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Qualche riflessione sulla normativa del Testo Unico dell’Edilizia e l’incongruenza di alcune recenti modifiche

Continua la revisione e integrazione del Testo Unico dell’Edilizia per interventi settoriali e addirittura temporanei che non fanno bene alla leggibilità e interpretabilità della norma dal punto di vista logico.
L’Autore opera quindi una disamina del Testo e dei suoi contenuti evidenziando quali potrebbero essere le più efficaci modalità di utilizzarli per finalità di politica edilizia senza stravolgerne le basi portanti dell’impianto.

Forse è passato un po’ sotto silenzio, ma la casualità della recente crisi idrica ha dato l’occasione dell’ennesimo intervento di “semplificazione” in edilizia al d.l. n.39/2023 che (al proprio articolo 6) ha apportato integrazione all’articolo 6 del DPR 380/01 aggiungendo al comma 1 la nuova lettera e-sexies che ha iscritto tra le attività di edilizia libera, “le vasche di raccolta di acque meteoriche per uso agricolo fino a un volume massimo di 50 metri cubi di acqua per ogni ettaro di terreno coltivato, realizzabili anche mediante un unico bacino”.

E questa non sarebbe neppure una cosa originale: l’elenco dell’edilizia libera è in continuo aumento; quel che più sconcerta è però l’aggiunta del comma 1-bis - introdotto dalla legge di conversione n. 68/2023) che dispone “1-bis. Limitatamente alla durata della gestione commissariale di cui all’articolo 3 del presente decreto, agli interventi e alle opere di cui al punto A.19 dell’allegato A annesso al regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 13 febbraio 2017, n. 31, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, a condizione che gli stessi siano funzionali alle attività agro-silvo-pastorali, realizzati in scavo direttamente sul suolo agricolo, a fondo naturale, senza arginature emergenti dal suolo e senza l’impiego di conglomerati cementizi o altri materiali di natura edilizia”.

Anche queste opere vengono dunque iscritte all’edilizia libera, ma il Legislatore lo fa prendendola alla larga e rinviando all’Allegato A.19 del DPR 31/2017 che contiene un lungo elenco di opere minori già sottratte all’autorizzazione paesaggistica, ma non alla procedura edilizia; da oggi anch’esse diventano magicamente “edilizia” libera, ma solo per un periodo transitorio - attualmente non determinato ma stimabile al massino fino al 31.12.2024; poi torneranno ad essere opere “normali”.
All’edilizia libera “a termine” in effetti non eravamo abituati.

All’operatore di media cultura tecnica viene da chiedersi: “se le opere di edilizia libera sono tali perché non incidenti sul territorio né in termini urbanistici, né in termini edilizi (perché così le motiva il Testo Unico dell’Edilizia) queste opere dell’Allegato A.19 incidono o no?
Se sì dovranno essere di edilizia libera sempre, se no, neppure ora”. Non può essere un’incidenza temporanea; le opere temporanee sono tali perché poi vanno rimosse, queste rimarranno lì.
Non basta la contingenza commissariale per cambiargli “la classificazione tecnica”.

Al di là della finalità – sulla quale non si discute – la metodica con cui perseguire l’obiettivo della semplificazione appare invero disinvolta, illogica e – in fin dei conti - controproducente.
Vale la pena soffermarsi a fare qualche riflessione di contenuto e di metodo anche perché non è l’unico caso; esistono alcuni precedenti che già manifestavano preoccupanti sintomi di degenerazione (che abbiamo anche negativamente commentato) e, vista la piega che hanno preso le cose, non è detto che sia finita qui.

Alcuni precedenti: il caso del fotovoltaico.

