INGENIO, uno strumento per la professione
Il codice deontologico di ogni professione o mestiere include per sua natura l’obbligo di compiere un’opera ben fatta.
Nei giorni scorsi leggevo uno studio di Carlos Llano Cifuentes, dell’Istituto Panamericano per l’Alta Direzione dell’Impresa (IPADE) dell’Università Panamericana (Città del Messico) dal titolo “Etica professionale e santificazione del lavoro”.
Nello studio trovavo alcune riflessioni oggi molto attuali: in un momento così particolare per la professione dell’ingegnere, in cui i media spingono l’opinione pubblica verso l’idea che la liberalizzazione delle professioni porterebbe alla soluzione dei problemi economici del paese e molti poteri forti del paese parlano più del problema delle tariffe minime (già peraltro soppresse) piuttosto che di qualificazione, un documento che collega il concetto di etica professionale e santificazione del proprio lavoro appare estremamente interessante.
Il professionista tecnico implica un apporto positivo alla società
Carlos Llano Cifuentes, cita uno studio del 1969 K. R. ANDREWS, Toward Professionalism in Business Management, in “Harvard Business Review”: “Il lavoro professionale può essere inteso, in modo generico, come quell’attività di carattere pubblico, o almeno esteriormente conosciuta, che implica un apporto positivo alla società e che generalmente costituisce la fonte principale di guadagno in chi la pratica. Il nucleo che definisce l’attività chiamata professionale, qui riassunto, può essere completato sinteticamente mediante i seguenti caratteri aggiuntivi che interessano specialmente ai fini della nostra analisi: dev’essere un lavoro soggetto ad alcuni principi scientifici, regole o discipline operative, in base ai quali deve esercitarsi (e che potremmo chiamare codice scientifico-tecnico); soggetto anche a regole universalmente accettate che orientino la moralità del suo esercizio (quello che denominiamo codice etico); e associato in corporazioni, collegi o istituzioni che avallano l’appartenenza alla professione e si preoccupano del compimento delle regole scientifiche, tecniche e morali.”
È un passaggio importante, nel quale si afferma quanto sia fondamentale il nostro contributo dato alla società e, contemporaneamente, si legittima il fatto che di conseguenza vi possa essere un giusto guadagno.
Guadagnare dalla propria opera professionale non è quindi peccato, ma occorre che questo sia esercitato nel rispetto di regole scientifiche, tecniche e morali.
Per questo Llano Cifuentes si sofferma sull’importanza di seguire un codice deontologico: “Il codice deontologico di ogni professione o mestiere include per sua natura l’obbligo di compiere un’opera ben fatta, che si costituisce così in un imperativo etico basilare, senza il quale sarebbe difficile, se non impossibile, compiere gli altri obblighi morali intorno a questa attività. Questo imperativo etico basilare dell’opera ben fatta si trasforma, per la persona che aspira a santificare il proprio lavoro, in un ideale di perfezione, in quanto santificare qualcosa significa prima di tutto trasformarlo in offerta a Dio. “Non possiamo offrire al Signore cose che, pur con le povere limitazioni umane, non siano perfette, senza macchia, compiute con attenzione anche nei minimi particolari: Dio non accetta le raffazzonature” (N. GRIMALDI, El trabajo. Comunión y excomunicación, Eunsa, Pamplona 2000, pag. 15. Cfr. C. Llano, La creación del empleo, Panorama Editorial, México 1996, Parte II, “Empleos sin trabajo y trabajo sin empleo”).”
Sul concetto di etica professionale l’autore torna alla fine del documento affermando che “Messa a fuoco l’etica in questo modo, i gruppi di lavoro si costituiscono così in autentiche comunità di persone tra le quali avviene un reciproco arricchimento, invece del reciproco impoverimento che si produce quando il lavoro si allontana dai valori morali che di lui sono intrinsecamente costitutivi.”
Mi spiace qui richiamare solo alcune parti di un documento che è possibile trovare sul web all’indirizzo www.romana.org, ma rappresentano secondo me un’opportunità di riflessione, al di là delle scelte di fede che ognuno di noi può compiere; riflessioni che dovrebbero fare da guida nel dialogo che dovremo sostenere nei prossimi mesi con le istituzioni.
Professione ed etica sono un binomio quindi imprescindibile.
Nel libro “Verso la cultura della responsabilità” di Pozzati Piero, Palmeri Felice gli autori affermano “Ogni attività tecnica – l’abbiamo più volte accennato – comporta la formulazione di un suo fine che, per essere realizzato, coinvolge di solito problemi di responsabilità etica”.
A questo riguardo è molto significativo il seguente giudizio riportato nello stesso testo nel capitolo 10 ed espresso da Mike Martin e Roland Schinzinger: “L’ingegneria è la professione numericamente più diffusa e ha effetti su tutti noi in diverse aree della nostra vita. L’abilità della mano di un chirurgo ha effetti su un paziente alla volta. La valutazione di un ingegnere progettista può influenzare la vita di centinaia di persone alla volta. (…) Come mai il significato generale dell’Engineering Ethics, con il suo focus sulle decisioni e sulla responsabilità, comincia solo di recente ad essere apprezzato? Malgrado le drammatiche implicazioni dell’ingegneria sulla sicurezza e il benessere, abbiamo la tendenza a considerarla secondo lo stereotipo di strumento di una vasta organizzazione impersonale.”
