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Il terremoto: il cretto che segna nostra vita

Una riflessione sul terremoto e sulla prevenzione sismica di Andrea Dari, editore di INGENIO

Il 24 agosto 2016: il terremoto di Amatrice

Il 24 agosto 2016, alle ore 3:36, una scossa di terremoto colpisce il Centro Italia. Ha magnitudo 6.0, epicentro situato lungo la Valle del Tronto, tra i comuni di Accumoli (RI) e Arquata del Tronto (AP). Il 26 ottobre 2016 altre due forti scosse, con epicentri al confine umbro-marchigiano, tra i comuni della provincia di Macerata di Visso, Ussita e Castelsantangelo sul Nera, la prima alle 19:11 con magnitudo 5.4 e la seconda alle 21:18 con magnitudo 5.9. Il 30 ottobre 2016 arriva una scossa ancora più forte, magnitudo 6.5, epicentro tra i comuni di Norcia e Preci, in provincia di Perugia.

Questo insieme di eventi ha provocato in tutto circa 11.000 sfollati, 388 feriti e 303 morti, dei quali 3 morirono per via indiretta (causa infarto per lo spavento).

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Qualche mese fa sono stato ad Amatrice. Ovvero dove era Amatrice. Ovvero la piana di Amatrice, perchè questo è quel che resta, una distesa di sassi, come a rappresentare ognuno il segno delle pene e degli inguaribili dolori di chi ha vissuto questa esperienza. Un pianto senza respiro si ferma all’altezza dello stomaco. E come piombo pesa il cuore.

E’ questa l’immagine più vera del terremoto a cui non ci siamo preparati. Non ci sono crepe, non ci sono ribaltamenti, non ci sono più componenti integri. Il terremoto ad Amatrice è disgregazione muraria, storica, sociale. E perdono di valore parole tecniche o apparentemente tecniche come il “cuci scuci delle strutture murarie”, il “dov’era com’era”, la "modellazione del ribaltamento", il "modulo elastico” ... 
 

corso-umberto-i-street-in-amatrice.jpgC’è un’immagine che l’amico Massimo Mariani fa sempre vedere durante i nostri incontri tecnici: il corso Umberto di Amatrice. Prima e dopo. E di fronte a questo prima e dopo parole come cordoli, catene, strutture, sono parole vuote. Prima vediamo edifici diversi, alcuni in cemento armato, altri in muratura, altri con catene e chiavi, altri ancora nello stato primordiale e aggregato.

Poi, poi il nulla.

Una distesa. Il terremoto con le sue accelerazioni epicentrali se ne è fottuto di qualsiasi personalissima caratteristica del singolo edificio. Ha raso al suolo ogni edificio, ogni ricordo, ogni esperienza, ogni sogno.

Il dov’era com’era sarà una sorta di ricostruzione modello cinecittà di un qualcosa che non c’è più.

Il cretto di Gibellina 

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«Andammo a Gibellina con l'architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l'idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene e, con il cemento, facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento».

Burri progettò un gigantesco monumento che ripercorre le vie e vicoli della vecchia città

Infatti sorge nello stesso luogo dove una volta vi erano le macerie, attualmente cementificate dalla sua opera. Dall'alto l'opera appare come una serie di fratture di cemento sul terreno, il cui valore artistico risiede nel congelamento della memoria storica di un paese. Ogni fenditura è larga dai due ai tre metri, mentre i blocchi sono alti circa un metro e sessanta e ha una superficie di circa 80.000 metri quadrati.

Il monumento doveva essere realizzato con cemento bianco. In realtà solo l'ultima parte, realizzata in questi ultimi anni, è bianca. L'obiettivo di Burri era quello di non creare alcuna identità. Ogni blocco, fatto con le macerie di Gibellina, deve trasmettere il vuoto della distruzione.

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Sulle colline ruotano pale eoliche, quali a rappresentare le croci di questo calvario, luogo di perenne memoria di una delle tragedia più forti che può colpire la natura umana, l’annientamento delle sue radici.

La Ricostruzione non esiste, non c’è alternativa alla prevenzione

In questi giorni decorrono i 10 anni del terremoto de L’Aquila.

Dei terremoti degli ultimi decenni è quello che ha colpito la città più grande e più abitata. L’ho visitata più volte, fin dai momenti più drammatici. L'ho fatto con cari amici, che il terremoto l'hanno vissuto in diretta, e poi l'hanno vissuto ogni giorno, in questi 10 anni dal 6 aprile 2009.

Perchè questo significa essere terremotato. Significa essere una persona che in un certo istante, ha cambiato la sua vita.

L’ultima volta questa settimana, con INGENIO volevamo realizzare uno speciale sui “dieci anni”.

6 Aprile 2019: L'Aquila 10 anni dopo
Il report di INGENIO realizzato grazie al contributo di ANDIL >>> GUARDA il VIDEO

laquila-nuova.jpgL'Aquila: una città in gran parte riedificata.

