Data Pubblicazione:

Nessun cambio di passo. Gli ingranaggi culturali che bloccano un vero cambiamento nello sviluppo del Paese

Gli ingranaggi culturali che bloccano un vero cambiamento nello sviluppo del Paese

Storia di un Paese incapace di progettare un possibile sviluppo

GIAN-VITO-GRAZIANO---CONSIGLIO-NAZIONALE-GEOLOGI---CNG---INGENIO.jpg

Il livello di attenzione sociale rivolto alle realizzazione di piccole, medie e grandi infrastrutture è sempre stato di gran lunga maggiore rispetto a quello, piuttosto modesto, rivolto all’adeguamento del patrimonio infrastrutturale esistente.

C'è stato un tempo in cui qualcuno cercava di convincere l'opinione pubblica, gli addetti ai lavori e i decisori politici, che in questo patrimonio da adeguare ci fosse, con tutte le sue sfaccettature e le sue interazioni col costruito, la più grande delle infrastrutture, ossia il territorio. Era il tempo in cui, davanti ai tanti problemi che già emergevano in tutta la loro drammaticità, si invocavano prevenzione e manutenzione, cogliendo non solo le criticità strutturali e gestionali delle reti viarie, ferroviarie e dei servizi, ma anche quelle naturali, direttamente connesse con le prime e a volte all'origine di queste.

Era per questo che prevenzione e manutenzione si indicavano come necessità immediata, la prima da inserire in qualunque agenda politica e programmatica. Ma seppure proclamate per ovvia convenienza, venivano in effetti trattate con distaccata sufficienza di chi deteneva, e ancora detiene, le redini di certi apparati infarciti di cattedratica supponenza. 

Erano definiti Cassandra, ma più spesso trattati come integralisti, coloro che continuavano a sostenere, autorevolmente, le proprie convinzioni, disastro dopo disastro, dopo che cedimenti e crolli sui rilevati e sui viadotti di Scorciavacche, Himera, Annone e Fossano, solo per citarne alcuni, spaccavano l'Italia e ne mettevano in ginocchio le già debilitate economie. Ora invece il terrore, quello che gli si imputava di voler seminare, lo abbiamo dovuto vivere con il crollo del viadotto Morandi. Erano persino invisi a certe organizzazioni che in teoria, ma solo in teoria, avrebbero dovuto stare dalla loro stessa parte, ma, abituate a schemi vecchi e consolidati nel tempo, erano maggiormente preoccupate che gli si potesse togliere la scena. 

Eppure quelli lì, avevano capito da tempo che era necessario un cambio di passo deciso nell'approccio a questi problemi e avevano denunciato, senza mezzi termini, la progressiva erosione, sino alla loro scomparsa, dei servizi tecnici regionali e statali, avevano puntato il dito all'ormai abituale assenza di controlli, avevano invocato una radicale riforma del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, avevano lottato per le nostre Università, affinché terminasse la loro agonia davanti a scelte politiche ed economiche che non limitano solo la loro crescita, ma quella del Paese intero e, non ultima, avevano denunciato la visione distorta e limitante di certa normativa che guarda al territorio come ad un'entità fissa e immobile, cercando invano di spiegarne la dinamicità e le conseguenze di questa dinamicità. 

Dopo il crollo del ponte Morandi tutta la classe politica, ancora una volta, invoca un grande piano di manutenzione straordinaria delle infrastrutture, non solo quelle grandi, ma almeno quelle indispensabili per la vita di tutti i giorni. 

Allo stesso modo all'indomani del terremoto si è sempre invocato un piano di prevenzione sismica e di adeguamento sismico, all'indomani dell'alluvione un piano di manutenzione del territorio, all'indomani dell'incendio in fabbrica un piano di prevenzione industriale e all'indomani dello sversamento di un contaminante nelle acque di un fiume un grande piano di bonifica ambientale.

Dunque se ne parlerà ancora per giorni e mesi, tra istruttorie e avvisi di garanzia, tra chi deve fare e chi avrebbe dovuto, finché non accadrà qualcos'altro. Da quel momento si parlerà di quello, più attraente, sul quale si concentrerà l’attenzione politica e mediatica.

