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La panacea della CILA tardiva: come funziona la regolarizzazione di un'opera edilizia senza i titoli giusti?

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La CILA (comunicazione di inizio lavori asseverata) tardiva è una sorta di 'magnifica' possibilità, offerta dalle normative urbanistiche, per sanare una situazione di 'abuso edilizio lieve', cioè per evitare di pagare 1.000 euro per non aver presentato la comunicazione in caso di lavori rientranti nel perimetro ex art. 6-bis del dpr 380/2001 (lavori di manutenzione straordinaria).

Come recita lo stesso articolo, la mancata CILA comporta quella sanzione, che è ridotta di due terzi se la comunicazione è effettuata spontaneamente quando l'intervento è in corso di esecuzione.

Fin qui tutto chiaro, giusto? No. Almeno a giudicare dalla 'storia' raccontata nella sentenza 1273/2021 del 25 febbraio scorso del Tar Campania, relativa all'annullamento delle pratiche edilizie CILA presentate per regolarizzare un frazionamento edilizio.

 

Il caso

Il provvedimento di annullamento si fonda sulla seguente motivazione:

  • l’immobile oggetto delle due procedure edilizie menzionate è affetto da illegittimità consistenti in pregresso frazionamento, non regolarizzato e, pregresso cambio d’uso di una legnaia in locale abitativo, anch’esso non regolarizzato”;
  • “gli interventi edilizi assentiti con le succitate pratiche edilizie si basavano sulla dichiarata legittimità degli immobili; legittimità che, invece, risulta non verificata”;
  • l’assenso reso all’esecuzione dei lavori di cui alle pratiche n. ..., era legato alla legittimità urbanistica pregressa degli immobili”;
  • la configurazione originaria dello stabile (“n. 5 unità immobiliari di cui due al piano terra, rispettivamente con destinazione di deposito e negozio e due ai piani superiori di cui una a destinazione abitativa e l’altra con parziale destinazione deposito”, oltre a “parte dei locali a piano terra [facenti] parte all’epoca di altro stabile”) si presenta mutata (“si evidenzia la presenza di 10 subalterni e l’immobile in questione risulta parte di tali aumenti di unità immobiliari abitative e cambio d’uso, posti in essere negli anni 2005 e seguenti e in assenza di permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica”).

 

La CILA non risolve gli abusi pregressi

Risultano accertate, nell’immobile oggetto delle CILA, svariate illegittimità, consistenti nei seguenti interventi realizzati sine titulo:

  • frazionamenti e fusioni, con le integrazioni impiantistiche necessarie a dar luogo a unità immobiliari autonome;
  • mutamento di destinazione d’uso del locale legnaia in locale abitativo;
  • realizzazione del piano seminterrato adibito a cantina.

Al riguardo, il Tar ribadisce che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, “la valutazione dell’abuso edilizio presuppone una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate ... in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante bensì dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni” (da ultimo, Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza n. 2738 del 2018); e ciò anche quando gli interventi si siano svolti nel corso del tempo, come nel caso in esame.

Sia l’Amministrazione sia il verificatore concordano nel qualificare quelli realizzati come interventi di ristrutturazione edilizia, in quanto finalizzati a trasformare l’edificio originario “mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti ...” (articolo 3, comma 1, lettera d, del D.P.R. n. 380 del 2001).

Con le CILA (in sanatoria, ai sensi dell’art.6 comma 7 del dpr 380 del 2001, nel testo vigente ratione temporis), la ricorrente ha inteso dare seguito, rispettivamente, ai seguenti interventi:

  • “diversa distribuzione degli spazi interni, ... manutenzione generale ... integrazione dell’impiantistica”;
  • “frazionamento unità immobiliare”.

La ricorrente ha inteso, poi, conseguire l’abitabilità delle due unità immobiliari così ricavate.

Al riguardo, il Consiglio di Stato, con il parere n. 1784 del 2016 (invocato dalla stessa ricorrente), ha affermato quanto segue:

  • la CILA deve ritenersi “un istituto complementare alla SCIA, poiché entrambi si inquadrano nel processo di liberalizzazione delle attività private”; “in entrambe le ipotesi il privato è legittimato ad iniziare l’attività sulla base dello schema norma-fatto-effetto, poiché tanto la segnalazione certificata quanto la comunicazione asseverata costituiscono per legge fatti idonei a esercitare un’attività privata su cui insistono interessi generali”;
  • l’attività assoggettata a CILA non solo è libera, come nei casi di SCIA, ma, a differenza di quest’ultima, non è sottoposta a un controllo sistematico, da espletare sulla base di procedimenti formali e di tempistiche perentorie, ma deve essere ‘soltanto’ conosciuta dall’amministrazione, affinché essa possa verificare che, effettivamente, le opere progettate importino un impatto modesto sul territorio”;
  • nell’ipotesi “in cui la comunicazione sia utilizzata al di fuori della fattispecie legale, ossia per eseguire opere che richiedano il permesso di costruire (o la stessa SCIA) o, comunque, in violazione della normativa in materia ... l’amministrazione non può che disporre degli ordinari poteri repressivi e sanzionatori dell’abuso, come peraltro implicitamente previsto dalla stessa disposizione, laddove fa salve ″le prescrizioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia […]″”;
  • resta ovviamente fermo ... che, nei casi in cui un’opera che avrebbe richiesto un permesso di costruire o una SCIA è stata eseguita dall’interessato sotto il regime di CILA, l’abuso non viene sanato con le sanzioni relative alla CILA”; “in questi casi, come si è detto, la CILA è del tutto inidonea a legittimare un’opera che è, e resta, sine titulo: la sua natura totalmente abusiva continua a poter essere rilevata, in ogni momento e senza limiti di tempo, dall’amministrazione competente”.

Nel caso di specie, la PA ha correttamente ritenuto che la mancanza della legittimità urbanistico-edilizia dell’immobile (per le ragioni sopra rappresentate) precludesse la realizzazione di ulteriori interventi, ancorché in astratto soggetti a semplice CILA, e ha pertanto azionato i propri ordinari poteri repressivi, di cui rimane senz’altro titolare.

Il richiamo improprio delle norme sull’annullamento in autotutela potrebbe al più indurre dubbi sull’utilità della presente impugnazione, per essersi il Comune, in questa prima fase, limitato a constatare l’insussistenza dei presupposti per la presentazione di una CILA (presumibilmente riservando a una fase successiva l’adozione di concreti atti repressivi dell’abuso). Tuttavia il Collegio ritiene che vi fosse comunque un interesse, in capo alla ricorrente, a contestare l’asserita abusività dell’immobile nel suo complesso, appunto in vista delle ulteriori misure che il Comune verosimilmente intraprenderà.

In definitiva, è legittima l’azione dell’Amministrazione comunale, per avere stigmatizzato l’abusività degli interventi realizzati sull’edificio e la conseguente insussistenza – evidentemente riscontrabile senza limiti di tempo e senza particolari incombenti motivazionali – dei presupposti per la presentazione di una CILA (sia pure, come si è detto, per interventi in astratto realizzabili per tal via).

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