Cavi elettrici volanti tra palazzi completati, con serramenti nuovi in PVC e cartelli affittasi. Qualche negozio, qualche bar e ristorante. Autobetoniere, pompe, cassoni, furgoncini, uomini con il casco in giro per la città.

Entrando tra le vie parallele al corso il paesaggio cambia. Gli edifici ristrutturati si alternano a quelli in piena attività e a quelli posti in sicurezza con opere provvisionali. L’unica cosa perfetta sono le targhe delle vie, tutte nuove e perfettamente ingriffate.

Poi arrivano le 18 e la città si svuota. I pochi negozi chiudono. Dal primo piano in su sono solo finestre con le luci spente. In lontananza si sente della musica. E’ un locale con un po’ di giovani e un complesso aquilano, le Lingue Sciolte, che suonano. Dentro non sembra che sia cambiato nulla, non sembra di essere in una città vuota.

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Ma fuori appare il segno più tragico dei 10 anni di ricostruzione: la trasformazione sociale.

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In questi 10 anni le persone hanno preso possesso di nuove case, nuovi quartieri, nuove abitudini, nuove frequentazioni.

Non sono più abitanti di un centro che da dieci anni e, ancora per alcuni anni, non c’è più. Il dov’era com’era perde di significato, è solo un messaggio politico.

Dopo dieci, quindici anni, il dov’era com’era non esiste più. E a L’Aquila i soldi per la ricostruzione non sono mancati. Il problema non sono più solo gli edifici.

E’ la città che è mancata. Ti accorgi che è la città che non c'è più.

Ti accorgi quindi che la ricostruzione non è una soluzione. L’unica soluzione è la prevenzione, è il preparare le nostre città a questi eventi che purtroppo continueranno a marcare il territorio. Non è questione di soldi, o meglio, solo di soldi, è una questione sociale.

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Pubblico e privato, due approcci diversi, due esigenze diverse

Su L'Aquila vive una nuova foresta, è la foresta di gru. Ogni casa, ogni strada, ogni edificio è un cantiere.

E a L’Aquila sono le opere private ad essere in più avanzato stato di ricostruzione. E’ il pubblico ad essere rimasto più indietro.

C’è l’esempio virtuoso della basilica di Collemaggio, grazie allo sponsor economico (ENI) e allo sforzo di una distribuita comunità di tecnici di grande valore. Ma ci sono ancora tante chiese ancora allo stato di messa in sicurezza. A L’Aquila sono state colpite case e chiese, ma sono le chiese quelle che hanno perso la dignità maggiore.

Nel 2016 con una scossa 6.5 a Norcia sono state le Chiese ad crollare. Intorno ad esse edifici residenziali non toccati dal terremoto.

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San Benedetto sarà ricostruita ma non sarà più la stessa.

La parola “vincolato” in Italia in ambito sismico ha diversi significati. Da un punto di vista strutturale il vincolo fa parte della struttura, lo studiamo già con Scienza delle Costruzioni. E’ un elemento di forza delle struttura.

Da un punto di vista normativo , in Italia, il vincolo è invece sinonimo di crollo.

Sono gli edifici vincolati ad essere più fragili, ad essere meno oggetto di prevenzione, ad crollare quando arrivano le scosse. Sembra un paradosso ed è invece il risultato di uno scontro fra due culture, quella delle sovrintendenze che vogliono tutelare fino in fondo l’opera nel lasciarla così com’è e degli ingegneri che vorrebbero, con qualche sacrificio da un punto di vista storico architettonico, renderle più sicure.

Se viene un terremoto oggi il luogo meno sicuro dove stare è una chiesa. La protezione dell’anima non coincide con quella del corpo.

Amatrice, Gibellina, il Cretto di Burri 

Il Cretto di Burri probabilmente ha ispirato il monumento all'Olocausto a Berlino firmato dall’architetto statunitense Peter Eisenmann: 2711 blocchi rettangolari di calcestruzzo, sistemati a griglia in modo da sembrare sepolture. Così come il Cretto di Burri è la non identificabilità di ogni blocco che colpisce. Così come le pietre della piana di Amatrice.

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I passaggi lasciati tra i blocchi sono fessure. Sono fessure che marcano il cuore di ognuno di noi che si occupa di sismica. Sono le crepe che non potranno mai passare e che, giorno dopo giorno, rendono importante l’opera di chi fa ricerca, di chi si impegna per fare le norme, di chi impegna nei corsi di formazione, di chi cerca di fornire nuove tecnologie, di chi opera nel settore delle costruzioni.

Spero che la profondità di queste crepe possa toccare il cuore di chiunque, nel nostro Paese, ha anche una qualsiasi responsabilità sull’attuazione dei processi di prevenzione, che come ho qui detto, non possono trovare alcuna sostituzione nelle successive e postume ricostruzioni. Io spero che il Cretto di Burri diventi luogo di visita educativa per gli studenti delle scuole, per chi opera nelle sovrintendenze, per chi gestisce la cosa pubblica.

Il Cretto di Burri è un insegnamento, che il terremoto si può prevenire, non si può curare.

Andrea Dari

Editore INGENIO

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