Come sempre accade in questo strano Paese, dopo ogni catastrofe, dopo ogni perdita, ci si rimbocca le maniche giurando che quello che finora è accaduto non accadrà più.

Ma qui ci si ferma, incapaci come siamo di progettare un possibile sviluppo e di superare la logica degli interventi post-evento, ossia quella dell’emergenza.

Nessuna scelta coraggiosa, nessuna nuova norma. Ma se anche fosse, se le scelte che dovessero adottarsi e le norme che dovessero essere approvate saranno scritte dalla stessa mano che negli ultimi anni ha adottato e scritto quelle precedenti, sensibile solo al vecchio approccio deterministico, non potranno risolvere le criticità del sistema infrastrutturale italiano.

Se non si riuscirà a concepire l’infrastruttura come elemento inserito in un contesto con il quale essa si deve rapportare, le nuove norme, come quelle esistenti, produrranno ulteriori fardelli economici e auguriamoci solo quelli.

In un Paese cattolico come il nostro non è bastata neppure l'Enciclica di Papa Francesco sull'ambiente per realizzare quel cambio di passo al quale si accennava e per cominciare a progettare una nuova economia e un nuovo assetto delle cose.

Ma d'altronde in questo clima come si può pensare di individuare le strategie, ridefinire gli obiettivi e i quadri programmatori e riconsiderare le politiche e gli attuali strumenti normativi e operativi? Come si può pensare di agire per contrastare le emergenze nella generale assenza di una vera coscienza della drammaticità del problema, almeno nelle sue componenti essenziali? Come si può continuare a tollerare che interi palazzi stiano sotto i viadotti e che gli ipermercati stiano dentro gli alvei dei fiumi?  

Non ci sono le condizioni per un confronto costruttivo, vivace ma corretto nei termini e nelle modalità, come quello che aveva caratterizzato gli anni dello sviluppo e della crescita, che aveva dato la sensazione a ciascuno, insieme agli altri, di essere parte attiva di un processo.

Occorre avere un'idea di "futuro"

Pur con le poche ed esigue risorse economiche, serve avere un'idea di futuro, saperla pianificare, ossia saper coniugare e strutturare ricerca, scienza e tecnologia, le sole che possono portare il Paese fuori dalle sabbie mobili. Pianificare interventi di manutenzione vuol dire avere quel giusto grado di conoscenza che permetta di valutare i costi ambientali ed economici degli interventi programmati, affinché siano convenienti senza sminuirne la funzionalità.

Non ci manca il capitale umano, non manca certo la capacità di tanti uomini e tante donne che, seppure soffocati dalla progressiva destrutturazione dei servizi, riescono a svolgere con caparbietà il proprio ruolo con l'intento di voler contribuire a dare una mano concreta alla crescita ed allo sviluppo. Ma quanti di questi uomini e queste donne operano oggi in un contesto di decadimento culturale, senza risorse e senza prospettive?

Se per il bene comune è necessario il contributo di tutti quelli che, con la propria specificità, sappiano rendere organico e completo un processo, come mettere definitivamente in un angolo quelli che pensano di far prevalere le proprie ragioni e i propri interessi spacciandoli per bene comune? 

Sia chiaro non è solo un problema politico, anzi dalla classe politica arriva qualche segnale di voler modificare certi approcci, come quello di aver saputo scegliere un uomo capace e fuori dagli apparati per la ricostruzione post sisma del centro Italia. Ma è solo una goccia in un mare di gattopardi. 

I tempi non sono cambiati rispetto a quando c'era chi invocava prevenzione e manutenzione, infatti quegli ingranaggi che bloccano una indispensabile riforma dello Stato non sono stati rimossi e non lo saranno presto. 

Non illudiamoci, non ci sono più margini di manovra. Almeno sino a quando vivrà quella visione oscurantista che vede con preoccupazione qualsiasi idea di cambiamento e di riforma che possa in qualche modo modificare lo status quo e certi rapporti di forza. Le emergenze ogni anno ci lasciano sempre più indifesi, ma affinché si abbandonino le posizioni preconcette e si operi, con coscienza, per il bene comune occorre un cambiamento intellettuale, quel cambio di passo, che comporta tempi troppo lunghi per poterci illudere che il ponte Morandi sia stato l'ultimo a crollare.