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Ristrutturazione edilizia in fascia di rispetto stradale

Edificabilità e ristrutturazioni edilizie in fascia di rispetto stradale: per il Consiglio di Stato, le definizioni tecniche delle categorie di intervento sono universali e ad esse ci si deve riferire in tutti gli interventi edilizi.

Il tema della edificabilità in fascia di rispetto stradale ha portato qualche dubbio applicativo a seguito di una certa giurisprudenza (recentemente la sentenza della Cassazione Civile del 2015) che – nonostante l’evoluzione normativa operata dal DPR 380/01 alla definizione della ristrutturazione comprensiva anche della demolizione integrale e successiva ricostruzione - riteneva di dover ricondurre la ricostruzione nell’ambito della nuova costruzione.

Motivi concettuali fondanti dell’urbanistica inducevano a non condividere tale lettura, che oggi il Consiglio di Stato porta a fondamento di una recente sentenza (n. 2957/2021) che l’Autore esamina sviluppandone in dettaglio i principi che la sorreggono.


Con la sentenza della Sezione I, n. 2656 dell’11.02.2015, la Cassazione Civile aveva affermato che la demolizione integrale e successiva ricostruzione in fascia di rispetto stradale non poteva essere consentita perché - nel caso specifico delle fasce di rispetto - il concetto (o, meglio, la definizione) di ristrutturazione edilizia non poteva essere dedotta dal Testo Unico dell’Edilizia.

E questo perché gli articoli 26 e 28 del Regolamento di Esecuzione e Attuazione del Codice della Strada laconicamente ingiungono il divieto di ricostruzioni “conseguenti a demolizioni integrali”.

Non chiariva bene da cosa dovesse dedursi questo strabismo interpretativo, lo dava per scontato perché non entrava nel merito tecnico e non dava un’interpretazione alternativa, per cui se ne deduceva che bisognava rifarsi presumibilmente ad un concetto intuitivo e primordiale, previgente alla definizione normativa che il Legislatore aveva elaborato (faticosamente) nel tempo nel DPR 380/01.

La competenza per materia

Il che appariva una palese contraddizione con l’asserto della Corte Costituzionale che aveva statuito che le definizioni del Testo Unico dell’Edilizia sono principi inderogabili della materia tesi ad uniformare i comportamenti della Pubblica Amministrazione (in tutte le sue varie articolazioni) sull’intero territorio nazionale.

E confliggeva altresì con lo sforzo normativo di omogeneizzazione del lessico (e dei concetti fondanti) che il Legislatore persegue da tempo con l’emanazione di provvedimenti unificanti e “prevalenti” (dalle “definizioni Tecniche Uniformi” dell’Intesa Stato-Regioni del 2016, all’Allegato “A” del d.lgs. 222/2016, al Glossario dell’Edilizia libera, …).

Per di più – anche sotto il profilo cronologico – la norma del Testo Unico dell’Edilizia doveva prevalere come definizione subentrata (e analitica) della definizione generica del Codice della Strada per cui non si comprendeva il motivo di doversi discostare dalle sue definizioni .

E’ vero che nel 1992 (data di emanazione del Codice della Strada e relativo Regolamento) la definizione di ristrutturazione non comprendeva la demo-ricostruzione per cui la lettura della Cassazione Civile sarebbe stata congrua con la definizione della norma edilizia vigente all’epoca (art. 31 della legge n. 457/78), ma da quella data in poi il concetto di ristrutturazione ha subìto sostanziali innovazioni (per le motivazioni di cui si dirà tra poco) per cui non si comprende per quale motivo - nel solo ambito della sua applicazione alle norme di tutela delle strada - la definizione della ristrutturazione avrebbe dovuto restare impermeabile all’evoluzione normativa creando così uno strabismo interpretativo.

La decisione della Cassazione aveva però portato un po’ di sconcerto negli operatori pubblici inducendo molti – vista l’autorevolezza della fonte – ad assumere un conforme orientamento.

