Leadership professionale e riscoperta delle virtù
Nel suo The 7 Habits of Highly Effective People, considerato ormai un classico della letteratura manageriale, Stephen Covey propone un percorso per ottenere maggiore efficacia nel lavoro e per raggiungere più rapidamente gli obiettivi professionali. Leggendolo a distanza di tempo, ci si accorge con sorpresa che aspetti ritenuti generalmente prioritari come la gestione del tempo, la comunicazione, la strategia organizzativa, la circolazione delle informazioni, occupano un posto secondario nel percorso suggerito. Al primo posto, invece, Covey colloca la crescita personale, il lavoro su di sé per riuscire ad essere “persone di carattere”, ossia fedeli ai propri valori e maggiormente capaci di ascoltare e comprendere gli altri. Secondo l’autore, si diventa persone di successo non grazie a ciò che si fa, ma innanzitutto per come si è, cercando di modificare se stessi prima di –o anzi in vista di– modificare le condizioni esterne. Invece di incitare alla competizione, il manuale è un incoraggiamento alla collaborazione, alla capacità di assumersi e di mantenere gli impegni, di onorare le promesse, di ammettere i propri errori subito e apertamente, di realizzare i propri compiti non perché “devono” essere fatti, ma in quanto “si è scelto” liberamente di farli.
Il segreto della leadership professionale, intesa non come gestione del potere, ma come autentico sviluppo personale e promozione degli altri, sembra essere, dunque, una riabilitazione di quella che tradizionalmente è stata definita “etica delle virtù”. Per i Greci la virtù era l’areté, il contrassegno dell’uomo coltivato; per i Romani era la caratteristica del civis, inserito nello Stato e obbediente alle leggi; nel Medioevo era la caratteristica dell’animo cavalleresco. Ma col passare del tempo il termine virtù si è sbiadito, come se fosse il distintivo di un’esistenza mediocre e rinunciataria. Oggi invece le virtù sono state riscoperte, come quelle qualità personali che consentono di dare il meglio di sé e di relazionarsi in modo equilibrato, ossia secondo ragione, con il mondo e con gli altri.
Il filosofo Aristotele aveva indicato con il nome di “cardinali” le virtù morali che, in quanto cardine, sostengono tutte le altre: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Viceversa, “vizio” è ogni mancanza di equilibrio e disarmonia, disordine interiore tra intelligenza e volontà, tra ragione e passioni. Per questo motivo, le autentiche virtù sono sempre in accordo tra loro: un ingegnere preciso nel controllo di un impianto è sicuramente anche collaborativo; chi è leale nei confronti della propria azienda è anche tenace, ecc. I vizi, invece, rendono imprevedibili e insicuri: se si è avari, sicuramente non si è neppure sinceri; se si è disordinati, diventa anche impossibile essere giusti.
Quando si parla di etica del lavoro, diventa allora indispensabile riferirsi alle virtù. Non basta l’indicazione di regole da osservare e di limiti oltre i quali non ci si può spingere. Questo sarebbe un approccio di tipo procedurale, ispirato in definitiva a un modello di razionalità tecnica (“preoccuparsi solo che le cose funzionino”). L’etica si riduce così a un kit per risolvere dilemmi e situazioni di emergenza, spesso facendo ricorso al calcolo della differenza tra costi e benefici. E neppure è sufficiente –anche se necessario– il codice deontologico, valido solo per la comunità che lo ha formulato sulla base di un determinato concetto di efficienza professionale. Seneca affermava che l’uomo più potente è quello che è padrone di se stesso: un altro modo per dire che può gestire gli altri e le cose soltanto chi è in grado di gestire se stesso. Occorre allora risalire alla domanda fondamentale dell’etica: che tipo di persona voglio diventare? Cosa significa essere un buon ingegnere?
Pensiamo, ad esempio, alla gestione del tempo, risorsa sempre più scarsa per tutti, all’origine di tanti problemi lavorativi. Occorre capacità di previsione, pianificazione, chiarezza di obiettivi, rispetto delle priorità: tutti atteggiamenti riconducibili a due virtù che gli antichi chiamavano fortezza e prudenza considerandole fondamentali. Senza di esse, si è esposti al disordine e all’inefficienza. Per insegnare l’importanza delle priorità, un giorno un professore chiese ai suoi studenti di riempire di sabbia un catino. Poi invitò ad aggiungervi delle pietre, ma era impossibile, perché il catino risultava già pieno. “Ora facciamo l’esercizio inverso –disse- e prima riempiamolo di pietre”. Gli studenti osservarono che, una volta sistemate le pietre, ci stava anche la sabbia, infilandosi negli interstizi. “Che cosa abbiamo imparato?”, domandò il professore. “Che il tempo è fatto di gomma, ci sta dentro tutto”, risposero gli studenti. “No –chiarì il professore- la lezione è un’altra: se metti prima la sabbia, il contenitore si riempirà e non resterà spazio per le pietre”. La lezione è chiara: ciò che davvero è fondamentale e non delegabile va pensato e realizzato per primo, altrimenti le cose di minore importanza occuperanno tempo e attenzione, non lasciandone per il resto.
Non basta, però, lo sforzo di un giorno per acquistare una virtù, perché, come dice l’adagio, “una rondine non fa primavera”. Diversamente dal gesto eroico o dalla grande prestazione frutto dello sforzo estemporaneo, per ottenere un risultato stabile e una consuetudine che resista al tempo e alle difficoltà occorre un comportamento ripetuto più volte volontariamente. Per questo l’agire virtuoso è stato paragonato al training dello sportivo, che solo con l’allenamento quotidiano può raggiungere risultati soddisfacenti e superare anche i suoi standard. Commentando il recente oro vinto da Carolina Kostner ai Mondiali di pattinaggio dopo nove tentativi falliti, l’articolista si chiedeva “quanto conta la tenacia per la vittoria?”. La domanda contiene già la risposta, che vale per l’agonismo quanto per l’etica del lavoro.