La transizione delle norme igienico-sanitarie in edilizia
Approfondimento, analisi e considerazioni sullo schema di regolamento previsto dal “Decreto SCIA Bis” (222/2016) che ha integrato il Testo Unico Edilizia per quanto concerne il procedimento per il rilascio del permesso di costruire, in riferimento all’agibilità e ai nuovi requisiti igienico-sanitari degli edifici.
Si parla della nuova normativa igienico-sanitaria la cui bozza è già stata presentata su Ingenio e inoltrata all’esame della Conferenza Unificata.
Per l’Autore è l’occasione di fare il punto dell’attuale impianto normativo che – in pendenza della revisione integrale della materia annunciato con il d.lgs. n. 222/2016 - ha nel frattempo subìto alcune integrazioni/semplificazioni significative che verranno presumibilmente stravolte.
Si tratta di un primo esame per verificare la transizione in corso e vedere bene da dove partiamo per valutare dove stiamo andando prima di affrontare nello specifico la disamina del nuovo proposto provvedimento di modifica strutturale.
IL d.lgs. 222 del 2016 aveva già anticipato la volontà del Legislatore di mettere mano alle norme in materia igienico-sanitaria in edilizia, disponendo espressamente all’articolo 20, comma 1-bis del Testo Unico dell’edilizia: “Con decreto del Ministro della salute, da adottarsi, previa intesa in Conferenza unificata, entro 90 giorni dall'entrata in vigore della presente disposizione, sono definiti i requisiti igienico-sanitari di carattere prestazionale degli edifici”
Dette disposizioni si inseriscono – si badi bene - tra quelle che accompagnano la presentazione dei titoli edilizi, soggette all’autocertificazione del tecnico progettista in quanto dettate nel “Procedimento per il rilascio del permesso di costruire” ed in particolare tra quelle soggette a “dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto ….. e, in particolare, alle norme ……. igienico-sanitarie alle norme relative all'efficienza energetica.
Ancor oggi rinvenibili nel d.m. 5 luglio 1975.
Si tratta dunque di norme che devono essere “oggettivamente interpretabili” da parte dei professionisti, particolare, questo, che verrà utile richiamare in un successivo commento.
Ampiamente trascorsi i 90 giorni, con il d.l. n. 76/2020 (poi legge n. 120/2020) il Legislatore è intervenuto parzialmente – nelle “more dell’approvazione” dell’annunciato decreto come Lui stesso precisa - con due disposizioni affidate, rispettivamente, all’articolo 10, comma 2 e 2-bis che esamineremo partitamente.
L’interpretazione (postuma) del comma 2
Il comma 2 porta un’interpretazione con cui precisa che: “ le disposizioni di cui al decreto del Ministro per la sanità 5 luglio 1975 ….si interpretano nel senso che i requisiti … ivi previsti … non si considerano riferiti agli immobili che siano stati realizzati prima della data di entrata in vigore del medesimo decreto e che siano ubicati nelle zone A o B …” per cui anche in caso di nuovi “titoli abilitativi per il recupero e la qualificazione edilizia … si fa riferimento alle dimensioni legittimamente preesistenti” e cioè quelli della normazione locale dell’epoca di realizzazione.
Due sono i requisiti richiesti per l’interpretazione (o sostanziale disapplicazione o deroga che dir si voglia) della norma: essere ante d.m.-’75 e in zone A o B.
Interpretazione di buon senso basata sul presupposto che le norme previgenti fossero più permissive di quelle del d.m.-’75 (ritenendo illogico o troppo oneroso pretendere l’adeguamento a norme sopravvenute se quelle originarie erano rispettate), fermo restando che la norma attuale è sempre applicabile qualora fosse vero il contrario.
Si pone però qualche problema interpretativo di possibile disparità di trattamento: perché non fare salvi anche gli edifici sorti in zone C se antecedenti il d.m.-‘75? a meno di non interpretare che una volta realizzate le costruzioni debbano automaticamente essere ritenute in zona B; ma il discorso ci porterebbe troppo lontano e lo trascuriamo in questa sede.
Interpretazione comunque ispirata al buon senso - come si è detto - che forse poteva essere superfluo dover precisare con legge.