Richiameremo allora l’articolo 7-bis, comma 5 del d.lgs. n. 28/2011 come modificato dall’articolo 9, comma 1 del d.l. n. 50/2022 di cui riportiamo un estratto: “…….. l'installazione, con qualunque modalità, anche nelle zone A degli strumenti urbanistici comunali, come individuate ai sensi del decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, di impianti solari fotovoltaici e termici sugli edifici, come definiti alla voce 32 dell'allegato A al regolamento edilizio-tipo, adottato con intesa sancita in sede di Conferenza unificata 20 ottobre 2016, n. 125/CU, o su strutture e manufatti fuori terra diversi dagli edifici, ivi compresi strutture, manufatti ed edifici già esistenti all'interno dei comprensori sciistici, e la realizzazione delle opere funzionali alla connessione alla rete elettrica nei predetti edifici o strutture e manufatti, nonché nelle relative pertinenze, compresi gli eventuali potenziamenti o adeguamenti della rete esterni alle aree dei medesimi edifici, strutture e manufatti, sono considerate interventi di manutenzione ordinaria e non sono subordinate all'acquisizione di permessi, autorizzazioni o atti amministrativi di assenso comunque denominati, ivi compresi quelli previsti dal codice dei beni culturali e del paesaggio, …”.
Anche qui la modifica cozza con il concetto di manutenzione ordinaria
– definibile anche “manutenzione riparativa” e dunque - escludente qualsiasi innovazione.
In questo caso appare anche più grave il fatto che si integra la definizione di manutenzione ordinaria surrettiziamente, senza darne atto nel testo “sacro” delle definizioni edilizie: l’articolo 3, comma 1, lett. a) del DPR 380/01.
La norma ora citata è per di più il controverso esito di una lunga storia di “indecisioni e ravvedimenti” del Legislatore di cui abbiamo già ampiamente dissertato in precedenza.
La conseguenza è che per conoscere le definizione della manutenzione ordinaria non sarà più sufficiente leggere il Testo “UNICO” dedicato alle definizioni delle tipologie degli interventi edilizi.

Il caso del superbonus

Anche di questo abbiamo già detto in passato sottolineando la non condivisibile riduzione definitoria di tutti gli interventi di “Superbonus” (siano essi di manutenzione e/o ristrutturazione) alla mera manutenzione straordinaria, ancor auna volta violando il principio di codificazione del Testo Unico al solo fine di dettarne una procedura unificata (per di più nuova: la C.I.L.A. semplificata).
Ma la vera ciliegina sulla torta sta nel fatto che anche questa catalogazione è:

  • provvisoria e limitata nel tempo (cioè una categoria di opere edilizie a scadenza !?! inconcepibile sotto il profilo logico) e addirittura …
  • … applicabile solo alle procedure di Superbonus (legata alla forma di finanziamento).
    Ancora una volta con un provvedimento estraneo al Testo “UNICO” dell’edilizia e non rinvenibile dalla “semplice” lettura dell’articolo 3.

Il fallimento dei tentativi di unificazione

Questo modo di procedere mina i ripetuti tentativi della unificazione della terminologia edilizia che lo stesso Legislatore intendeva ricondurre a manuali di ausilio operativo, da considerarsi “summa” certa e indefettibile delle norme vigenti (Allegato A al d.lgs. 222/2016 e Glossario dell’edilizia libera in G.U. 7.04.2018, n.81).

Questi provvedimenti non sono stati aggiornati a seguito dei ripetuti interventi di modificazione e possiamo quindi buttarli tranquillamente nel cestino perché non solo non sono più attuali ma sono diventati addirittura ingannevoli.
I citati provvedimenti derivano da finalità fiscali e/o semplificative delle procedure: non bastava allora operare sulla fiscalità e sulle procedure senza strapazzare le definizioni?

I requisiti della terminologia tecnica

La normativa di definizione delle “categorie di intervento” ha oggi perso ogni logica, è a macchia di leopardo e siamo tornati alla peggiore articolazione normativa ante DPR 380/01 della legge n. 662/96 quando un Legislatore illuminato aveva sentito la necessità di riordinare la materia sulla base di principi logici. E aveva prodotto il Testo Unico dell’Edilizia del quale abbiamo oggi perduto leggibilità e coerenza.

La normativa delle definizioni tecniche deve avere una sua oggettività se vuole essere “tecnica” e deve essere stabile nel tempo e coerente con sé stessa per essere credibile perché costituisce la base del linguaggio.
Continue variazioni sono solo fonte di disorientamento interpretativo negli operatori. Babele docet.

Cos’è che non va

Non va bene che per raggiungere finalità di agevolazione esecutiva o, addirittura, fiscale si stravolga la normativa tecnica di definizione degli interventi edilizi e urbanistici.
Si può ottenere lo stesso risultato operando diversamente.
Qualcuno potrebbe eccepire che le modifiche legislative sono state introdotte per il raggiungimento di finalità politiche e a queste rispondono.
Eccezione generica e ben confutabile.
Nessuno mette in discussione le finalità politiche, che si ritengono nobili e lecite a prescindere nel merito; quel che non si condivide è il metodo (che però non è aspetto ininfluente sul risultato).

Qualche riflessione sulla struttura della normativa del Testo Unico dell’Edilizia

Se volessimo meglio analizzare il contenuto della normativa tecnica potremmo dire che si può disarticolare in tre aspetti fondamentali a diverso contenuto:

  • La terminologia (ovvero la qualificazione delle tipologie di intervento) – contenuto definitorio tecnico;
  • La procedura abilitativa (gli atti dovuti per l’esecuzione degli interventi)- contenuto procedimentale amministrativo;
  • La fiscalità (ovvero il costo dovuto alla collettività per l’esecuzione degli interventi) –
    contenuto economico.

