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Le vie della digitalizzazione nelle costruzioni e nell'immobiliare: cogenze legislative, Governo dei processi e politica industriale

In un contesto di ampio programma di infrastrutturazione e riqualificazione energetica, la digitalizzazione nel settore edilizio e immobiliare in Italia si trova di fronte a sfide legislative, organizzative e culturali. Esaminiamo il ruolo della digitalizzazione e le questioni che emergono, alla luce di un cambiamento necessario ma ancora in ritardo.

Digitalizzazione nell'edilizia: l'Italia al crocevia delle opportunità

Occorre domandarsi quale possa rivelarsi prospetticamente il ruolo della digitalizzazione nel settore della costruzione e dell’immobiliare in Italia, alla luce di un programma di infrastrutturazione del territorio che travalica largamente per estensione temporale e per ammontare finanziario il Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza e di un programma di riqualificazione energetica degli edifici imposto dalla nuova direttiva comunitaria per un vasto orizzonte temporale.

Per rispondere a questa domanda bisogna premettere che la presenza di vincoli legislativi relativi ai Contratti Pubblici non può dimostrarsi di per sé sufficiente in assenza della definizione di una strategia nazionale che investa il comparto.

Altri Stati Membri dell’Unione Europea hanno anteposto a o hanno accompagnato gli obblighi legislativi con misure strategiche, non riponendo esclusivo affidamento sul testo di legge, anche se il successo di questi programmi deve ancora essere valutato.

Ciò è avvenuto, nei maggiori Stati Membri sia nel senso federalista, come in Germania, sia in quello centralista, come in Francia o in Spagna, sia pure con attenzione per i territori. È interessante osservare come in alcuni Paesi le iniziative relative agli edifici, alle infrastrutture e alle reti siano state promosse in modo distinto, mentre le scadenze temporali di vigenza, analogamente al caso italiano, sono state differenziate.

Certo è che le prime esperienze danesi in materia di legge risalgono al 2007, gli intenti sistemici del governo britannico datano almeno al 2011 e il primo decreto legislativo nazionale italiano è stato pubblicato alla fine del 2017: si tratta di tutti segni palesi di una lentezza strutturale del settore a recepire l’innovazione digitale, probabilmente perché essa non ha riguardato un autentico stato della necessità.

Del resto, la rappresentanza italiana delle amministrazioni comunali ha reputato come recente l’obbligo progressivo datato a sette anni or sono, denotando una percezione del cambiamento non certo immediata. Se l’innovazione digitale appare assai rapida, il suo recepimento nelle prassi sta richiedendo, per il settore, decenni e l’ordinamento giuridico che lo regola non è ancora stato toccato minimamente da una revisione in modi interpretabili dagli algoritmi.

La distrazione mostrata, ad esempio, ancora nel 2024, dopo appunto sette anni e nell’imminenza del 2025, da molte stazioni appaltanti e da parecchi enti concedenti è un sintomo assai eloquente non solo della scarsa consapevolezza delle amministrazioni pubbliche, ma anche del modesto valore che esse attribuiscono al tema.

Non è agevole, peraltro, distinguere tra volontà e capacità, nel senso della intenzionalità oppure di non essere davvero nelle condizioni di procedere.

Ciò probabilmente si verifica a causa dello stato di criticità plurimo in cui queste amministrazioni pubbliche da tempo versano, aggravato dall’età media dei dipendenti e dalla scarsa attrattività del ruolo per le giovani generazioni.

È altresì da dire che anche le controparti contrattuali, a livello minuto del territorio, non paiono essersi meglio attrezzate e presentano caratteristiche di atomizzazione simili a quelle del versante della domanda pubblica.

Se è vero, infatti, che i profili professionali legati alla modellazione informativa sono sempre più insistentemente richiesti dal settore, così come quelli legati all’Artificial Intelligence lo sono da tutti i settori, difficilmente tale richiesta potrà essere soddisfatta per la committenza pubblica, colla conseguenza di privare il processo di un motore.

Tra l’altro, i programmi infrastrutturali hanno posto in risalto la convenienza di far crescere un maggior numero di medio e di grandi organizzazioni, anche sui mercati internazionali, mentre la effimera stagione del Superbonus 110%, sostanzialmente gestita in maniera assai poco digitale, ha mostrato l’insufficienza della capacità produttiva dell’offerta nei confronti della domanda, pur in presenza di un oggettivo incremento della produttività.

Anche altri interventi pubblici, rientranti nell’alveo del Piano Nazionale, hanno utilizzato la modellazione informativa come fattore premiale, ma ciò è avvenuto in maniera non coordinata ed eterogenea.

