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La procedura e i requisiti migliorativi sostitutivi per le deroghe igienico-sanitarie del Salva-Casa

L'articolo analizza le deroghe igienico-sanitarie introdotte dal "Salva-casa" nel Testo Unico dell’Edilizia, evidenziando incongruenze e problematiche procedurali. Tra le varie criticità, l'inserimento di generiche prescrizioni di miglioramento di requisiti igienico-sanitari difficili quindi da applicare e la richiesta di un non chiaro "assenso" amministrativo, aumentano l'incertezza e il rischio applicativo di queste norme transitorie.

Facciamo seguito al commento sulle condizioni di ammissibilità delle deroghe alle norme igienico-sanitarie del Salva-Casa (vedi articolo – “Le deroghe igienico-sanitarie del Salva-casa e le condizioni di applicabilità”) completando la disamina del nuovo articolo 24 del Testo Unico dell’Edilizia con gli aspetti procedimentali e in merito ad un ipotetico assenso che la norma prevede.

Troveremo disposizioni di difficile e contraddittoria applicazione che – rileva l’Autore – sono conseguenza dell’incongrua (e frettolosa) collocazione delle disposizioni derogatorie nell’articolo dell’Agibilità, ovvero dalla fine del procedimento realizzativo anziché dall’avvio.


Nel precedente articolo abbiamo evidenziato le condizioni che sono premessa di applicabilità della deroga: vediamo ora la procedura e le ulteriori condizioni.

Scopriremo due sostanziali irritualità che qui anticipiamo per agevolarne poi la comprensione in un’analisi dettagliata.

Si tratta di:

  • una inversione della corretta sequenzialità delle attestazioni tra progetto e fine lavori
  • una non meglio specificata condizione di accettazione delle proposte migliorative della salubrità dei locali.

Cominciamo dalla prima questione.

  

L’incongrua collocazione della disposizione di legge nel Testo Unico

Abbiamo fin qui detto (esaminando il comma 5-ter) che per usufruire delle agevolazioni della riduzione dei parametri igienico-sanitari occorre un progetto ed abbiamo fatto la disamina se debba essere limitato all’unità edilizia o all’intero edificio e a quale tipologia di intervento debba essere sottoposto.

Dovremmo presupporre che la destinazione/utilizzazione abitativa dei locali a 2,40 m di altezza o dei monolocali di 20/28 mq di superficie sia definita appunto nel progetto e lì attestata dal progettista.

Se però esaminiamo il nuovo Testo Unico dell’Edilizia opportunamente integrato con le modifiche della legge n. 105/2024, vedremo che i commi aggiunti (da 5-bis a 5-quater) sono inseriti all’articolo 24 che tratta l’Agibilità e che quindi la richiesta asseverazione di conformità al progetto non va fatta in sede di presentazione del progetto, ma in sede di agibilità, ovvero a progetto eseguito.

Il che già appare incongruo.

Così però recita indiscutibilmente il disposto normativo perché impone che l’asseverazione “di conformità” va fatta ai fini della “certificazione di cui al comma 1” che è appunto la “segnalazione certificata” ai fini dell’Agibilità. (?)

Ma allora il progetto quale destinazione/uso riportava per quei locali/alloggi ?
Come si può attestare in agibilità la conformità alle deroghe se già non fossero previste in progetto ?

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Un’incoerente successione logico-consequenziale del procedimento

E’ evidente una scollatura logico-consequenziale che traspare anche dal fatto che il Legislatore chiamerebbe a fare l’attestazione di conformità di cui al comma 1 dell’articolo 24 in sede di Agibilità “il tecnico progettista abilitato”, mentre la norma dell’articolo 24 (al comma 5 lettera a) richiede tale asseverazione al direttore dei lavori (come è congruo che sia).

In agibilità il tecnico direttore dei lavori ben potrebbe essere diverso dal tecnico progettista; e se anche fosse lo stesso sarebbe diverso il suo ruolo.

Possiamo dire che il Legislatore ha preso un abbaglio ? Si poteva (si doveva) fare di meglio.