L’innovazione derogatoria del comma 2-bis
Innovativa invece – e derogatoria – è la disposizione del comma 2-bis che riduce i parametri di altezza interna e aperture di aerazione per gli edifici di “interesse culturale sottoposti a tutela ai sensi” del d.lgs. n. 42/2004: dunque tutti, compresi quelli con mero vincolo paesaggistico: un bell’insieme.
Questa norma ha due facce di diversa ispirazione:
- la prima (tradotta nelle lettere a) e b) di effettiva portata derogatoria dei requisiti di altezza interna e fattori di aerazione e illuminazione;
- la seconda (quella della lettera c) che estende ai beni tutelati l’interpretazione già contenuta nel comma 2 dianzi commentato e cioè che, in caso di “recupero e riqualificazione edilizia” si deve fare riferimento alle “dimensioni legittimamente preesistenti” (sia che avvenga con s.c.i.a. che con permesso).
Il che ci rimanda – anche per questa categoria di edifici - alle norme vigenti all’epoca di realizzazione e di fatto esprime la volontà di estendere anche a tali beni il concetto di buon senso già espresso al comma 2 dianzi commentato; solo che mentre in quello si trattava di un’interpretazione qui è una norma a regime.
Sorvoliamo sull’applicazione ex nunc o ex tunc delle due diverse normative; diremo solo che la finalità dichiarata è (come spesso) quella della “semplificazione”, ma in realtà esprime una ben chiara volontà di agevolazione e ragionevole applicazione sul pregresso.
Il quadro normativo attuale: una prima evoluzione (provvisoria)
Questo è quindi il quadro normativo attuale che prevede norme interpretative e/o espressamente derogatorie del d.m. 1975, comunque agevolative degli interventi di “recupero e/o riqualificazione edilizia” (o “qualificazione” come dice il comma 2).
Concetto questo (la riqualificazione e il recupero) di portata ampia, ricomprendente più categorie di intervento dell’articolo 3 del Testo Unico dell’Edilizia per cui il comma 2-bis si premura di precisare che le deroghe valgono anche per la “ristrutturazione” e la “modifica di destinazione d’uso”.
Precisazioni che in merito alla categoria di intervento edilizio portano a chiarire in modo inequivoco che si intende sia la ristrutturazione conservativa che quella ricostruttiva, ma che in materia di destinazione d’uso suscitano qualche perplessità visto che il d.m. 1975 si riferisce solo all’uso abitativo.
Quadro normativo che ben sappiamo essere comunque provvisorio, vigente “nelle more” (come ha detto lo stesso Legislatore) dell’emanazione del nuovo decreto del Ministro della salute promesso al comma 1-bis dell’articolo 20 del DPR 380/01.
E poiché di tale nuova normativa circola una Bozza sarà opportuno dare una sbirciatina a cosa ci aspetta in un (prossimo?) futuro.
Le deroghe alle dimensioni fisiche nella Bozza della Nuova adottanda normativa
Orbene in detta Bozza il sistema delle deroghe pare sostanzialmente rivisto.
Tanto per cominciare all’articolo 1, comma 3 si precisa che le indicazioni di cui all’Allegato 1 contiene i “criteri di qualità” da applicarsi sia ai nuovi interventi che a quelli di “riqualificazione e/o rigenerazione urbana che richiedono una modifica della destinazione d’uso”, da cui si deduce che cade la derogabilità ove sussista cambio di destinazione anche se non è comunque ben chiaro cosa succeda visto che anche la nuova normativa s riferisce soltanto agli “edifici residenziali” (Art. 1, comma 1).
Quanto poi agli aspetti dimensionali di cui si interessa l’articolo 7, il comma 4 ripropone la possibilità di deroga in caso di interventi di “recupero del patrimonio esistente” limitatamente però alle altezze e se l’edificio è “vincolato a livello paesaggistico e/o culturale o situato in ambito di comunità montane.”
Una prima osservazione: Cade allora l’interpretazione derogatoria del comma 2 sul pregresso visto che era norma transitoria “nelle more” dell’approvazione della nuova normativa?
Seconda osservazione: per gli edifici vincolati la richiesta deroga deve essere motivata con la predisposizione di “un progetto di fattibilità tecnico-economica, con analisi delle alternative progettuali atte a garantire migliori condizioni igienico-sanitarie dell’alloggio … ”.
Il che cancellerebbe l’attuale disposizione del comma 2-bis dianzi esposta e ci riporterebbe pressappoco all’attuale stesura del comma 3 dell’articolo 1 del d.m. 1975 (che fu introdotto dal d.m. Sanità del 9.06.1999).
