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La Tollerabilità nel Salva-Casa tradotta in due articoli apparentemente diversi ma contigui fisicamente e concettualmente

La legge Salva-casa introduce una revisione delle tolleranze edilizie per interventi realizzati prima del 24 maggio 2024, riconoscendo le prassi costruttive meno precise del passato. Non si tratta di una sanatoria, ma di un adeguamento normativo che considera la tollerabilità delle difformità secondo il contesto storico, legittimando implicitamente le pratiche locali e richiedendo un'interpretazione sensata delle norme in base al periodo in cui le opere sono state eseguite.

Una delle innovazioni più richieste e più commentate della legge Salva-Casa è indubbiamente la revisione delle tolleranze, limitatamente però ai soli interventi ante 24 maggio 2024. D’ora in poi le tolleranze saranno solo quelle già previste dal previgente articolo 34-bis del Testo Unico dell’Edilizia.

La novità vera però non sta tanto nell’incremento percentuale dei valori metrici, quanto – secondo l’Autore – nelle motivazioni che hanno indotto il Legislatore a rivederli che introduce il principio di valutazione della Tollerabilità delle difformità delle pratiche edilizie (e delle costruzioni) del passato.

Anzi, la revisione delle percentuali ammissibili in passato altro non sono che la traduzione giuridica di quel principio.
Principio che sta alla base anche del correlato disposto dell’accettabilità delle difformità parziali ex articolo 34-ter, co.4 non rientranti nelle tolleranze pur così implementate.

Di questo “principio” l’Autore sviluppa un’ipotesi applicativa ancor più estesa.


Nella legge Salva-casa le tolleranze variano dimensionalmente in funzione del tempo di esecuzione delle opere e sono incrementate percentualmente per gli “interventi realizzati entro il 24 maggio 2024” (data di entrata in vigore del decreto-legge).

Il fatto a prima vista potrebbe apparire una cosa bizzarra; in realtà una motivazione c’è ed è anche buona nell’intento.
Chiariamo subito che non è una sanatoria implicita o generalizzata: è il riconoscimento ora per allora di una “prassi”.

 

Non è una sanatoria, ma il riconoscimento di una Prassi (evolutiva)

In sostanza il Legislatore prende atto delle diverse raffinatezze di rappresentazione grafica dei progetti (dovuti anche, ma non solo, a strumentazioni più approssimative) e, soprattutto della diversa sensibilità (diciamo così) di apprezzamento e valutazione delle pubbliche amministrazioni addette al rilascio (o al controllo) dei titoli abilitativi.

In sede esecutiva (nel passato) non si andava tanto per il sottile sugli aspetti marginali e non sostanziali dell’edificio (posizione delle partizioni interne, posizione delle finestre, posizionamento, ….) ed anche il sopralluogo in sede di abitabilità (allora si chiamava così) era prevalentemente di natura igienico sanitaria e il controllo di “conformità edilizia” era a dir poco “sommario” (a voler essere benevoli).

Anche se oggi qualcuno fatica a comprendere, questa è storia che sarebbe sempre bene conoscere prima di dare giudizi affrettati. Ed è una storia che ha connotato (pur con varie sfumature) l’intero territorio nazionale.

Quella marea di incongruenze che troviamo nelle pratiche edilizie di ieri e che con gli occhi di oggi classifichiamo “difformità” o, peggio, abusi, al tempo della loro commissione non scandalizzavano nessuno ed erano considerate normali libertà rappresentative in sede di progetto e compositive in sede di realizzazione.

Incongruenze che, al netto di lesioni di interessi privatistici (che sono altra cosa), non venivano ritenute lesive di interessi pubblicistici che sono quelli che interessano le pubbliche amministrazioni. Da sempre i titoli edilizi vengono rilasciati “fatti salvi i diritti di terzi” (ci mancherebbe altro).

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Un’intenzione lodevole per capire il passato: un regime transitorio postumo

Bene ha fatto il Legislatore ad occuparsene e a cercare di risolvere il problema di quelle che oggi riteniamo difformità su titoli (o edifici) datati ma che all’epoca difformità non erano considerate.