Sotto il profilo nominale, oltre a tutto, il paradigma inerente alla sostenibilità agisce ormai quale premessa legittimante, ragione per cui la trasformazione digitale è costretta a proporsi quale fattore abilitante la transizione ecologica, anche nei termini di una retorica obbligata. In altre parole, si è esaurita definitivamente la stagione in cui la digitalizzazione poteva porsi in termini autoreferenziali, dato che essa appare sempre maggiormente come un supporto ad altre finalità.

È chiaro, comunque, che la digitalizzazione sia oggi declinata secondo una pluralità di accezioni talora in contrasto o in contraddizione tra di loro, cosicché si passa dall’ottimizzazione dei processi analogici sino alla evoluzione verso prassi decisionali dettate dagli algoritmi.

Le organizzazioni maggiormente evolute devono, quindi, stabilire road map che le conducano a competere su mercati internazionali sempre più esigenti, ma, allo stesso tempo, devono capire quale sia la velocità di evoluzione delle proprie catene di fornitura, sui territori in cui operano.

Gli attori delle catene di fornitura, a loro volta, dovranno decidere a quale tendenza adeguarsi: se quella a traino dei grandi competitori oppure se indulgere nei mercati locali, a digitalizzazione moderata.

D’altronde, la pubblicistica, dopo aver ingerito e metabolizzato il BIM, è ora rivolta al DT e alla AI, alla ricerca di temi inediti, senza che i precedenti siano stati radicati e validati.

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Di là da un uso superficiale di acronimi e di prefissi, si tratta di capire come il ricorso a dati strutturati, o quantomeno interrogabili, possa effettivamente essere interiorizzato dalla maggior parte degli operatori.

Il primo elemento da considerare riguarda l’attenzione che si stia o meno ponendo all’infrastruttura architetturale immateriale che si renderebbe necessaria: essa passa dalla configurazione di spazi europei e nazionali dei dati, dalla realizzazione di ecosistemi e di piattaforme digitali integrate, dalla definizione di ontologie, di modelli di dati, di dizionari di dati: tutti elementi che non sono per nulla all’ordine del giorno del settore, se non per aspetti parziali e, fondamentalmente, minimali.

L’infrastruttura basilare dovrebbe essere interesse di tutti gli attori, ma non si può pretendere che essa sia reclamata dalla base degli operatori economici che semplicemente non può che ignorarne di fatto l’esistenza.

 

Politica industriale: troppe incognite nei processi

Sarebbe, piuttosto, interesse di una politica industriale che non si vede profilarsi all’orizzonte, perché, a dispetto di tanti metodi di valutazione in proposito, non sussiste una maturità digitale diffusa che consenta ai soggetti coinvolti di interiorizzare la cultura del dato.

Orbene, nessuno negherebbe che la transizione digitale comporti ingenti oneri in formazione delle risorse umane e in investimento di beni strumentali (peraltro spesso rapidamente obsoleti), perseguiti sinora tramite disposti della legge e incentivazioni del fisco, epperò l’interiorizzazione del fenomeno della digitalizzazione concerne il capitale umano sotto una veste più impegnativa.

Essa, da una parte, implica una consapevolezza critica di un processo che cela molte incognite, non solo sul piano etico, ma, da un’altra parte, richiede la rivisitazione della natura dei soggetti e del loro ruolo nelle catene della fornitura.

La mancanza di una seria riflessione su questi argomenti fa sì che la sola cogenza di legge, invero focalizzata prevalentemente sulla modellazione informativa, rischi di tradursi nella logica fallace dell’adempimento formale. Di fatto, allorquando si parla di digitalizzazione si accenna alla possibilità di ristrutturare gli assetti del mercato, con risvolti culturali, giuridici, organizzativi e sociali ben più influenti di quelli tecnologici.

In ogni caso, non si deve dimenticare che il risvolto su cui è necessario concentrarsi riguarda i modelli linguistici di grandi dimensioni, poiché il loro progressivo affinamento e la loro capacità di interagire direttamente con tutti gli altri dispositivi digitali proporrà a utenti relativamente poco alfabetizzati la possibilità di utilizzare opportunità altrimenti loro impedite.

La fine di alcune preclusioni, oggettivamente allo stato odierno esistenti, se non altro come barriere di ingresso (a iniziare dalla stessa modellazione informativa) potrebbe, tuttavia, comportare il fatto che gli attori non siano più in grado di controllare gli esiti di ciò che ottengono tramite i modelli linguistici, poiché l’unico modo per ottenere la capillarità della disseminazione potrebbe stare nella supplenza da parte dei modelli linguistici alla cultura digitale degli operatori.


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