Ulteriore e limitata deroga è rappresentata poi dalla “tolleranza” fino al 5% del lato minimo dei locali principali degli immobili “vincolati” a condizione, anche qui però, che la richiesta sia accompagnata da “un progetto di fattibilità tecnico-economica, con analisi delle alternative progettuali atte a garantire migliori condizioni igienico-sanitarie dell’alloggio … ”. (Norma marginale e di non chiara finalità).
Qui finiscono le deroghe che sono quindi sempre condizionate da una motivazione analitica (e una valutazione discrezionale dell’ente autorizzante); il che pone qualche problema procedimentale se si volesse (o potesse) operare con s.c.i.a. o con silenzio assenso.
Ma una valutazione più approfondita delle nuove proposte disposizioni normative la rinviamo ad una specifica disamina.
Al momento diremo solo che una norma siffatta vanifica la certificabilità dell’applicazione diretta da parte dei professionisti progettisti e vanifica dunque tutto l’impianto semplificativo cui si è ispirato fin qui il Legislatore nell’emanare le norme dianzi commentate del d.l n. 76/2020.
Sarà impossibile asseverare in sede di presentazione della richiesta del Permesso di costruire “la conformità del progetto … alle norme … igienico-sanitarie …”.
Va da sé che i requisiti igienico-sanitari – dichiarati e valevoli in sede di richiesta dell’atto abilitativo – riaffioreranno poi come condizione di abitabilità.
Il che ci induce a parlare di questo connesso e non secondario aspetto.
C’è un altro insoluto problema: i requisiti dell’abitabilità
Dell’abitabilità a regime abbiamo già parlato in precedenza e abbiamo detto della complessità della sua evoluzione. (v. InGenio – “Agibilità degli edifici: metamorfosi in atto”)
C’è però una procedura particolarmente innovativa e interessante introdotta dall’articolo 10, comma 1 del d.l. n. 76/2020 (quello che ha apportato contestualmente le modifiche al d.m. 1975 dianzi commentate) che ha aggiunto il comma 7-bis all’articolo 24 del DPR 380/01 consentendo di autocertificare l’agibilità di opere eseguite in precedenza anche in assenza attuale di lavori; che qualche acuto commentatore ha definito anche “agibilità in sanatoria”.
Orbene, i requisiti richiesti per questa agibilità postuma il Legislatore li ha rinviati ad “un decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro della salute, con il Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo e con il Ministro per la pubblica amministrazione, da adottarsi, previa intesa in Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, entro novanta giorni …”.
La definizione di questo provvedimento non è sovrapponibile a quello dell’articolo 20, comma 1-bis che – a parte l’acquisizione dell’intesa con la Conferenza unificata – prevede la sola competenza del Ministro della Salute senza coordinamento con altri ministeri, per cui la Bozza di cui abbiamo appena parlato non parrebbe poter essere utilizzata anche per l’abitabilità in sanatoria.
La norma del comma 7-bis dell’articolo 24 del Testo Unico dell’Edilizia resta dunque una sorta di norma in bianco, di fatto inapplicabile visto che (per di più) è soggetta ad autocertificazione di cui però mancano i riferimenti normativi su cui attestare l’asseverazione.
E poiché dal 2020 sono ormai trascorsi tre anni (a fronte dei tre mesi previsti) non sarebbe male che anche di questo si occupasse il Legislatore se vogliamo far uscire dalle nebbie una consistente parte del patrimonio edilizio nazionale.
Magari – senza fare voli pindarici - adottando una norma di buon senso come quella di cui abbiamo detto in esordio di questo commento: e cioè che valgono le norme vigenti al momento della realizzazione delle opere: dunque non un’abitabilità attuale, ma “ora per allora” che attesti la conformità delle opere all’epoca della costruzione.
Perché, come abbiamo detto in più occasioni, l’abitabilità non garantisce del presente perché è una certificazione statica, la cui attualità deperisce con il tempo e con il variare delle norme; come i prodotti alimentari.
LA BOZZA DEL NUOVO SCHEMA DI REGOLAMENTO E IL DM DEL 5 LUGLIO 1975 SONO SCARICABILI IN ALLEGATO PREVIA REGISTRAZIONE AL PORTALE
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