Chi ha letto il mio articolo introduttivo del Salva-casa ricorderà che di prassi già avevo parlato.

Per questo il Legislatore ha introdotto una differenziazione della “quantificazione” delle difformità a seconda del periodo di realizzazione delle opere guardando il passato con “occhi più tolleranti” e stabilendo misure percentuali più ampie.

 

La norma presenta lacune

Se leggiamo la norma e ne diamo un’interpretazione testuale ci accorgeremo presto che non tutto è lineare ed anzi molti sono i passaggi critici o le volontà male espresse, per cui occorrerà fare ricorso spesso “all’obiettivo sostanziale” del Legislatore dando un’interpretazione finalistica e non sempre letterale.

Irrisolti infatti sono gli oggetti destinatari della norma (testualmente le singole unità immobiliari se stiamo al comma 1, 1-bis e 3-bis, ma poi spuntano surrettiziamente anche gli edifici al comma 2-bis e al comma 1-ter quando si estende l’applicabilità alle distanze) e irrisolti anche i concetti di “errori progettuali” o di “errori materiali di rappresentazione progettuale delle opere”.

Concetti un po’ generici che daranno filo da torcere ai più raffinati lettori, e che sarà possibile interpretare solo con il buon senso.

L’ho già detto e scritto in precedenza: l’interpretazione finalistica è criterio necessario per applicare coerentemente le norme (e questa in particolare).

  

  

L’affermazione di un principio

C’è dunque un regime transitorio postumo che amplia la tollerabilità delle difformità e che ormai tutti conoscono per essere state ampiamente commentate dalla stampa.

Non ci soffermeremo sulle nuove quantificazioni; sulle misure c’è poco da dire, basta leggerle.
Rileva invece porre in evidenza la motivazione (inespressa, ma sottesa) che sorregge concettualmente il dettato normativo.

Al netto delle sbavature della stesura letterale c’è però l’affermazione di un principio indiscutibile che fa giustizia di incongrue letture che si sono spesso accumulate in tempi recenti.

Il principio sotteso è, per così dire, la storicizzazione dell’interpretazione degli atti (e dei fatti) per cui il corretto inquadramento delle disposizioni di legge e/o regolamentari va fatto non con la sensibilità attuale, ma con quella dell’epoca.

Principio di assoluto buon senso (ma disapplicato nella pratica) ora tradotto – per la tranquillità di tutti - in norma di legge.

Bisogna riconoscere che non era facile dare atto del riconoscimento della prassi del passato in poche righe normative, anche perché non si trattava di una “prassi” univoca a livello nazionale, ma a volte di variegate prassi locali, che erano pur sempre “prassi”.

Il Legislatore risolve il problema come ormai è Sua abitudine in modo un po’ grezzo, dando - all’articolo 34-bisnuovi parametri misurabili, per loro natura rigidi e non sempre aderenti alla complessità della realtà.

Forse non poteva fare altro, ma il passato non rientrerà tutto nelle pur ampliate tolleranze e il problema del pregresso resterà aperto.

     

Il concetto di “tolleranza” e la sua (duplice) traduzione normativa

Ecco perché, se vogliamo cogliere appieno l’innovazione e l’applicazione di questo principio, non dobbiamo limitarci al solo articolo 34-bis (che titola espressamente “Tolleranze costruttive”) ma dobbiamo estenderci fino al comma 4 del successivo articolo 34-ter che, pur parlando di “parziali difformità”, fa rientrare dalla finestra nel campo della tollerabilità quel che – a rigore – ne appariva escluso perché non espressamente previsto.

E’ evidente che questa norma è figlia dello stesso principio che asserisce il “riconoscimento della legittimità delle prassi pregresse” e quindi integra il concetto generale della “tollerabilità”.

Per dare a Cesare quel che è di Cesare va riconosciuto che il comma 4 dell’articolo 34-ter è di derivazione della legge regionale dell’Emilia-Romagna (articolo 19-bis, l.r n. 23/2004) che ha fatto (per così dire) da pionieristica apripista nell’affrontare il problema.

