Riccardo Morandi: dal mio punto di vista
Un elogio a ricordo di Riccardo Morandi di Enzo Siviero
Il 2018 sarà ricordato per la tragedia del Polcevera a Genova e per lo scempio che si è fatto della figura di Riccardo Morandi.
Per molti “personaggi in cerca di autore” i capolavori di Morandi sono diventati sinonimo di ponti che crollano! Ancor prima di comprendere le vere cause del collasso pressoché istantaneo del “monumento”, perché tale va considerato per Genova il Polcevera, molti (troppi?) si sono spinti a “vituperare” senza alcuna reale cognizione di causa, uno dei più grandi ingegneri del’900.
Personalmente ho avuto modo di incontrare Morandi a Treviso negli anni ottanta in occasione di un seminario promosso dalla MAC (ai tempi d’oro di questa azienda leader nel settore degli additivi per calcestruzzo) sul tema degli edifici alti! Ricordo benissimo l’emozione nello stringere la mano al Nostro che già allora era considerato un mito.
Già all’epoca avevo dimestichezza con altri grandi dell’ingegneria strutturale, che tanto mi avrebbero influenzato con il loro carisma: Fritz Leohnardt, Hüber Rüsch, Karl Kordina, Jörg Schlaich, giusto per citarne alcuni. Ma anche con i protagonisti indiscussi dell’ingegneria strutturale italiana; tra i molti ricordo: Arturo Danusso, Eugenio Miozzi, Carlo Cestelli Guidi, Giulio Krall, Guido Oberti , Silvano Zorzi, Fabrizio De Miranda, Pietro Matildi, Franco Levi, Giulio Pizzetti, Elio Giangreco, Piero Pozzati, Giorgio Romaro, Francesco Martinez Y Cabrera e ovviamente, il mio maestro Giorgio Macchi.
La mia particolare attenzione per i Ponti si stava sviluppando con tumultuoso interesse.
Avevo da poco iniziato il filone delle tesi di laurea sulla storia dei ponti in Italia e sui loro autori. E il gigante Riccardo Morandi (di cui avrei curato una delle prime tesi) mi era ben noto da tempo. Durante i miei studi di ingegneria a Padova dal ‘63 al ‘69 ero già affascinato dalle sue realizzazioni in tutto il mondo. Un vessillo di italianità di cui noi studenti di ingegneria andavamo fieri unitamente alle grandi imprese di costruzioni che stavano realizzando molto anche all’estero.
Così, quando nel ‘70 il mio compagno di studi Roberto Franchin ebbe l’opportunità di andare a Roma a lavorare proprio da Lui, il mio primo impulso fu di poterlo raggiungere a mia volta e realizzare così il mio sogno.
Ricordo bene che all’epoca, dopo aver realizzato Maracaibo e Polcevera era in corso di esecuzione il Wadi Kuf in Libia e a seguire il Baranquilla, giusto per citare i più noti ponti cosiddetti “Morandi” per il brevetto depositato.
Una bella prospettiva proprio del Wadi Kuf donatami dal mio amico Franchin ornava una parete del mio studio e il fascino di quell’opera mi prendeva tutto. Ebbi anche modo di visitarlo in uno dei miei tanti viaggi in Libia e ne serbo un ricordo indelebile. La potenza di un gesto progettuale unico faceva mostra di se orgogliosa di esibirsi in tutto il suo fascino straordinario.
Era destino che dei ponti mi sarei innamorato perdutamente.
Di Morandi conoscevo bene anche i ponti ad arco. In particolare lo Storms River in Sud Africa e il Bisentis a Catanzaro. Entrambi innovativi per l’arditezza della concezione ove architettura e struttura erano pressoché indistinguibili.
A Catanzaro sarei andato molti anni più tardi rimanendo estasiato da un’opera che marcava il luogo quasi identificandosi con esso. Intelligentemente valorizzata dalle luci notturne che ne evidenziavano l’indiscussa bellezza. Se possibile, forse uno dei più bei ponti italiani del secolo scorso.
Qualche anno prima e non lontano da Catanzaro, Adriano Galli aveva realizzato in quel di Gimigliano, altro straordinario ponte ad arco.
Non avrei mai immaginato allora , che con il nuovo millennio lo avrei letteralmente “salvato” da una sentenza capitale troppo affrettata e poco ponderata. Un orgoglio infinito di cui ancor oggi mi inorgoglisce. Un salvataggio che purtroppo pochi anni dopo non mi sarebbe riuscito con il Polcevera di Genova. Molto ho scritto e molto mi sono adoperato per impedire questo scempio.
Del resto ricordo bene che l’ultima grande mostra al Beaubourg di Parigi (prima della sua chiusura per una ampia e costosissima ristrutturazione a fine anni ‘90) dedicata proprio agli ingegneri, tra i protagonisti indiscussi dell’ingegneria civile italiana figuravano solamente tre soggetti: Giovanni Antonio Porcheddu (licenziatario del sistema Hennebique in Italia primo grande costruttore di ponti in calcestruzzo armato agli inizi del ’900 ), Pier Luigi Nervi e ovviamente Riccardo Morandi.
Una mostra che ebbi modo di visitare più volte, accompagnato anche dai curatori, primo fra tutti Marc Mimram che avevo già invitato a Venezia per l’inaugurazione della sua mostra alla Fondazione Masieri.
Perché dunque demonizzare un gigante dell’ingegneria mondiale come Riccardo Morandi prima di aver compreso appieno i veri motivi del crollo? A nulla vale il dissenso per questo gesto iconoclasta inutilmente costoso e con tempi molto dilatati rispetto alla più logica “sistemazione” e irrobustimento di quanto rimasto limitando la ricostruzione alla sola parte strallata! Nulla di nulla! Un’ipotesi mai presa in considerazione per ordine di tipo meramente “politico”, che porterà molti danni alla città di Genova.
Attila non è mai morto! Sarà la storia a giudicare! Ma di certo, il “perdona loro perché non sanno quel che fanno” proprio non si addice. L’oscurantismo impera e con esso è tornato il medioevo!
Questo articolo fa parte di un approfondimento curato da Enzo Siviero su Riccardo Morandi visibile a questo LINK.
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