Possiamo/dobbiamo allora così ricostruire la procedura: nel progetto il “tecnico progettista abilitato” può (la norma la esprime coma una facoltà) attestare la conformità alle nuove norme derogatorie che poi riconfermerà in sede di agibilità.

L’interpretazione finalistica di cui ho spesso parlato si impone per dare senso logico e cronologico alla procedura.

  

Una più organica disposizione delle norme era possibile

Abbiamo già rilevato che questi nuovi commi (5- bis, ter e quater) sono frutto della conversione in legge ma non erano nel testo originario del decreto-legge, per cui appare evidente che salendo sul treno in corsa sono anche capitati nel vagone sbagliato.

Forse – se possiamo suggerire – sarebbe stato più organico che fossero stati aggiunti al comma 1-bis dell’articolo 20, quello che promette la revisione dei requisiti igienico-sanitari visto che ne sono una pur parziale e temporanea deroga “nelle more” della loro adozione !

Magari richiamando la deroga anche negli articoli 6-bis, 22 e 23 visto che il titolo dipenderà dal tipo di intervento che si intende eseguire che può andare dalla manutenzione straordinaria alla ristrutturazione pesante (come vedremo più avanti).

Così si sarebbe data congruità sia al momento dell’asseverazione (da farsi ex ante e non ex post), sia al soggetto asseverante (il progettista abilitato e non il direttore dei lavori).

E ora passiamo alla seconda questione.

  

I requisiti igienico-sanitari sostitutivi giustificativi della deroga

Ma c’è di più. O di peggio.
L’intervento prescelto (recupero per l’intero edificio o ristrutturazione anche per il singolo alloggio) parrebbe non portare di per sé l’automatico riconoscimento della deroga.

Sempre il comma 5-bis impone – quale condizione di utilizzabilità delle deroghe – che:

  • nel caso della lettera a) (recupero edilizio) vi sia “un miglioramento delle caratteristiche igienico-sanitarie”
  • nel caso della lettera b) (progetto di ristrutturazione) sia adottata una serie di “soluzioni alternative” che si suggeriscono in modo assai generico del tipo: “adeguata ventilazione” o aumento delle superfici dei locali (evidentemente a compensazione della minore altezza – aspetto quest’ultimo che sarà difficile applicare nei monolocali di cui si riduce la dimensione !)

Se leggiamo gli atti preparatori vedremo che queste prescrizioni sono la pedissequa trascrizione delle condizioni cui il Consiglio Superiore di Sanità ha subordinato la condivisione della norma.
Ma non basta trascrivere un suggerimento concettuale in legge senza precisare “il chi” e “il come” (e “il quando”) per tradurlo in pratica e garantirne l’efficacia.

Che il generico “miglioramento delle caratteristiche igienico-sanitarie” richiesto dalla lettera a) sia prescrizione di per sé aleatoria e mera dichiarazione di principio è scontato, ma anche la disposizione della lettera b) che richiede “soluzioni alternative” - che potrebbe apparire più raffinata perché vorrebbe introdurre parametri di natura prestazionale in sostituzione di quelli di natura dimensionale – di fatto è anch’essa di una genericità assoluta priva di qualsivoglia riferimento tecnico-scientifico e non si sa bene demandata alla sensibilità di chi.

Chi dovrebbe assicurare la surrogabilità delle nuove soluzioni ai fini igienico-sanitari ?

Trattandosi di deroghe, il progettista non può attestare la conformità dell’efficacia delle soluzioni alternative da Lui stesso adottate.

Quando si esce dalla norma scritta entriamo nell’ambito della discrezionalità pressoché totale che non possiamo surrogare con il “sentimento” individuale.

  

L’acquisizione dell’assenso (?)

Sorge allora un dubbio perché – quasi incidentalmente – il comma 5-bis ha un altro passaggio di difficile interpretazione in quanto dispone che la certificazione di conformità richiesta al tecnico debba acquisire anche l’“assenso” dell’amministrazione competente.

Questo inciso non compare nelle dichiarazioni delle agibilità “normali” di cui al comma 1 dell’articolo 24 quando si richiede semplicemente l’attestazione di “conformità dell’opera al progetto” e il rispetto delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, … conformi alle leggi.

