La lezione di Valencia: l'alluvione rilancia l'urgenza di ripensare le città
Dalla tragedia che ha colpito la terza città più importante della Spagna emergono alcune indicazioni per un cambio radicale delle politiche urbanistiche. Servono i piani per il clima, interventi basati sulla natura, la partecipazione dei cittadini e sistemi di allertamento all’altezza della sfida.
La lezione di Valencia
I valencianos più anziani se la ricordano ancora bene l'alluvione del 1957, quando il rio Turia sfondò gli argini provocando almeno 400 morti e danni enormi in tutta la città. All'epoca il fiume attraversava il centro di Valencia.
Dal 1973 - anno in cui terminarono i lavori sul corso d’acqua, esito del piano denominato Plan Sur, che lo deviò di 12 chilometri a sud dell’abitato - non è più così. Oggi il Turia è lontano dal centro città.
Senza quell’opera di ingegneria idraulica di tanti anni fa, la Dana (Depresión Aislada en Niveles Alto, il fenomeno che si scatena quando una grande massa d’aria fredda, isolata ad alta quota, forma una depressione che va a scontrarsi con l’aria calda a bassa quota e il loro contrasto crea piogge intense e temporali a “v” che si fanno ancora più forti in corrispondenza dei rilievi montuosi; nda), con la sua violenza smisurata, avrebbe sicuramente provocato molte più vittime.
La deviazione del fiume portò il Turia fuori dalla città, dotando il nuovo letto di una capacità di portata di oltre 5mila metri cubi d’acqua, molti di più rispetto ai 3.700 del corso naturale.
Al posto dell'antico letto del fiume, dal 1969, c'è l’odierno Jardìn del Turia, uno dei parchi naturali urbani più grandi e visitati della Spagna, un enorme spazio verde di oltre nove chilometri quadrati all’interno del tessuto cittadino (il progetto è dell’architetto Ricardo Bofil; nda), con un parco urbano, un giardino botanico, strutture sportive e la celebre Ciudad de las Artes y las Ciencias, opera dell'architetto Santiago Calatrava, oltre a una serie di altre opere progettate da altri importanti architetti spagnoli.
Il Plan Sur è quindi un interessante esempio dell’effetto trasformativo delle infrastrutture idrauliche e paesaggistiche sull’identità e sul benessere di una città. Nata da una crisi, Valencia è riuscita a integrare una rete di infrastrutture ricreative e di trasporto con il suo centro storico e i quartieri circostanti.
Ma se l’opera dell’uomo ha messo in salvo la terza città più abitata della Spagna, non così è stato per le tre province della Comunità Valenciana. Si parla infatti di ben 70 comuni colpiti dall’alluvione scatenata nei giorni scorsi dalla Dana.
Ma cosa è accaduto in quella zona della Spagna?
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I fattori di rischio che hanno prodotto la catastrofe
Nicolas Lozito, giornalista ambientale, su La Stampa del 3 novembre, ha provato a elencare dieci fattori rischio. Vediamoli in sintesi.
- In un solo giorno è caduta una quantità di pioggia di un anno (nella zona di Chiva, sono caduti 490 millimetri di pioggia in poche ore, superando la media annuale di 450-500 millimetri).
- La Dana, fenomeno atmosferico conosciuto e prevedibile, non ha mai avuto intensità simili a quelle registrate nella notte tra il 29 e il 30 ottobre scorsi.
- Le infrastrutture e i comuni attorno a Valencia si sono rivelati impreparati, in un territorio di per sé già fragile e fortemente urbanizzato.
- A Valencia città le infrastrutture c’erano, ma non nel resto della regione.
- Il calore del mar Mediterraneo ha innescato la tempesta.
- Il calore dell’aria ha reso le piogge più rare, ma più potenti. A questi fattori di rischio si sono sommate le responsabilità politiche delle autorità locali.
- il governatore di Valencia Carlos Mazón ha scelto di ignorare l’allarme rosso.
- I messaggi di pericolo sono rimasti inascoltati e l’allerta è stata tardiva.
- Negli ultimi anni è stata abolita l’unità di emergenza regionale.
- Tutto ciò porta a dire che con un diverso atteggiamento nei confronti della crisi climatica in atto da anni la tragedia sarebbe stata evitabile o quantomeno meno tragica di com’è stata. Stanno qui le responsabilità innanzitutto politiche delle istituzioni nazionali e locali e anche collettive di una società che fatica ancora a cogliere il passaggio di fase climatica che da diversi anni ci accompagna.
Ma cosa, in fretta, si dovrebbe mettere in campo? Proviamo a indicare alcune azioni che potrebbero ridurre l’impatto degli effetti climatici su città e territori, rendendoli più resilienti.
Serve un cambio radicale della cultura urbanistica
Partiamo dalla pianificazione del territorio di area vasta e dall’urbanistica comunale. L’una e l’altra devono, in fretta, mutare pelle e cambiare il paradigma di riferimento.