Dal punto di vista concettuale (ed operativo):

  • la fiscalità risponde al principio della dovuta compartecipazione di ogni intervento ai costi pubblici della realizzazione dei servizi urbanistici (almeno a quelli di impianto);
  • la procedura risponde alla modalità di esercizio del diritto di edificare che, se connesso ad una trasformazione del territorio, vuole il permesso, se connesso ad una trasformazione già avvenuta non incidente sul carico urbanistico vuole l’autocertificazione (s.c.i.a., c.i.l.a.), se è riferito ad un’attività priva di effetti innovativi sia edilizi che urbanistici è libera da procedure abilitative. Questi i principi indefettibili della materia come riscritti dal Testo Unico dell’Edilizia;
  • La terminologia tecnica risponde ad un’esigenza di chiarezza di linguaggio per potersi capire a qualsiasi latitudine e per identificare in modo univoco le varie tipologie di intervento.

Questi tre aspetti costitutivi (queste tre facce) della norma tecnica operano metodologicamente a cascata: qualificato l’intervento (fase 1) deduciamo il titolo dovuto (fase 2) e poi l’onerosità connessa (fase 3).

Quali leve possibili per un’azione “politica”?

Il secondo e il terzo di questi aspetti li si può usare certamente come “leve” di programmi e finalità
politiche e possiamo alterarne la “normale” funzione di cui si è detto (con alcune a condizioni):

  • la fiscalità la possiamo anche variare nel tempo e nello spazio, per esempio rendendo più o meno gravosi (o anche addirittura gratuiti) interventi generalmente onerosi al fine di incentivarne l’esecuzione a favore di certe categorie di cittadini o imprenditori (qui la libertà di scelta politica è massima e può essere legittimamente volubile nel tempo perché connessa a finalità politiche mutevoli per loro natura); la ricaduta degli eventuali “esoneri” graverà come costo sulla collettività;
  • le procedure abilitative le possiamo anche variare nel tempo e nello spazio ma limitatamente e non ad libitum perché dobbiamo essere rispettosi della logica concettuale che è fondamento del DPR 380/01 e cioè la verifica dell’incidenza dell’intervento sulla “trasformazione del territorio”; diversamente violiamo un principio e quando si violano i principi si scardina la logica giuridica. In ogni caso ogni modifica non può essere temporanea, perché deve conseguire ad una reinterpretazione del principio generale sull’incidenza dell’opera sul territorio.

La dignità e autonomia della terminologia tecnica

Non dovremmo però mai variare la terminologia tecnica di codificazione delle tipologie di intervento, perché sennò alteriamo la base del linguaggio. La terminologia ha valore costitutivo tecnico e non ha (né può assumere) sfumature politiche.

Una ristrutturazione è tale per definizione tecnica oggettiva e non può diventare manutenzione straordinaria per finalità fiscali o contingenti.
Sarebbe come dire che, siccome al momento non abbiamo disponibilità di ricovero in ospedale,
tutte le polmoniti diventano bronchiti …. così le curiamo a casa; ma solo temporaneamente però.
Nessuno lo direbbe mai perché la terminologia medica ha una sua dignità e autonomia rispettata da tutti: perché quella tecnica no?
Purtroppo nella più recente legislazione abbiamo assistito ad un uso indiscriminato, casuale e contemporaneo di queste tre “leve”, guidate da emotività e contingenze più che da logica tecnico- giuridica.

E i risultati non sono confortanti; regna il disorientamento più totale perché si sono incisi i principi.

Per non fare d’ogni erba un fascio (ed eliminare fraintendimenti)

Qualcuno eccepirà che molte definizioni dell’articolo 3 del DPR 380/01 subiscono costanti modificazioni (per tutte la ristrutturazione edilizia e la manutenzione).
Vero; ma se sono modifiche strutturali (e generali), pensate come definitive nei tempi a venire sono sopportabili perché sono (o, almeno dovrebbero essere) frutto di un approfondimento della materia che può avere in sé ragioni di evoluzione; mai temporanee o settoriali.

È pur vero che se cambiano troppo in fretta danno più l’idea di essere frutto di indecisione e scarso approfondimento che può anche essere comprensibile in un momento di crescita: dal punto di vista operativo sono indubbiamente fastidiose, ma tollerabili se intese come esito di un’evoluzione concettuale.
Che prima o poi troverà pace (si spera).

Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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