L’escamotage nella pratica

Come si dice “fatta la legge trovato l’inganno”.

Poiché tale interpretazione risultava fortemente lesiva degli interessi privati (oltre che, come diremo, illogica) nella pratica ha indotto comportamenti di elusione della disposizione consistente nella consuetudine di evitare formalmente la “integrale demolizione” mantenendo in essere monconi parziali di edificio (comunque insignificanti dal punto di vista sostanziale) con la conseguenza di rendere inutilmente più onerosi gli interventi e spesso anche più pericolosi per il rischio di indurre dei crolli in strutture quasi sempre fatiscenti.

Si trattava di un’evidente “finzione” – proposta dai privati interessati e tacitamente assentita dalle pubbliche amministrazioni - al solo scopo di non perdere il diritto alla ricostruzione in sito aggirando la norma (o, per dir meglio, l’interpretazione della norma).

L’evoluzione giurisprudenziale

Non tutta la giurisprudenza – neppure quella successiva – era però conforme all’orientamento della Cassazione (come si deduce ad esempio da Corte di Cassazione Penale Sez. III, n.11505/2019; TAR Abruzzo Pescara n. 252/2018; TAR Lazio-Latina n. 151/202) e manteneva riferimento al Testo Unico dell’Edilizia. Che ad oggi viene ancor più confermato dalle recentissime sentenze (entrambe del 18 gennaio scorso) della Cassazione Penale n. 1669 e del Consiglio di Stato n. 616, che indiscutibilmente riconoscono universalità ai concetti attuali della ristrutturazione ricostruttiva.

Anche personalmente non ho mai condiviso l’interpretazione della Cassazione Civile di cui abbiamo detto, che mi è sempre parsa concettualmente errata e immotivata nel merito proprio con riferimento ai “principi” della materia cui, come sempre, ritengo ci si debba richiamare per una corretta interpretazione.

Il fondamento dell’urbanistica: la “trasformazione del territorio” (le preesistenze)

Infatti il motivo della non condivisione non risiedeva solo nel fatto che l’eccezione interpretativa di inquadrare la “demolizione-ricostruzione” nella “nuova costruzione” e non nella “ristrutturazione” in caso si fosse in fascia di rispetto stradale violasse il principio dell’uniformità delle definizioni tecniche, ma in quanto lede un principio cardine dell’intera materia urbanistico-edilizia risalente almeno alla legge n. 10/1977.

La quale – all’articolo 1 titolato “Trasformazione urbanistica del territorio e concessione di edificare.” recitava: -“Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge.”

A qualcuno potrà esser sfuggito – o non noto visto che si tratta di legge risalente – ma questa affermazione (di principio) fu determinante per statuire che il momento saliente ai fini urbanistici è quello in cui è avvenuta la “trasformazione del territorio” che cristallizza anche la legittimità dell’assetto consolidatosi.

E’ da questo asserto che consegue poi tutta la regolamentazione edilizia (ovvero di quali siano i titoli abilitativi dovuti; che saranno):

  • permessi (e cioè atti amministrativi veri e propri che “autorizzano ex novo”) se introducono qualcosa di più rispetto al preesistente;
  • o semplici s.c.i.a. (o c.i.l.a.) – e cioè comunicazioni di partese consolidano semplicemente il preesistente; e ciò perché il preesistente, avendo già comportato la “trasformazione del territorio”, ha già di per sé il “diritto” ad esistere ed essere conservato (in efficienza).

Non si dimentichi che il patrimonio immobiliare – ancorché privato – è un “bene” della collettività”.

Le definizioni edilizie sono (devono essere) figlie dei principi dell’urbanistica

Su questo principio (sancito almeno fin dal 1977) si evolve dunque tutta la normativa delle autorizzazioni/comunicazioni edilizie, anche se la limpidezza e semplicità del suo assunto è stata offuscata da una pletora di denominazioni delle tipologie di atti (concessioni, permessi, d.i.a., s.c.i.a., c.i.l.a., c.i.l.a.s., …).

