Mezzi due-punto-zero
I mezzi sono moralmente neutri, è l’uomo che ne fa un cattivo utilizzo. O forse è vero proprio il contrario: sono i mezzi ad essere intrinsecamente buoni (o cattivi), e l’uomo non può che farne un buono (o cattivo) uso.
Alcuni giorni fa Google ha accettato di pagare una sanzione da sette milioni di dollari per aver raccolto dati senza autorizzazione tramite Street View: si tratta di una delle più alte ammende imposte per violazione della privacy nell’era digitale. Tale vicenda riporta al centro del dibattito pubblico la questione se sia moralmente giusto utilizzare alcuni mezzi che la tecnica contemporanea ci offre. E, soprattutto, come utilizzarli.
L’avvento delle nuove tecnologie ha certamente modificato il nostro modo di comprendere il mondo dei “mezzi” e degli “strumenti”, utili per raggiungere i fini che ci siamo scelti: la macchina da scrivere ci pare davvero molto lontana dall’iPad, tanto quanto la Treccani da Wikipedia. Eppure continuano ad essere, tutti quanti, dei “mezzi per…”. La nostra maniera di concepire la realtà è indubbiamente dettata anche dagli strumenti che abbiamo a disposizione: se l’Australia ci pare ora davvero vicina, grazie alle migliorie in ambito di trasporti aerei, la nostra morte, invece, sembra essere un po’ più lontana, un po’ più rimandabile, come ci dimostrano gli ingegneri biomedici con le loro invenzioni. La tecnologia cambia così, è vero, il nostro modo di percepire la realtà dello spazio – il vicino, il lontano, il qui ed il laggiù – e quella del tempo – il trascorrere dei minuti e la durata di una vita… ma più di tutto modifica le nostre possibilità di azione, in quello spazio e in quei tempi. Non solo cambia la geografia e la durata del mondo, ma modifica il nostro modo di affacciarci al mondo stesso.
A ben vedere, infatti, non ci importa di per sé quanto possa durare un minuto nell’era del web 2.0, ma ci interessa quanti amici su Facebook possiamo contattare in quello stesso minuto. Questo è l’importante: la quantità (e non la qualità!) delle azioni fattibili oggi mediante la tecnologia. Ossessionati dal multitasking, non ci accorgiamo talvolta che la tecnologia ci sta trascinando un po’ troppo in là, che ci attira verso di sé, eludendo integralmente il quesito morale. E così ci accontentiamo di frequentarla, e di sentirci corteggiati da essa, e poi di farne uso, per l’appunto, come se il farne uso non fosse già eticamente connotato. Attuiamo una specie di epoché di valori e disvalori, mettiamo tra parentesi la nostra coscienza morale, esaudendoci integralmente – e con soddisfacimento – nell’azione stessa. E dimenticandoci anche, al medesimo tempo, del motto che recita che “non tutto ciò che possiamo fare, allora lo dobbiamo fare”.
La tecnologia ci inganna: ci fa sentire illimitati, illimitatamente divini. Abbiamo tra le mani un mezzo molto potente, che ci tenta furbescamente ad usarlo, a spendere le sue potenzialità nell’hic et nunc. Ci strizza l’occhiolino, ci chiede di provare, perché, in effetti, ora lo possiamo fare. È l’inganno della Ferrari in città: un motore ruggente, castrato da vincoli legislativi e da cartelli convenzionali; è un inganno, appunto: non sempre si resiste al capriccio di schiacciare un po’ di più il pedale, facendo rimbombare i cavalli nelle orecchie dei passanti. Forse con una 127 non sarebbe mai successo. Anche perché le potenzialità erano molto minori.
Le potenzialità che l’odierna tecnologia ci dischiude oggi sono molte, quasi infinite. Incantati da tali possibilità, ci dimentichiamo spesso di riflettere sul perché di tali tecnologie, ossia sul loro senso. Che è dato dallo scopo per cui le si usa – l’“esser-mezzo-del-mezzo”, direbbe Heidegger. È solo nel loro uso orientato ad un fine – nella loro usabilità – che i mezzi diventano tali: fuori da quel contesto non esistono, di fatto. Cessano di essere mezzi e diventano semplici cose. Il cellulare inizia ad essere un mezzo nel momento in cui si telefona, ed esce così a buon diritto dal mondo delle semplici cose per entrare in quello dell’utilità. Nella sua proprietà di mezzo la cosa non è svalutata, anzi: è valorizzata, nobilitata. L’essere un buon mezzo è già qualcosa – quante volte ce ne rendiamo conto: lavorare con un processore di alto livello ci semplifica i compiti e attutisce la fatica, utilizzare strumenti sofisticati ed efficienti affina la nostra ricerca, e così via. È già qualcosa, ma non è tutto.
Un buon mezzo costituisce sicuramente un facilitatore per raggiungere un determinato scopo, ma non rappresenta lo scopo stesso, dobbiamo ricordarcelo. Qui si cela l’inganno della tecnologia contemporanea: auto-elevarsi al rango di fine, da mezzo che era. Un bel fine: una specie di maschera ben riuscita. In questo minestrone di fini e mezzi – un iPad è uno strumento o un fine? – chi ci perde, tuttavia, sono sempre i fini. O meglio: chi ci perde siamo sempre noi, che ci illudiamo del fatto che i nostri strumenti possano essere di per se stessi dei fini, salvo annoiarcene in breve tempo. E così continuiamo a cambiare strumenti, non accorgendoci che tante volte ci stiamo dimenticando dei fini per i quali tali strumenti erano nati. Prima l’iPhone 3, poi il 4, e infine il 4s.
E c’è dell’altro: un conto è parlare di un buon mezzo, un conto è parlare di un mezzo buono. Qui la posizione dell’aggettivo qualificativo gioca un ruolo determinante: stiamo dicendo che non tutti i mezzi efficienti sono anche quelli moralmente adeguati al fine preposto. E proprio per questo, almeno ogni tanto, la tecnologia deve essere frenata, o se non altro imbrigliata. Per farle un po’ capire – con le buone o con le cattive, anche qui i mezzi sono determinati dal fine – che, al netto della storia, chi comanda siamo ancora noi, noi uomini. E che senza di noi, esseri capaci di orientarci a dei fini, i mezzi non esisterebbero nemmeno. Sarebbero solo cose. Due-punto-zero, ma comunque cose.