Il Legislatore si è sbagliato? E allora poteva tacere.
O dobbiamo invece dedurre più coerentemente (visto che si tratta di un inciso aggiunto) che ha voluto riservarsi la possibilità di un controllo postumo su quei requisiti sostitutivi e giustificativi delle deroghe dimensionali “atte a garantire” idonee condizioni igienico-sanitarie” ?

Perché è evidente che quando si invoca l’“assenso” si deve presumere un comportamento attivo (e non passivo) dell’“amministrazione competente”. L’assenso non è automatico.

E ancora: quale tipo di assenso? Certamente non tacito perché anche il silenzio-assenso deve fondarsi su parametri valutativi certi.

Valutazione discrezionale ? ex post poi ? A opere eseguite?
Ma poi chi è l’amministrazione competente ? l’autorità sanitaria?

La previsione di un assenso pubblico di riconoscimento di funzionalità proposta sarebbe anche concepibile, ma così espressa la norma è un’arma scarica.

PER APPROFONDIRE LEGGI ANCHE Salva Casa: tutte le attestazioni (tecniche e non) che devono fare i professionisti tecnici

La tipologia di atto edilizio richiesto non prevede valutazioni discrezionali

Al di là del “se” e del “come” fare le verifiche resta anche il “quando”.

In sede di agibilità come recita testualmente la norma o in sede di richiesta/comunicazione dell’atto abilitativo (come abbiamo supposto noi)?

Che in sede di agibilità sia un’incongruenza lo abbiamo già detto.
Ma lo è anche in sede di atto abilitativo preventivo.

Il Legislatore non dà indicazioni specifiche sull’atto abilitativo necessario per cui si deve ritenere che sia quello dovuto a seconda del tipo di intervento prescelto e siccome può andare dalla manutenzione straordinaria alla ristrutturazione edilizia (compresa quella pesante) si potrà trattare di c.i.l.a., di s.c.i.a . o anche di PdC.

Nei primi due casi si ha certificazione di parte, ma anche in caso di PdC si potrebbe ottenere l’atto per autocertificazione con silenzio-assenso.

In ogni caso non sono ammesse valutazioni discrezionali (né preventive, né tanto meno successive).
Comunque la si riguardi la disposizione di legge pare di difficile inquadramento.

Nell’uno e nell’altro caso resta un’anomalia nell’ordinamento però pur sempre esiste e come faranno le amministrazioni a far finta di nulla?
L’applicazione di questa norma presenta aspetti di indubbia rischiosità.

Un rilievo marginale (o forse no)

La norma che riduce le superfici dei monolocali a 20 mq per una persona (servizi compresi) non dice se si tratta di superfici nette o lorde (così come non lo diceva l’articolo 3 del d.m. del 1975 da cui deriva).

Faccio notare che questa norma andrebbe letta con il disposto dell’articolo 3, comma 3 del d.m. n. 1444/68 che stabilisce gli standards abitativi su cui quantificare le dotazioni territoriali dei piani regolatori fissandoli in un minimo di 25 mq inderogabili di superficie lorda per abitante; dimensioni solo ampliabili (e spesso ampliate) dalle singole amministrazioni regionali o anche comunali nel dimensionamento degli strumenti urbanistici.

Se valutassimo i 20 mq netti saremmo borderline, se li consideriamo lordi saremmo in conflitto con la norma del d.m. n. 1444/68 (essa pure di Principio inderogabile).
Ma delle ricadute urbanistiche riparleremo nello specifico.

Cogliere l’attimo (se di attimo si tratterà)

Le deroghe qui in esame sono norme transitorie in attesa dell’emanazione delle già pluriannunciate nuove disposizioni di natura prestazionale che dovranno sostituire quelle del d.m. del 1975.

Ne abbiamo già detto nell'articolo “La bozza di Decreto dei nuovi requisiti igienico-sanitari in edilizia pone qualche criticità”.

Se tanto mi dà tanto la soluzione a regime non è dietro l’angolo, per cui vale la pena approfondire il presente assetto anche se molto complesso e problematico. Però che fatica derogare !

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Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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