Quando l'Urbanistica era un'Arte
Mentre in questo periodo siamo tutti affannati a cercare di capire come applicare le agevolazioni finanziarie del Superbonus, l’Autore affronta l’analisi di quale sia stata l’evoluzione concettuale e di contenuti dell’Urbanistica dai suoi primi passi dall’inizio del secolo scorso ad oggi e come si sia evoluto (o involuto) il quadro tecnico-normativo di riferimento che porta poi quelle limitazioni operative di cui tutti (operatori e non) si lamentano e che va sotto il nome generico di "burocrazia"
Quadro tecnico-normativo diventato sempre più formal-giuridico piuttosto che tecnico relegando la professionalità tecnica a un ruolo quasi marginale.
Una riflessione utile a riscoprire di cosa ci sia bisogno per rinnovare la materia partendo dalle radici culturali; prima della “rigenerazione urbana” - di cui si parla tanto in questo periodo e di cui il Super-bonus è un parziale aspetto operativo - forse bisogna anche ripensare alla “rigenerazione delle regole dell’urbanistica”.
“Alcuni architetti assumono il tema urbanistico quasi come un pretesto per esibire fantastiche scenografie spesso geniali e presentate ad arte, ma del tutto prive di contenuto concreto, a detrimento di un più approfondito studio delle realtà pratiche e tecniche le quali, soprattutto unitamente a concezioni architettoniche di insieme, da un tale problema esigono essere risolte”.
Questo affermava Plinio Marconi (ingegnere, architetto, urbanista) nella prima metà del secolo scorso quando l’urbanistica italiana muoveva i primi passi progettuali dopo la fine della prima guerra mondiale, e lo diceva preoccupato che l’urbanistica dell’epoca (ancora un po’ naif nei suoi modi di esprimersi) si presentasse spesso come rappresentazione scenografica della città, fantasiosa (artistica appunto) dimostrando la sua derivazione dall’architettura cui risultava condizionata non avendo ancora trovato una sua autonomia espressiva.
Autonomia e “complessità” di contenuti e, dunque, di competenze anche (e soprattutto) tecniche, che invece Marconi auspicava ritenendo fossero la vera discriminante di questa nuova materia. Tanto da sostenere che l’urbanistica è sì “arte robusta e completa” in cui però la “sensibilità e la tecnica debbono essere intese unitariamente ed ogni valore contenuto nel suo giusto piano”.
L’urbanistica dunque come “materia complessa e interdisciplinare”, non scevra da intuizione e originalità, ma saldamente radicata all’attuabilità delle scelte operate, alla loro aderenza alla realtà e in grado di risolvere i problemi.
Quasi un secolo fa questa concezione era indubbiamente innovativa e fondante per dare una configurazione “moderna” ad una materia che si esprimeva ancora spesso e volentieri in modo estetizzante.
Basterebbe consultare le cartografie che accompagnavano i piani regolatori di quel tempo per vedere come spesso le soluzioni territoriali erano espresse (o comunque illustrate) con rappresentazioni scenografiche più consone ad una architettura urbana che ad una vera e propria pianificazione tecnica.
Era l’epoca in cui si stavano applicando anche le prime tecniche di “zonizzazione”, tecniche libere, non ancora declinate in modo rigoroso e dunque di fatto sperimentali in cui ogni pianificatore ci metteva del suo.
Il richiamo di Plinio Marconi era dunque ad un maggior contenuto tecnico delle scelte di piano per dare “identità” a questa neonata materia. Di cui peraltro teorizzava l’importanza dell’adeguamento dinamico.
Per lungo tempo gli urbanisti si sono cimentati nella ricerca (e, quindi, nella individuazione) dei suoi contenuti e dunque anche nella sua definizione.
Dalla concezione di fine 800 (cui si riferiva Plinio Marconi) alla metà del 1900 si coglie un’evoluzione radicale dell’originaria concezione a contenuto artistico fino a portare qualcuno a definire l’urbanistica addirittura “una scienza”.
Da Camillo Sitte, che nel 1889 diceva che “Con il termine “urbanistica” (urbanisme, town planning, urban planning, stadtebau, urbanismo) si è voluta intendere la cosiddetta “arte di costruire la città”, si passerà a Giovanni Astengo che nel 1964 affermerà che “L’urbanistica è la scienza che studia i fenomeni urbani in tutti i loro aspetti” e così ancora a Luigi Piccinato che confermerà “È la scienza che si occupa della razionale sistemazione degli agglomerati urbani … “.
Da arte a scienza il salto concettuale non è breve.
Personalmente, anche se in disaccordo con gli autorevoli urbanisti che ho citato (l’ho scritto in epoca non sospetta), ritengo che l’urbanistica non sia una scienza perché le scienze (teoriche o sperimentali che siano) presuppongono la ripetitività degli esiti a parità delle condizioni di partenza e se c’è qualcosa di indiscutibile è che a parità di condizioni di avvio le soluzioni urbanistiche saranno sicuramente divergenti a seconda di chi le progetta.
Se l’urbanistica è un “progetto” (e deve essere un progetto), il progetto è sempre frutto anche delle intuizioni, della creatività, della cultura personale e non solo del bagaglio di conoscenze (queste sì magari scientifiche) del progettista.
Progettare su basi scientifiche non vuol dire produrre scienza, vuol dire produrre tecnica.
