Filosofia e Sociologia | Città
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Inclusione sociale e sicurezza: la città come spazio di trasformazione

Viviamo in un mondo che non si lascia più contenere dai confini. L’economia, la cultura digitale, le tendenze sociali attraversano le frontiere con la rapidità di un’idea, mentre la politica resta ostinatamente ancorata a una geografia che non esiste più. Difendere i confini è diventato il mantra di chi si illude di poter fermare il cambiamento con un filo spinato, ma la realtà è un’altra: più si innalzano muri, più si alimentano divisioni, conflitti, insicurezza. Il futuro della sicurezza non passa dall’esclusione, ma dalla capacità di ripensare le città come luoghi di convivenza, non di separazione.

Premessa: il paradosso della sicurezza nelle società moderne

Nelle società contemporanee, la sicurezza è spesso evocata come un valore primario, una condizione essenziale per la stabilità e il benessere collettivo.

Sono anni però che la sua interpretazione è frequentemente distorta da politiche che mirano a rafforzarla attraverso la chiusura e l'esclusione, piuttosto che mediante un'integrazione intelligente e sostenibile.

Sotto la spinta di questa cultura il dibattito pubblico tende a confondere sicurezza con protezione dalle diversità, portando a strategie che limitano la mobilità, irrigidiscono le politiche migratorie e rafforzano barriere sociali e culturali.

Oggi, con il ritorno di Trump alla guida della nazione più potente del mondo, il messaggio è ulteriormente potenziato, e diventa il mantra di un intero sistema sociale, in cui il diverso è considerato non una risorsa ma il nemico. Attenzione, non è un problema solo di razza, di tribù. E' una deriva che riguarda l'intero sistema sociale. Il diverso nella cultura alimentare, nella "fede" calcistica, nella scelta politica, è sempre un nemico.

E questo approccio, anziché ridurre l'insicurezza, finisce per alimentare tensioni e instabilità, minando il tessuto sociale.

   

La falsa equazione tra sicurezza e chiusura

Il bisogno di sicurezza ha spesso spinto le società verso soluzioni che sembrano immediate e concrete, come il rafforzamento delle frontiere, l'inasprimento delle leggi sull'immigrazione e un controllo più rigido degli stranieri già presenti nei territori nazionali.

Queste misure non affrontano le vere cause dell'insicurezza e spesso hanno l'effetto contrario: generano maggiore alienazione, marginalizzazione e conflitto. La paura dell'altro viene alimentata e strumentalizzata, trasformando la diversità in una minaccia e spostando l'attenzione dai problemi strutturali che sono alla base delle insicurezze individuali e collettive.

I governi e le classi politiche, spesso incapaci di affrontare le cause profonde della precarietà sociale ed economica, trovano conveniente concentrare il dibattito sull'identità collettiva in termini di difesa e protezione. Ma un'identità costruita sulla paura e sull'esclusione non può essere stabile e sostenibile.

Al contrario, una società veramente sicura deve fondarsi su un'identità collettiva inclusiva, capace di valorizzare le differenze all'interno di un tessuto comune basato sulla convivenza e sulla crescita condivisa. La creazione di "alieni", figure percepite come estranee alla collettività, innesca una catena di alienazione che non si limita ai soli emarginati, ma finisce per permeare l'intera società, generando sfiducia, isolamento e instabilità diffusa.

Spesso ci scandalizziamo per un braccio alzato in stile fascista mentre rimaniamo indifferenti a una realtà in cui lo straniero, l'alieno, viene sfruttato nei campi, ghettizzato, deumanizzato. È il risultato di un'ipocrisia culturale in cui da un lato si cerca di far passare per italiano un calciatore perché bravo e dall'altro neghiamo la cittadinanza a un bambino nato sulla terra in cui abitiamo.

Occorre riconoscere che siamo a debito e non a credito

   

Inclusione e sostenibilità sociale: il ruolo delle città

Se la chiusura non è la risposta alla sicurezza, allora quale percorso dobbiamo seguire?

La chiave risiede nella costruzione di una sostenibilità sociale fondata sull'inclusione e sulla capacità di trasformare la diversità in un valore aggiunto per la collettività. 

E in questo processo che è essenziale cullturale e politico le città giocano un ruolo cruciale.

