, per di più parziale e incompleto che può aver dato luogo ad errate interpretazioni e certamente ad un articolo “ibrido”.

Disposizione normativa che la giurisprudenza ha integrato recependo e confermando di fatto il pur abrogato articolo 1 della legge 10/77 come principio generale tutt’ora valido (si veda, in continuità ante e post: CdS sez. V, n. 524/1982 - Cass. Pen. sez. III, n. 3107/2000; CdS, sez.IV, n.5539/2011; CdS sez. IV, n. 2915/2016; CdS, sez. V n. 3990/2018).

La corretta interpretazione del coordinato normativo dell’articolo 3 e dell’articolo 10

Il Legislatore si è limitato a redigere l’elenco di interventi dell’articolo 10 premettendo che : “Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: ….”.

Se vogliamo ridare respiro più ampio all’articolo 10 ri-attribuendogli il contento concettuale derivato dall’articolo 1 della legge n. 10/77 (di cui è l’erede) dobbiamo attribuire contenuto sostanziale (e non solo descrittivo) all’incipit dell’articolo e interpretarlo così: “Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e (solo in quanto tali) sono subordinati a permesso di costruire: ….” gli interventi dell’elenco seguente e, contestualmente, ritenere che il riferimento alla trasformazione permanente del territorio sia estesa a tutte le situazioni aventi tale effetto e non solo a quelle elencate alle lettere e.3) ed e.7) dell’articolo 3.

L’evidente asimmetria dell’estensione del concetto di nuova costruzione con le definizioni della totale difformità da permesso

L’operazione dell’estensione del concetto di costruzione anche alle situazioni di alterazione permanente del territorio esenti da costruzioni è poi anche distonico con l’articolo 31 del DPR 380/01 (già articolo 7 della l.n.47/85) che – parlando delle difformità dal permesso di costruire – fa riferimento espresso al concetto di costruzione in senso materiale (per così dire, tradizionale) visto che così si esprime: “Sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile”.

Il ripetuto riferimento ad un “organismo edilizio” e a “volumi” oltre i limiti autorizzati rende evidente che il Legislatore si riferisca a un manufatto edilizio e non a un mero uso del territorio e rende incongrua ancor di più la definizione “allargata” di Nuova Costruzione dell’articolo 3 del DPR 380/01.

La defatigante successione di ulteriori norme

Ma la definizione di nuova costruzione tramite il criterio di residualità e il suo automatico riversarsi nell’esigenza del permesso di costruire risulterà alla prova dei fatti troppo generica e inclusiva, anche per altri aspetti, come dimostra l’esorbitante successione di provvedimenti normativi (nazionali e regionali) tesi a individuare categorie intermedie di opere e attività al fine di escluderle dal permesso.


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Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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Il D.P.R. 380/2001 (più conosciuto come Testo unico per l'edilizia) definisce le regole fondamentali da seguire in ambito edilizio.

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