Orbene questa norma – pur non estendendosi a considerare immuni dalla definizione di “violazione edilizia” le “parziali difformità”, le considera “tollerabili” e non sanzionabili” purché però accertate all’esito di un sopralluogo o ispezione dai funzionari pubblici in sede di abitabilità e non contestate.

La mancata contestazione della difformità è implicito riconoscimento di “legittimazione”.

Questo asserto è condivisibile, ma di fatto è una sanatoria “implicita, generalizzata e gratuita” fin qui sempre disconosciuta dalla Giurisprudenza che ha costantemente negato effetto sanante all’abitabilità/agibilità per la diversa finalità dell’istituto rispetto all’atto abilitativo.

Ma il Legislatore ben può introdurre questo concetto e d’ora in poi la Giurisprudenza dovrà riconoscerlo.

Come anticipato però la condizione restrittiva dell’ammissibilità/tollerabilità è che vi sia stato un sopralluogo “consenziente” da parte della Pubblica Amministrazione.

E questo è un limite pur comprensibile, ma che porta anche ad antipatiche discriminazioni.

  

Una buona intenzione che porta a disparità di trattamento certe

Solo chi ha avuto (la fortuita fortuna di subire) l’accertamento in sede di abitabilità da parte dei funzionari comunali (tralasciamo qui con quali formalità) potrà godere dell’implicita sanatoria delle difformità di prassi (chiamiamole così).

Ne consegue che chi non ha avuto l’accertamento d’ufficio - pur essendosi comportato anche lui in sede esecutiva “secondo la prassi” dell’epoca - si trova ora esposto a violazione edilizia (abuso e relativa sanzione) pur non essedo stato in suo potere ottenere all’epoca la verifica del comune.

La “sanatoria implicita” risulta così casuale, il che non mi pare coerente col principio di equità.

Vorrei richiamare che fin dal 1994 il DPR n. 425 ha disposto la facoltatività del controllo comunale in sede di abitabilità e l’acquisizione dell’abitabilità per silenzio-assenso (a norma dell’articolo 4, comma 3) sostituendo il sopralluogo dei tecnici comunali con “l’asseverazione della conformità al progetto” del direttore dei lavori.

Ad oggi poi l’agibilità si acquisisce solo per autocertificazione ex articolo 24 del DPR 380/01.

Il Legislatore ha dunque ritenuto (all’insegna della semplificazione/liberalizzazione) che il sopralluogo del tecnico-pubblico sia sostituibile all’asseverazione del tecnico-privato.

Dunque un’attestazione tecnica di conformità esiste ed è presumibile ritenere che il tecnico-privato di allora l’abbia redatta secondo “prassi dell’epoca”, ovvero così come si sarebbe comportato secondo “prassi dell’epoca” anche il tecnico-pubblico (se avesse fatto il sopralluogo).

 

La disparità di contenuto probatorio tra pubblico e privato

Il Legislatore ritiene dunque non probanti in modo equivalente gli accertamenti tecnici del pubblico e quelli del privato !?! A smentita di tutto il processo di liberalizzazione sempre riaffermato che connota la materia edilizia da almeno trent’anni a questa parte.

Se poi si pensa al recente orientamento del Consiglio di Stato (Sez. VI, 08.07.2022, n. 5746 che abbiamo commentato in InGenio 01.07.2024 – “L'esistenza degli atti per silenzio-assenso e garanzie sostanziali degli interessi pubblici”) avremo immobili con abitabilità consolidate non più annullabili non solo per decorrenza dei 180 giorni del precitato articolo 4, comma 3, ma che non sarebbero neppure state annullate all’epoca in caso di verifica perché conformi alla “prassi” del momento che la stessa Pubblica Amministrazione avrebbe condiviso.

Una situazione a dir poco illogica.
E’ possibile uscirne?
Forse sì, ma cambiando metodo.

  

Dal formalismo legislativo all’apprezzamento discrezionale tecnico

Se restiamo nella metodica del formalismo giuridico non ne usciremo mai.

Impossibile descrivere analiticamente le varie e diverse modalità delle prassi passate.

