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Pensieri Banali su as a Product & as a Service

Un articolo del prof. Angelo Ciribini sulla crescente rilevanza del valore dei dati numerici "as a Services" nel settore dell'immobiliare e delle costruzioni

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Anthony Slumbers, in una serie di recenti interventi (>>> qui il LINK) sottolineava, per il settore dell'immobiliare, ma ciò varrebbe anche per quello della costruzione, come il mercato del prossimo e imminente futuro riguardasse, a causa della crescente rilevanza del valore dei dati numerici, non più il cespite edilizio o il distretto urbano as a Product, bensì as a Service.
 
Il tema è ben noto e gode ormai di una vasta letteratura, ma, sintetizzando al massimo, si potrebbe affermare che le value proposition e i valori aggiunti relativi stiano tutti nelle «relazioni» legate alla cosiddetta user experience.
 
Volendo banalizzare, si potrebbe, perciò, ritenere che il bene immobiliare, tradotto digitalmente in termini di funzionamento dello stesso e di comportamento dei suoi utenti, nonché interconnesso al suo doppio digitale, consenta di trasferire la generazione di valore dalle proprie componenti tangibili a quelle immateriali.
 
 
Cercando una ulteriore semplificazione, si dovrebbe dire che lo sviluppatore e il costruttore dovranno trasformare l'attuale sistema, in negativo, di responsabilità sui vizi e i difetti degli edifici, una volta costruiti o conservati/trasformati, in un sistema di opportunità positive da offrire e da vendere agli occupanti.
 
Vi è persino chi prefigura, come fa Phil Bernstein, che l'architetto debba essere remunerato progressivamente, ben oltre la realizzazione dell'intervento, in funzione della produttività e della soddisfazione degli utenti.
 
Che, poi, il modello vincente possa non essere quello più conosciuto (CB Insights recentemente metteva a confronto WeWork con IWG) è un altro discorso, ma l'incognita rimane quella relativa a quali servizi sviluppatori e costruttori saranno in grado di porre in essere, di comunicare e di valorizzare nel corso del ciclo di vita utile dei cespiti con riferimento agli stili di vita degli abitanti/lavoratori.
 
Il punto, infatti, è che allo stato attuale la consapevolezza inerente a tale cambio di paradigma è assolutamente diffusa sui mercati, per quanto confligga chiaramente con le mentalità consolidate degli operatori, ma occorre adesso passare dallo storytelling al business model.
 
È chiaro che la gamma di opzioni che riguarda questo approccio sia enormemente dilatata: dall'ispezione del manto di copertura al contratto esistenziale, in stretta dipendenza dalla cultura dei fornitori e della mentalità degli acquirenti, dalle metropoli ai borghi, dai baby boomer ai millenial, e così oltre dicendo.

Investire sulla «relazione» e acquisire il dato sul «comportamento»

Si tratta, però, di comprendere bene che cosa significhi investire sulla «relazione» e acquisire il dato sul «comportamento».

Nel primo caso essa potrebbe essere declinata quale percezione dello spazio e dell'ambiente costruito (da cui il ricorso a neuroscienziati e psicologi cognitivi) oppure come interazione sensorizzata e connessa tra l'utente e il cespite in via evolutiva (da cui il rapporto tra l'uomo e la macchina).
In ogni caso, è palese che, per dare sostanza alla pretesa centralità delle cosiddette «relazioni» come oggetto manifesto o celato delle transazioni, sia necessario provare a meglio definire e formalizzare la natura di esse.
Del resto, come sarà possibile progettarle, realizzarle, offrirle, rinnovarle? Si darà una assuefazione del cliente, sarà egli o ella disponibile a pagare per migliorarne l'essenza? Quale «tagliando periodico» sarà proponibile in virtù del fatto che il «cliente» manifesti esigenze sempre cangianti e specifiche?
 
Alla stessa stregua, la ricerca e la raccolta ossessiva di dati numerici e strutturati relativi ai comportamenti degli utenti negli edifici (ad esempio, con riferimento ai flussi dinamici e agli usi statici degli spazi di vita e di lavoro) permetterà veramente di offrire, con assetti flessibili e variabili, tempestivamente le migliori soluzioni personalizzate ai singoli individui?
E ancora, a quale scala tali servizi relazionali e comportamentali potranno essere di competenza rispettivamente dello sviluppatore e del costruttore nell'ottica della «cognitività» e della «responsività»?
 
A questo proposito, il quesito che immediatamente ne deriva riguarda la misura in cui l'attuale natura dello sviluppatore e del costruttore potrà conservare il proprio statuto presente.
Come, inoltre, le istituzioni finanziarie potranno valutare il merito di credito per operazioni e interventi di tale genere?
 
Slumbers, opportunamente, sostiene che i business model generabili saranno molteplici e imprevedibili.
D'altronde, tra Smart Contractor e Prop Tech è immaginabile che le soluzioni siano varie, ma, come ricordato in altre occasioni, la convergenza sulla user experience oggi coinvolge produttori di materiali che raccolgono, tramite sensori, sistematicamente dati sulle prestazioni degli ambienti confinati, società di architettura e facility management provider che ricorrono alla neuroscienza per concepire e per gestire spazi di lavoro.
 
Di conseguenza, potrà davvero questa cesura epistemologica, relativa alla «offerta di esperienze e di sensorialità», non comportare stravolgimenti identitari, ammesso che si sia in grado di tradurla in una offerta commerciale che si annuncia così eterogenea da non poter essere assoggettata a tassonomie?
O si tratta solo di una illusione che non comprometterà il «buon costruire» e il «buon vivere»?