D’altronde ol termine politica deriva dal greco antico dalla parola che significa città, la comunità  organizzata. É Aristotele, nella sua opera Politikà che definisce la politica come l’attività  che ha il fine supremo di garantire il bene comune.

Le città non sono quindi solo il luogo principale di aggregazione e scambio tra individui, ma anche il terreno in cui si sperimenta la convivenza tra culture, lingue e tradizioni diverse

Ma cosa impedisce alle città di essere realmente inclusive? Quali sono gli ostacoli che trasformano l'ambiente urbano in un luogo di segregazione anziché di coesione? Quali barriere economiche, sociali e culturali devono essere abbattute per permettere a tutti di sentirsi parte attiva della comunità?

Le politiche urbane devono affrontare queste domande senza fornire risposte scontate. La creazione di spazi pubblici realmente condivisi, l'accesso equo alle opportunità lavorative, la distribuzione equa delle risorse e dei servizi sono sfide aperte che richiedono riflessione e azione collettiva. Come possiamo progettare le città affinché non diventino ecosistemi frammentati, divisi tra centri esclusivi e periferie isolate? Come si può garantire che le infrastrutture siano realmente al servizio della coesione sociale e non strumenti di separazione?

La trasformazione urbana deve partire da queste esigenze e interrogativi, spingendo amministratori, urbanisti e cittadini a riflettere su soluzioni che vadano oltre le misure emergenziali e temporanee.

L'inclusione non può essere un concetto astratto, ma deve tradursi in scelte concrete che abbiano un impatto tangibile sulla vita delle persone.

Ripartiamo dalla progettazione delle città per poter ripensare il modo di fare politica.

   

Quale rigenerazione urbana

La parola "rigenerazione" porta con sé un significato profondo, che va oltre la semplice riconfigurazione di spazi fisici o la speculazione immobiliare travestita da innovazione urbana. Rigenerare non significa solo trasformare volumi edilizi, significa restituire alla città la sua dimensione umana. Una vera rigenerazione urbana deve essere permeata dalla vita, dall’esperienza concreta di chi abita, lavora e interagisce negli spazi urbani. Se la trasformazione si limita a creare nuovi recinti dorati per pochi privilegiati, non è rigenerazione, ma esclusione mascherata. Il rischio è che la città diventi un’architettura senza anima, dove il tessuto sociale si sfrangia invece di ricomporsi. La rigenerazione autentica è quella che riporta l’essere umano al centro, non come spettatore ma come protagonista.

   

Verso una città della convivenza

L’inclusione sociale non è un’utopia, ma una necessità per costruire una sicurezza autentica e duratura.

Le città devono essere ripensate come luoghi di incontro e opportunità, spazi in cui la diversità non sia vissuta come una minaccia, ma come una risorsa. Questo richiede un impegno concreto da parte delle istituzioni, delle comunità locali e di tutti i cittadini.

Solo attraverso una progettazione consapevole e politiche pubbliche mirate possiamo costruire una società capace di garantire sicurezza senza rinunciare ai valori di apertura e accoglienza. In definitiva, il futuro della sicurezza non dipende dalla costruzione di muri, ma dalla capacità di costruire ponti.

  

Chi non ama il suo fratello che vede, come può amare un Dio che non vede


Conclusione: meno confini, meno bandiere

Il mondo non si governa più con i confini.

Non esistono più muraglie in grado di fermare l’influenza economica, culturale, digitale, sociale che attraversa i continenti. Eppure la politica continua a illudersi, a stringere i pugni su una cartografia obsoleta, a tracciare linee che non esistono se non nella loro immaginazione malata. La difesa dei confini non è solo antistorica: è dannosa. La sua radicalizzazione semina conflitti interni, fomenta razzismo, esaspera il bisogno di sicurezza fino a trasformarlo in paura. E la paura è sempre il preludio della violenza.

Non si fermano le guerre con le frontiere. Non si combatte il razzismo con l’isolamento. Non si garantisce la sicurezza con la separazione.

Viviamo su un terreno che non ci appartiene, ma che ci è dato in prestito.

Chi inneggia all’odio, chi edifica muri, chi soffia sul fuoco del rancore non può dirsi uomo di Dio. Come dice Papa Francesco, siamo sempre a debito, mai a credito. E chi non ama il fratello che vede, non può amare il Dio che non vede. Meno confini, meno bandiere. Più umanità.

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