Occorre cambiare prospettiva. Ed entrare nel campo della valutazione tecnica.

Parlare di discrezionalità – anche se si tratta di discrezionalità tecnica – suscita inquisitòri sospetti in questi tempi in cui si ritiene di disciplinare tutto nei dettagli perché sennò ci si espone ai favoritismi e alla disparità di trattamento (… o peggio).

Nel comune sentire si è creata un’innata diffidenza nelle capacità tecniche degli operatori, ai quali si ritiene di dover sottrarre capacità tecnica di valutazione discrezionale attraverso discipline di estremo dettaglio nella convinzione di rendere “asettica” (e dunque oggettiva e incorruttibile) l’applicazione operativa.

L’esperienza insegna che non è così e il caso or ora trattato ne è un esempio; lo dicevano anche i nostri nonni: summum ius, summa iniuria.

  

Forse si può; e allora perché no?

Lungi da me l’idea di introdurre una deregulation, bensì qualche criterio applicativo che non sia semplicemente metrico ma un po’ più raffinato e “tecnico” penso si debba tentare.

Riprendendo un suggerimento che già avevo anticipato nell’articolo introduttivo a questi commenti al Salva-casa (“Salva-Casa alla prova dei fatti nella transizione dal Paese virtuale al Paese reale”) la valutazione tecnica è fondamentale in molti campi.

Se è vero che l’attuale formulazione del comma 4 dell’articolo 34-ter riconosce di fatto ai tecnici della Pubblica Amministrazione la valutazione dell’ammissibilità di difformità pregresse come accettabili ed esenti da sanzioni (in sostanza tollerabili) in base alle prassi dell’epoca significa due cose:

  • in primo luogo che un potere di valutazione tecnica discrezionale di fatto lo si riconosce (anche se ex post) in capo alla Pubblica Amministrazione (e, dunque, se lo facciamo per il passato non si vede perché negarlo nel presente per “leggere” quello stesso passato).
  • in secondo luogo perché, evidentemente, una “prassi” esisteva ed è anche ricostruibile in base ai casi concreti (che la Pubblica Amministrazione ben conosce e di cui conserva documentazione); basterebbe dare riconoscimento di questa prassi non solo nei casi dell’avvenuto accertamento d’ufficio, ma in generale.

Caso per caso bisognerebbe cioè porsi la domanda: se quell’opera fosse stata soggetta a verifica d’ufficio, come si sarebbe comportato il tecnico pubblico di allora? Ed in base a precedenti documentali trarre le conseguenze.

E’ un’operazione complessa e responsabile, ma non azzardata e né spericolata; è la congrua applicazione del principio che il Legislatore ha posto a presidio del comma 4 dell’articolo 34-ter.

Parafrasando il brocardo latino “tempus regit actum” che motiva la conformità degli atti al momento del rilascio – e se mi fosse consentito inventarne uno nuovo – potremmo dire “tempus regit factum” per giustificare i comportamenti tenuti in conformità alla prassi dell’epoca.

Che poi - sotto sotto - è quello che ha riconosciuto il Legislatore limitatamente ai casi con accertamento d’ufficio.

  

E in campo civilistico?

Da ultimo ci si potrebbe porre la domanda se le tolleranze fissate dal DPR 380/01 – valevoli in campo amministrativo – possano essere utilmente applicate anche in campo civilistico.

A prima vista parrebbe di no, se è vero che il comma 3-ter dell’articolo 34-bis espressamente esclude che dal riconoscimento delle tolleranze possano derivare limitazioni ai diritti dei terzi.

Anzi l’originaria stesura del comma 3-ter proponeva addirittura una sorta di riconduzione delle tolleranze entro la “non lesione” dei diritti dei terzi per essere riconosciute tali. Così non è più perché la norma è stata fortunatamente cassata nella conversione in legge.

Le tolleranze in sede amministrativa sono riconosciute; in sede civilistica - come avevamo già anticipato ( “Salva-Casa e l’amaro calice delle certificazioni”) i diritti vanno tutelati al netto delle tolleranze; almeno di quelle del Testo Unico dell’Edilizia.

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Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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