Ho sempre sostenuto (e, anche se dicono che cambiare parere è sintomo di intelligenza, continuo ostinatamente a sostenere) che l’urbanistica è una “disciplina”, ovvero un “complesso di regole” finalizzato ad un risultato; anzi ho sempre aggiunto “una disciplina di relazione” che ricerca l’ottimizzazione (la mediazione) di una serie di fattori (sociali, economici, ambientali, infrastrutturali, ….). Come tale basata su conoscenze tecnico scientifiche ma poi mediate, interpretate e finalizzate da “scelte politiche” che certamente scientifiche non sono (e non devono essere).
Per fortuna sono in buona compagnia perché già nel 1859 Ildefonse Cerdà la pensava così: “È l’insieme degli atti che tendono a creare un raggruppamento di costruzioni ed a regolarizzare il loro funzionamento, …” (insieme degli atti, cioè una disciplina) e, più recentemente in modo esplicito, anche Ludovico Quaroni ritiene che “E’ la disciplina che studia il fenomeno urbano nella sua complessa interezza, onde fornire su di esso dati conoscitivi …”.
Potremmo dire anzi (la definizione non è mia) che l’urbanistica è “un’attività politica assistita tecnicamente”; perché alla base ci stanno (e ci devono stare) scelte politiche.
Certo che dall’epoca di Plinio Marconi ne è passata di acqua sotto i ponti a cominciare dal fatto che la “zonizzazione” da libera tecnica concettuale di origine razionalista ha assunto rango di definizione giuridica (dapprima con la legge urbanistica fondamentale del 1942 tradotta poi nel d.m. 1444 del ‘68) con ciò cristallizzandosi nelle definizioni di legge che diventano addirittura condizione di legittimità dei piani.
E qui sta la prima svolta concettual/culturale: con la traduzione legislativa una tecnica redazionale (che all’inizio era solo tecnica) diventa precetto giuridico. Vincolante e, necessariamente, rigido.
L’obbligatorietà dell’applicazione di tecniche certe ha dato uniformità ai prodotti (i piani regolatori), ma li ha ingabbiati in formalismi amministrativi.
In questo senso assume attualità e coerenza la definizione implicita che ne dà il decreto legislativo n. 616 del 24 luglio 1977 quando all’articolo 80 (attribuendo le funzioni amministrative di cui occuparsi) riconosce l’urbanistica come “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”.
Una “disciplina” appunto, non una scienza. Dunque un insieme di “regole”.
Da quella data però l’insieme di regole è lievitato in modo (come adesso è di moda dire, anche se molti non ne conoscono neppure il significato) “esponenziale”, direi più prosaicamente “abnorme”, tanto da soffocare quella creatività che Plinio Marconi voleva sì contenere, ma non annullare del tutto.
Si è assistito ad un progressivo scivolamento dall’urbanistica “disegnata” con contenuti architettonico-scenografici verso un’urbanistica astrattamente prefigurata da norme a contenuto (prevalente) sempre più giuridico che tecnico.
Prova ne è che al suo presidio (e cioè ai posti della dirigenza delle strutture della Pubblica Amministrazione a questo dedicate) siedono sempre più frequentemente professionalità giuridico-economiche anziché tecniche; cosa impensabile qualche decennio fa, a conferma che la professionalità tecnica è considerata sempre meno influente nella sua applicazione (e fors’anche nella sua concezione).
Il “Governo del Territorio” viene sempre più spesso affidato alla cura e al pensiero di chi non ha mai tenuto la matita in mano per disegnarlo.
Siamo ben lontani alle teorizzazioni dell’“idea di città” dell’otto-novecento.
Se Marconi raccomandava che l’urbanistica si preoccupasse di stabilire regole tecniche che fossero anche rispettose di quelle giuridiche (per potere poi essere attuabili), direi che oggi siano quasi sempre solo preoccupati che le regole siano giuridicamente corrette … e basta.
La pianificazione – che è tipicamente attività progettuale tecnica (prevalentemente tecnica) – sta diventando attività prevalentemente giuridica.
L’ingegnere, l’architetto, il pianificatore hanno lasciato il posto all’avvocato.
Oggi non si mette più mano alla redazione di un piano se il giurista non dà l’assenso; per non parlare poi dell’interpretazione normativa, dove ogni tecnico prudente (e chi non vuol essere prudente al giorno d’oggi) non si espone se non ha l’appoggio e in conforto morale dell’angelo custode giuridico.
Le professioni tecniche hanno perso autorevolezza in questo campo.
Colpevole forse l’organizzazione degli studi “per materie” che porta alla fallace convinzione dell’autosufficienza e all’indisponibilità alla “contaminazione”. Le responsabilità paiono diffuse: professionali, istituzionali, accademiche. In una parola: Culturali.
Così, anche in campo legislativo si sta attribuendo eccessiva importanza alla legislazione e ci si compiace quando “abbiamo una nuova legge” come se l’urbanistica si facesse sulla legge e non nei piani e fare la legge risolva da sola i problemi.
Anche perché sono necessariamente leggi “di procedura” visto che ancora non siamo stati in grado di produrre una “legge di principi”, annunciata già dal 1967 ma su cui siamo fermi alla “Bozza Lupi-Mantini del 2005.
Le leggi funzionano più o meno bene (quando funzionano) sui precetti negativi che sono controllabili e sanzionabili; funzionano meno bene su quelli propositivi perché dipendono dalla maturità e professionalità del destinatario; non è la procedura che fa i buoni piani: servono le buone scelte e la buona tecnica.
Le leggi – per essere “buone” – devono poi essere applicabili e applicate e per essere applicate bene devono essere all’altezza della preparazione culturale e tecnica degli operatori cui si rivolgono. Il che non è sempre così.
L’Urbanistica non sarà un’Arte, ma non può neppure essere ridotta ad un coacervo di norme giuridico-amministrative astratte e generali.
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