Ponte, ponti, opere pubbliche e domande (retoriche)
Una riflessione di Gianni Zanco
Anzitutto il lutto. Per 42 di noi che non ci sono più. Per altri che lottano in un letto d’ospedale. Per famiglie distrutte, per famigliari sconvolti dal dolore. Lutto di fronte al quale, non per stupido formalismo, ma con cuore mesto e sincero, chiniamo il capo scoperto. Poi il pensiero va ai miracolati, scampati ma scioccati, senza casa. Gravati nello spirito dal peso di un ponte che, per le parti rimaste, li sovrasta incerto.
Poi? La vita riprenderà come prima? Questa volta mi pare di scorgere qualche segnale diverso. I media fotografano una situazione più generale e puntano gli occhi anche su altri ponti (non pochi, purtroppo!), su altri pericoli che, al momento, sono potenziali ma che necessitano di immediato e risolutivo intervento perché tali rimangano.
Molti, non del mestiere, si stupiscono. “Ma … come? Possibile? Non avrei mai immaginato! Di lì ci posso passare ancora?”
Molti, ma degli addetti ai lavori chi si stupisce? Chi ha il coraggio di stupirsi? Chi si ritiene privo di responsabilità e immagina che questo onere sia spettato (spetti) solo ad altri?
Un paio d’anni fa, a conclusione di ricordi sul calcestruzzo preconfezionato in Italia scrivevo:
“Continuo a credere che l’unica soluzione possibile sia quella di puntare ad una seria professionalità basata sulla conoscenza reale, che si nutra di attenzione alle esigenze del cliente, che riconsideri con la dovuta competenza il corretto equilibrio tra costi e benefici.
Credo essenziale un cambio di passo culturale che non veda più la Qualità come un orpello e un onere ma, conoscendone i meccanismi, la consideri per quello che è e deve essere: il fondamentale e ineliminabile strumento per ridurre i costi. Altro che fiore all’occhiello! Altro che mostrina con cui abbellire il pettorale! Ma solo strumento da monitorare, magari attraverso una efficace contabilità industriale, affinché i risparmi cui conduce risultino superiori ai costi della sua gestione.
…
Credo ad una visione più attenta che nasca da un rapporto con Committenze, Progettisti e Direttori dei lavori più compartecipato da cui, per un verso, scaturisca una visione del prodotto e del servizio ancor più confacente e, per altro verso, divenga concreto strumento di vicendevole crescita …”
Da uomo del calcestruzzo mi rivolgevo prevalentemente agli Operatori di questo settore (cui avevo già manifestato ogni mia perplessità per una campagna che, incentrata sulla legalità, finiva con il trascurare -ancora!- il primo elemento della legalità stessa, ossia la prestazione). Mi rivolgevo ai produttori di calcestruzzo, ma credo valga per ogni altro Operatore che intervenga tra la commissione e la messa in esercizio dell’opera.
La qualità quale strumento di riduzione e ottimizzazione dei costi è forse cosa mercantile e meschina? 42 vite sacrificate non sono un costo mostruosamente altro pagato per una qualità che s’è manifestata scadente? Ovviamente anche una sola di quelle vite avrebbe avuto tutto il diritto ad una qualità meritevole di tale nome! Ma anche in assenza di vittime l’intera Comunità, noi tutti, avevamo pieno, sacrosanto diritto ad una qualità di fatto, reale, effettiva, non frutto di slogan insipiente, o grottesco. Non più del dovuto ma assolutamente non meno del necessario!
Credo che avessimo diritto a calcestruzzi più impermeabili, quindi tali da proteggere adeguatamente ferri di armatura e cavi. Credo che avessimo avuto diritto a copri-ferro corretti e a controlli di accettazione più oculati. Credo che avessimo avuto diritto a prove attente e a controlli che, dal centro e senza esclusione di alcuno, si fossero diramate fin ad ogni punto in cui l’attività si esercitava, dai Laboratori autorizzati a quelli dei Produttori, dai Cantieri agli impianti di produzione, da progetti e capitolati fino alla messa in esercizio senza alfine trascurare, naturalmente programmi e processi di manutenzione. Controlli che sono mancati, come il risultato urla alle nostre orecchie e alle nostre coscienze.
Credo che avessimo avuto diritto a opere più durabili e durature. Chi vuol farci credere come ineluttabile che una struttura in calcestruzzo non possa durare più di una cinquantina d’anni? Gli interventi di placcaggio e incamiciamento, che connotano numerose parti di quanto tristemente rimane del ponte e che non si sarebbero resi necessari se ogni parte della struttura fosse stata adeguata, denunciano che nemmeno il traguardo (misero!) dei cinquanta anni è stato rispettato.
Le cronache ci dicono ora -ma sapevamo- che il ponte ha una lunga storia di interventi di riparazione che erano iniziati già pochi anni dopo la sua esecuzione. Era opera pubblica, pagata con denaro pubblico, controllata a nome del Pubblico, gestita da Ente pubblico, ma nata fragile e malaticcia.
A chi facesse rilevare che le prescrizioni relative alle classi di esposizione sono successive alla realizzazione del ponte, ribadirei che, comunque, già all’epoca vi erano le necessarie conoscenze tecnologiche. Conoscenze che lo stesso Progettista ing. Morandi aveva ben evidenziato, già negli anni successivi l’apertura del ponte e fino al 1977, richiamando la necessità che il ponte ricevesse le necessarie cure (vedi ultimo numero di INGENIO).
Infine, in questi giorni abbiamo più volte sentito e letto l’allocuzione “ponte Morandi”. Non nascondo che, ogni volta, ne provo un leggero fastidio. Sono persino state sollevate perplessità per altri ponti dallo stesso progettati. Quasi una correlazione diretta tra disastro e Progettista, peraltro di caratura mondiale. Quantomeno si è trattato di una iniziale disinformazione cui, alcune sere fa, ha posto rimedio la stessa RAI che, nel TG1, ha riferito della pubblicazione di INGENIO di cui sopra. Per me era, ed è, il Ponte sul Polcevera.