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L'urbanista, un mestiere difficile! Le differenze con il lavoro di architetti e ingegneri

Approfondimento di Ermete Dalprato

Se si volesse mettere a confronto l’attività professionale di un architetto o di un ingegnere nella abituale attività di progettazione con quella dell’urbanista si troverebbero delle sostanziali differenze che dovrebbero indurre profonde riflessioni.

In una parola potremmo dire in sintesi che l’attività di progettazione “architettonica” è caratterizzata dall’”unicità”, quella dell’”urbanistica” dalla “pluralità”.

Non è un giudizio di complessità, sia ben chiaro, né tanto meno un giudizio di valore ma semplicemente una constatazione dei “fattori” (potremmo definirli così) che incidono sull’attività professionale e, in un certo senso, la regolano.

I 4 fattori dell'urbanistica

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Se nel caso di progettazione architettonica si ha l’unicità del committente, dell’esecutore, del gestore nel caso di progettazione urbanistica ad ognuna di queste figure corrisponde una pluralità di soggetti.

1. Il committente

Chi conferisce un incarico di progettazione architettonica è un singolo (persona fisica o soggetto giuridico individuale) che ha ben chiaro l’oggetto dell’incarico. Del quale indica la finalità funzionale, i limiti di costo, …. e alla fin fine ne valuta anche l’estetica (se l’opera non piace al committente non si fa).

Certo il progettista influisce sulla definizione dell’”oggetto” finale con le sue conoscenze tecniche, la sua culture, il suo senso estetico, ma risponde in modo diretto al committente …. Che è unico. E, generalmente, ha le ide chiare

Il committente dell’urbanista (parlo della pianificazione comunale o sovracomunale) invece è … la pubblica amministrazione.

Che esattamente univoca non è perché, anche quando fosse monocolore – cosa sempre più rara nel contesto attuale – è comunque espressione di una coralità (non sempre omogenea).

Al di la dunque della complessità del tema da affrontare e dell’obiettivo da perseguire (di per sé articolato e multiforme) il fine della progettazione urbanistica (la progettazione della città) è più indeterminato di quello architettonico (l’edificio).

Dando comunque per scontato che l’affidamento dell’incarico da parte dell’”esecutivo” (sindaco e giunta nel caso del comune) sia puntualmente definito, certo è che l’approvazione del piano urbanistico deriverà solo dall’approvazione del Consiglio comunale (che diventa dunque il vero committente) che potrà incidere sulla definitiva redazione del Progetto attraverso le modifiche introdotte nella fase delle “osservazioni”.

Fase ormai tradizionalmente complessa che, pur se non potrà condurre ad uno stravolgimento del piano così come concepito e progettato dall’urbanista, potrà introdurre modifiche anche rilevanti e non sempre coerenti dal punto di vista tecnico. E ciò perché le modifiche (le cosiddette “controdeduzioni”) – purché legittime – vengono apportate con deliberazione del consiglio comunale e non è mica detto che la convergenza del voto sia sinonimo di coerenza progettuale. Rispondono a “logiche” politiche.

In urbanistica il Committente è un soggetto “complesso”.

2. L'esecutore

Nel caso di progetto architettonico l’attuatore del progetto è un’impresa la quale realizza sulla base di esecutivi dettagliati e, soprattutto, sotto la direzione lavori di un tecnico (il direttore dei lavori) il quale a quegli elaborati deve attenersi. Se poi, come avviene nella generalità dei casi, il direttore dei lavori è lo stesso progettista siamo sicuri della rispondenza del realizzato al progetto e agli intenti iniziali che lo hanno generato.

Nel caso della progettazione urbanistica l’esecutore ….. è una pluralità di soggetti.

Che vanno dal pubblico (lo stesso comune che ha approvato il piano, ma per le sole opere pubbliche) al privato, anzi, ai tanti privati titolari del diritto di costruire …. I quali interpreteranno le norme di piano secondo i “loro” obiettivi costruttivi e la “loro” sensibilità” tecnica ed … estetica.

Sappiamo bene quale siano le difficoltà di dettare regole urbanistiche che non costituiscano gabbie ma che garantiscano almeno una coerenza formale dell’aspetto della città. E anche l’istituto della commissione edilizia non sempre ha garantito l’obiettivo che si poneva.

In urbanistica dunque l’esecutore è controllabile solo nella quantificazione dei volumi, nella loro distribuzione macro-planimetrica, nelle altezze massime, nelle distanze minime, ma non nella forma. Ovvero nei parametri quantitativi, ma non in quelli qualitativi. A meno di fare sviluppi specifici di dettagli architettonici comunque limitati ad alcune parti della città come avveniva in passato.