Dietro a tutta questa (spesso sovrabbondante) diversificazione lessicale sta un elementare principio di “governo del territorio” che ha presieduto a tutta l’evoluzione normativa dei criteri di identificazione della “legittimità delle preesistenze” (sancito da ultimo dall’articolo 9 del DPR 380/01), ed anche la definizione di “ristrutturazione edilizia”.

Definizione che si è coerentemente evoluta ricomprendendo appunto nella “ristrutturazione” (e non nella “nuova costruzione”) ciò che già preesisteva (legittimamente s’intende) in quanto già aveva comportato la “trasformazione” del territorio.

Addirittura la modifica del concetto di ristrutturazione (già a decorrere dal 2013 col d.l. n. 69) ha riconosciuto la preesistenza non solo di ciò che ancor oggi esiste, ma anche di ciò che esisteva nel passato ed oggi non esiste più, per essere “crollato” o anche “demolito” intenzionalmente.

Nel ripristino il limite alla “risalenza” del preesistente e la condizione della “stessa consistenza”

Concetto quest’ultimo condivisibile ai sensi del principio dianzi affermato fondato sul concetto dell’avvenuta “trasformazione del territorio”, a condizione di porre un limite ragionevole alla retroattività nel tempo dell’accertamento della preesistenza, per evitare di risalire fino al periodo delle guerre puniche.

Con un’ulteriore precisazione in caso di edifici crollati e/o demoliti: che si tratti di “ripristino”, ovvero di conservazione della “preesistente consistenza” (che è qualcosa di più del solo volume).

Ma di questo abbiamo già detto (Per gli edifici crollati il Consiglio di Stato circoscrive i confini della ristrutturazione ricostruttivacui facciamo rinvio) a commento della sentenza n. 616/2023 della Sez.VI, con cui il Consiglio di Stato ha inteso porre questo limite temporale e condizione fisica.

Se questi sono i principi che reggono il “governo del territorio” appare invero incongruo (immotivato e, in fin dei conti, irragionevole) discostarsi dalla definizione di ristrutturazione delineata dall’articolo 3, lett. d) del DPR 380/01 negando che la demolizione (anche integrale) con ricostruzione del preesistente sia una ristrutturazione e volendola inquadrare invece nella “nuova costruzione”, distorcendo così l’unicità delle definizioni tecniche e (ancor di più) smentendo la coerenza con i “principi” della materia.

Il Consiglio di Stato riporta l’interpretazione a coerenza con i principi

E’ in base a queste considerazioni che - trattando appunto della ricostruzione di un manufatto integralmente demolito in fascia di rispetto stradale, ma ricostruito “in ogni sua parte conforme alla precedente struttura” - il Consiglio di Stato (sentenza della Sezione Seconda in sede giurisdizionale n. 2957 del 12.04.2021), in diverso avviso della Cassazione (e smentendo una sentenza TAR-Marche Sez. I, n 361/2011 che alla Cassazione si era allineata) afferma che le definizioni tecniche delle categorie di intervento sono universali e ad esse ci si deve riferire in tutti gli interventi edilizi.

Conclude infatti tassativamente che una diversa interpretazione che volesse diversificare il concetto di ristrutturazione in applicazione del Codice della strada rispetto al Testo Unico dell’Edilizia condurrebbe ad un “esito diseguale in assenza di specifiche ragioni giustificatrici”.

Il che trova la nostra piena adesione per i motivi già esposti di coerenza ai concetti fondanti della pianificazione, che finalmente potrà rendere trasparenti, congrue e realistiche le modalità di intervento sugli edifici.


LA SENTENZA 2957/2021 DEL CONSIGLIO DI STATO E' SCARICABILE IN ALLEGATO PREVIA REGISTRAZIONE AL PORTALE

Allegati

Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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