È incredibile quindi verificare come in Italia in questi tempi il dialogo intorno alla nostra professione sia tutto incentrato sulla eliminazione delle tariffe minime, sulla liberalizzazione dell’accesso alla professione, sull’abolizione degli Ordini, visti come strumento di mero corporativismo, mentre appare che la priorità che le istituzioni dovrebbero porsi non sia quella della regolamentazione e della qualificazione continua, che può essere sostenuta da un professionista solo nel momento in cui il valore della sua prestazione sia poi correttamente remunerata.
Eppure si tratta di concetti affrontati e analizzati da tempo, in ogni ambito e in ogni ideologia. Lo stesso Marx nel suo manifesto sul comunismo affermava “se si lascia libera concorrenza, il capitalismo procede nel migliore dei modi, poiché si tende a vendere al prezzo più basso, ma presto nasce la concorrenza sfrenata che fa sì che si creino l'oligopolio e il monopolio e, in ultima istanza, l'eliminazione della concorrenza, causata paradossalmente dalla stessa concorrenza.”
Il pensiero quindi che il liberismo assoluto possa essere la ricetta per ottenere da un lato un abbattimento dei costi e dall’altro una qualificazione dell’offerta è non solo sbagliato, ma largamente superato.
Solo se l’obiettivo che vogliamo perseguire è quello di ottenere un deprezzamento del costo delle prestazioni professionali, con un esercito di ingegneri affamati di lavoro al punto di svendere ogni attività e quindi mettere a rischio la sicurezza dell’utente, la strada avviata è forse corretta.
Le demagogie e le false denunce peraltro non mancano. Per esempio non sono pochi i convegni in cui si riporta il fatto che le direzioni lavori siano assenti dai cantieri. Eppure pochi si chiedono quali siano le cause di questo fenomeno. La più probabile è che mentre negli appalti il valore relativo alla sicurezza, intesa come sicurezza dei lavoratori, è regolamentato e non scontabile, la parte relativa invece all’assicurazione della sicurezza degli utilizzatori dell’opera, ovvero progetto e direzione lavori, è senza limiti di ribasso. Questo modus operandi ha portato l’incidenza di queste due voci sul costo finale dell’opera, a meno che non sia coinvolto un archistar, a diventare ormai una frazione infinitesimale: la conseguenza è che gli studi di progettazione sono sempre più a corto di risorse, più affamati di lavoro, e sempre meno in grado di investire in aggiornamento e formazione.
Tutto ciò in un sistema in cui il libero professionista è soggetto a norme fiscali molto punitive rispetto a quello delle aziende (si pensi per esempio alla regolamentazione dei rimborsi spese, che per il professionista fanno parte del reddito), in cui il sistema assicurativo è ancora molto distante dal soddisfare le vere esigenze del settore, e l’evoluzione tecnica corre alla velocità della luce, comportando un’altrettanto veloce modifica delle norme, e quindi l’esigenza per l’ingegnere di aggiornarsi costantemente, ovviamente a costi propri (per i professionisti i fondi per la formazione sono un miraggio).
Ingenio nasce per questo, per dare un contributo alla professione
In questo contesto così complicato abbiamo voluto fare nascere INGENIO, un nuovo sistema editoriale e non semplicemente una rivista, perché la complessità delle esigenze di aggiornamento del professionista tecnico - ingegnere, architetto, geologo, geometra, perito, agronomo - è talmente vasta che non era possibile dare risposta semplicemente con una rivista.
Il sistema editoriale INGENIO punta a utilizzare quindi tutti gli strumenti che le moderne tecnologie mettono a disposizione: il portale, le newsletter, le applicazioni per smartphone, i social network, i blog, gli eventi e, ovviamente, la carta stampata.
Tutto questo INGENIO non può pensare di farlo da solo.
Per questo INGENIO dialogherà sia con il mondo degli Ordini e il CNI, che con le Associazioni industriali e culturali, con le Università e soprattutto con gli Ingegneri. Inoltre farà da ponte con le riviste tecniche specializzate, che spesso essendo pubblicate in poche copie non raggiungono tutti i potenziali interessati.
Un progetto ambizioso, che cercheremo di realizzare con quello spirito etico che ho richiamato all’inizio dell’articolo. Perché essere ambiziosi non significa voler essere immodesti, ma il voler cercare “di fare un’opera ben fatta” per poter completare il proprio essere, come lo descriveva don Giussani anni fa: «Il lavoro è l’espressione del nostro essere. Questa coscienza dà veramente respiro all’operaio che per otto ore fatica sul banco di lavoro, come all’imprenditore teso a sviluppare la sua azienda. Ma il nostro essere - ciò che la Bibbia chiama “cuore”: coraggio, tenacia, scaltrezza, fatica - è sete di verità e felicità. Non esiste opera, da quella umile della casalinga a quella geniale del progettista, che possa sottrarsi a questo riferimento, alla ricerca di una soddisfazione piena, di un compimento umano: sete di verità, che parte dalla curiosità per addentrarsi nell’enigma misterioso della ricerca; sete di felicità che parte dall’istintività e si dilata a quella concretezza dignitosa che sola salva l’istinto dal corrompersi in falso ed effimero respiro. È questo cuore che mobilita chiunque, qualunque impresa realizzi» (L. Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, pp. 91-92).