La pluralità degli esecutori non condizionerà però solo l’aspetto della città, ma anche le zone di sviluppo che saranno condizionate dalla diversa appetibilità di mercato, dalle disponibilità economiche dei titolari dei diritti edificatori e, ancor più in generale, dall’andamento dell’economia locale. E qui le disomogeneità e gli squilibri saranno ben più perniciosi delle incongruenze estetiche.

D’altra parte da molto tempo il Legislatore ha cercato di affiancare strumenti di programmazione a quelli di pianificazione, ma i risultati sono stati (per così dire) parziali. E il pianificatore locale non ha saputo/potuto fare molto di più.

3. Il controllore

Come abbiamo detto il controllore dell’esecuzione nel caso di un manufatto edilizio è il direttore dei lavori (spesso lo stesso progettista) che opera anche in senso attivo dettando disposizioni esecutive integrative degli elaborati progettuali.

In urbanistica il controllore è il comune che però ha solo poteri repressivi.

Si rammenta che il titolo edilizio è atto dovuto!

Il controllo è sui dati quantitativi (come abbiamo già detto) ma non sul come e sul quando.

Oggettivamente un po’ poco per garantire il risultato.

Ma c’è poi un ulteriore fattore che interviene sul progetto urbanistico e forse è il più determinante:

4. Il tempo

L’orizzonte temporale di realizzazione di un manufatto edilizio si misura in termini di mesi o di pochi anni; comunque in un periodo in cui il progettista può ragionevolmente presumere di poter “vedere” il suo prodotto finito; e poiché quella tecnica è una professione votata al “fare” poter vedere il risultato dei propri sforzi costituisce una delle migliori gratificazioni di un progettista.

A questo hanno aspirato tutti i progettisti architettonici, non ultimi i grandi che hanno lavorato alla Basilica di San Pietro a Roma.

E quando (come nell’esempio or ora richiamato) non è stato possibile per loro vedere la conclusione di quanto avevano concepito, ciò si è verificato per il fattore “tempo”: la durata dei lavori per opere complesse ha mutato i committenti (i Papi) e col cambio di committente si è modificato l’obiettivo.

Ciononostante l’aspirazione a vedere l’opera compiuta così come progettata restava anche postuma e ognuno di loro ha lasciato disegni e progetti di come (anche dopo la sua morte) voleva che fosse completata la “sua” creatura, tanto che addirittura il Sangallo il Giovane fece costruire un plastico a scala umana per non lasciare dubbi di come aveva concepito e avrebbe voluto fosse realizzata la basilica di San Pietro. Che naturalmente il Buonarroti modificò.

Se il progettista architettonico ha una presumibile aspettativa di veder realizzato il suo progetto e di conservarlo immutabile nel tempo, l’urbanista no.

L’urbanista già sa, al momento della progettazione, che la proiezione temporale teorica del suo lavoro è sì l’eternità (per legge il piano regolatore ha validità a tempo indeterminato …), ma ….  proprio per questo non solo non lo vedrà finito: lo vedrà modificato.

Sa infatti che la dinamica della società, i cambiamenti economici, le mutazioni politiche, l’evoluzione sociale cambieranno il suo progetto di città che rimarrà incompiuto rispetto a come pensato all’origine.

Il che è un fatto fisiologico ed è giusto che sia così (chi ha creduto il contrario ha inseguito una chimera o un’utopia).

L’opera architettonica va concepita per rimanere. Il progetto urbanistico per essere adattato e modificato.

Concetto, questo, che non è sempre stato chiaro ai progettisti dei piani, ma che era stato ben colto da Plinio Marconi che già a metà del secolo scorso aveva riconosciuto nella “variante al piano” un elemento fisiologico dello stesso. (Senza esagerare naturalmente, sennò è sintomo di approssimazione, incapacità o labilità).

Forse è più difficile progettare qualcosa di adeguabile nel tempo che non qualcosa di statico e compiuto in sé stesso; occorre avere attenzione al fatto che il piano è uno strumento e non un oggetto. E rinunciare all’individualità.

L’urbanistica, tradizionalmente ritenuta evolutasi da una costola dell’architettura, è oggi materia affatto diversa e autonoma, non solo e non tanto per complessità intrinseca, quanto per tipologia degli attori, modalità di redazione e prospettiva di vita.

Fare l’urbanista è davvero un mestiere difficile e, fors’anche, ingrato.

Il prodotto del suo operato (anche se pensato con proiezione di medio-lungo periodo) è a rapido decadimento.


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Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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