«C’è bisogno di un cambiamento radicale della cultura urbanistica - suggeriva tempo fa Carlo Gasparrini, professore di urbanistica all’università Federico II di Napoli in un’intervista pubblicata nel libro Fare Resilienza (2020; Altreconomia) -. In caso contrario il tema climatico rischia di essere vissuto come elemento accessorio, un’innovazione a un armamentario tradizionale. Invece, dobbiamo raccogliere questa sfida per affrontare l’emergenza climatica...Ciò che dobbiamo fare è traghettare la questione climatica all’interno della cultura urbanistica, degli strumenti che utilizziamo e del nostro modo di progettare le città, cambiandone però le priorità...Serve incardinare la cultura urbanistica su basi nuove, diverse da quelle utilizzate nei piani urbanistici realizzati.
Oggi dobbiamo ragionare in termini di infrastrutture verdi e blu, intese come nuovo telaio di una riurbanizzazione resiliente delle città. Le infrastrutture verdi e blu rappresentano il rovesciamento della visuale sulla città: non guardare più il tessuto edificato, ai pieni della città, ma al sistema degli spazi aperti in cui si gioca la partita della resilienza urbana. Questi temi devono passare dallo sfondo in cui sono stati relegati al primo piano della scena urbana. Questa dovrebbe essere la base della nuova urbanistica nell’era dell’emergenza climatica».
Servono i Piani locali per il clima
Ciò che si è capito, o che si dovrebbe in fretta capire, è che il clima deve diventare la componente fondamentale della progettazione della città costruita. Occorre disporre di nuovi strumenti, capaci di indirizzare le scelte pubbliche e private. Il piano del clima deve essere lo strumento in grado di informare e orientare la pianificazione ordinaria.
«Se non partiamo dal clima, dalla sicurezza dei cittadini rispetto ai rischi crescenti, come possiamo disegnare correttamente le altre politiche pubbliche?», scriveva su Avvenire di alcuni giorni fa la professoressa Elena Granata del Politecnico di Milano.
Per la docente milanese il piano del clima dovrebbe essere redatto a monte di tutti gli altri piani di settore: prima ancora del Pgt, dei piani del traffico, del verde, dei servizi pubblici, del commercio, perché dovrebbe orientare tutti gli altri strumenti di pianificazione urbana.
«Il Piano del clima - scrive ancora Granata - non è solo un piano, cioè un altro strumento che arricchisce la già ricca strumentazione della pianificazione territoriale e urbana, ma è il contenitore di dati, informazioni, carte del rischio e delle fragilità del territorio».
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Servono le Nature-Based Solutions
Negli ultimi decenni l’intensità dei processi di antropizzazione ha causato effetti irreversibili sulla disponibilità di risorse naturali. I processi di urbanizzazione sono tra le cause più rilevanti della crisi ambientale ed ecologica del pianeta.
Di fronte all’urgenza di fornire risposte ai cambiamenti climatici, si pone quindi la necessità di un radicale aggiornamento del paradigma urbanistico in una prospettiva di sviluppo che metta al centro le priorità ecologiche e ambientali.
«Per decenni i piani hanno proposto un modello basato sulla espansione urbanizzativa - dichiarava Andrea Arcidiacono, professore ordinario al Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano in un’intervista pubblicata nel libro Fare Resilienza -. Oggi è necessario dare nuova efficienza e sostenibilità alla struttura urbana esistente; operare una rigenerazione della città contemporanea che passi dalla tutela e dalla valorizzazione di quei servizi ecosistemici da cui dipendono la qualità e il benessere del nostro vivere. Nella ridefinizione dei paradigmi del progetto urbanistico, le reti verdi e blu possono costituire un contributo progettuale innovativo per la riconfigurazione ecologica della città e del territorio contemporaneo: una struttura portante nel disegno della nuova città pubblica, capace di affrontare in un’accezione multifunzionale la conservazione e la valorizzazione dei servizi ecosistemici, supportando misure di limitazione del consumo di suolo e costituendo un disegno spaziale di riferimento per la realizzazione di interventi per l’implementazione delle dotazioni naturali urbane, le Nature-based solutions».
Serve la partecipazione dei cittadini
Le esperienze di altre città nel mondo alle prese con uragani, eventi estremi, alluvioni e innalzamento del livello delle acque dei mari - pensiamo a New York, New Orleans, San Francisco, Copenhagen, Rotterdam e tante altre ancora - insegnano che le azioni di adattamento alla crisi clima passa attraverso, e non può che essere così, la partecipazione dei cittadini, a partire dalle comunità più esposte agli effetti dell’emergenza climatica. Basti pensare a ciò che ha significato l’esperienza statunitense di Rebuild by Design, che nata a New York dopo l’uragano Sandy del 2012 si è ampliata prima alle contee limitrofe e poi ad altri stati, anch’essi alle prese con gli eventi estremi.
L’adattamento alla crisi climatica comporta un grande sforzo collettivo, che non riguarda solo la politica e le istituzioni, ma l’economia e la società civile. Non è un’operazione che può essere delegata agli esperti e ai responsabili della cosa pubblica, ma l’adattamento - come scrive ancora Granata - «impone una mobilitazione collettiva di cittadini e imprese, università e centri di ricerca, di banche e associazioni ambientaliste e di volontariato. La risposta alla crisi climatica richiede un grande sforzo corale che coinvolge tutti i cittadini».
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