Architettura | Urbanistica
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La città del futuro: le domande che dobbiamo porci

In un'era di rapidi cambiamenti urbani, l'architettura è chiamata a un compito cruciale: reinterpretare e innovare i nostri spazi collettivi. Scopri come gli architetti possono trascendere le tradizionali funzioni di progettazione per influenzare profondamente il tessuto sociale e culturale delle città, trasformando le sfide della modernità in opportunità per costruire comunità più coese e sostenibili.

Il ruolo dell'architetto nell'era dell'urbanizzazione effimera

Bauman 25 anni fa scriveva che “la prospettiva di costruire una comunità veramente duratura ed extratemporale sta sfumando e appare sempre più incerta” e per questo motivo “le riserve attualmente inutilizzate di energia continua generata dall'insicurezza endemica dell'esistenza umana vengono trasferite nel regno dell'io, spazialmente e temporalmente definito.

In questo nuovo millennio, la profonda insicurezza che permea questo io moderno si manifesta nel declino di quei valori — religione, famiglia, lavoro — che per secoli hanno funto da pilastri per lo sviluppo sociale.

Ora, in un processo di trasferimento psicosociale, è l'ego che emerge come il nuovo fulcro dell'esperienza urbana, relegando il cittadino a una sorta di isolamento esistenziale. Il soggetto moderno si ritrova così costretto a navigare da solo il turbolento mare del destino. L’angoscia sostituisce il substrato di paure che ci guidavano in equilibrio con il senso della sfida all’infinito nella costruzione delle nostre vite, lasciandoci in un vuoto che pensiamo di riempire solo con effimere allucinazioni.

Questa solitudine, questo spostamento verso un'auto-riferenzialità senza precedenti, rappresenta la grande minaccia del nostro tempo e, al contempo, la sfida cruciale che dobbiamo affrontare.

Questa sfida ci impone di riflettere criticamente sul ruolo dell'architetto nel contesto dell'urbanistica contemporanea, in un'epoca in cui la città è diventata il teatro in cui un moderno Prometeo è l’unico protagonista, l’unico soggetto a cui abbiamo consegnato le chiavi della nostra esistenza.

È in queste metropoli che la tecnica si è elevata a tiranno, imponendoci un nuovo ordine fondato su efficienza, riduzione dei tempi e dei costi, e massimizzazione dei profitti. Il nostro percorrere la città si è ridotto a una mera traiettoria tra due punti, in cui conta solo il tempo impiegato, mentre la qualità visiva e sociale del viaggio è trascurata. La pausa pranzo si è trasformata in un'esperienza 'fast', spesso consumata davanti a uno schermo, dove la scrivania sostituisce la tavola conviviale e i tutorial video prendono il posto delle interazioni umane. Il collega di lavoro, una volta compagno nella vita quotidiana, si dissolve ora dietro l'illusione di un lavoro 'smart', che più accuratamente dovrebbe essere descritto come 'solitario'.

L’uomo dietro all’illusione di una falsa libertà diventa elemento di un meccanismo in cui non c’è più un fine, un punto di arrivo, ma solo dei risultati da raggiungere.

In questo contesto, l'architetto si trova di fronte a un dilemma esistenziale: continuare a costruire spazi che facilitano questa distopia tecnocratica, o resistere, progettando luoghi che riscoprano e valorizzino la dimensione umana, sociale e comunitaria della vita urbana.

La risposta a questa questione non è solo una scelta estetica o funzionale, ma un profondo atto filosofico e politico che può definire il futuro delle nostre città e delle nostre società.

Life's like a mayonnaise soda
And life's like space without room
And life's like bacon and ice cream …
Now life's like death without living …
What good's a computerized nose …
What good's a war without killing?
What good is rain that falls up?
What good's a disease that won't hurt you? …
What good are these thoughts that I'm thinking
It must be better, huh, not to be thinking at all …
What's good is life without living?

 

La sfida dell’architettura

L'architetto, in questo contesto fluido e in rapido mutamento, ha il compito non solo di progettare spazi fisici, ma anche di influenzare il tessuto sociale e culturale delle città.

Il suo obiettivo diventa quello di riorientare l'Energia Umana verso Sviluppi Sostenibili.

Come diceva Bauman “le riserve di energia umana, un tempo dirette verso la costruzione di legami comunitari a lungo termine, ora si concentrano sul sé, definendo spazi e tempi in maniera più isolata e individuale”. Qui, l'architetto può svolgere un ruolo cruciale: riorientare queste energie verso lo sviluppo di ambienti urbani che promuovano la sostenibilità e il benessere collettivo, piuttosto che la gratificazione individuale immediata.

 

Il dilemma delle “Senseable City”

Quale via percorrere ? Una prima soluzione che oggi potrebbe apparire come risposta all’esigenza di una città che crea comunità è quella dell’uso della digitalizzazione: smart city, senseable city, digital twin … sono alcuni dei termini che descrivono una nuova scuola di pensiero, quello che sia possibile costruire città felici, fatte di individui felici, attraverso strumenti digitali.

E’ così ?

In effetti nell'evoluzione verso città sempre più "senseable", ovvero sensibili e reattive grazie all'integrazione di tecnologie come l'intelligenza artificiale, gli architetti si trovano di fronte a un nuovo panorama di possibilità. Questi strumenti offrono l'opportunità di migliorare significativamente l'efficienza urbana e la qualità della vita, permettendo alle città di adattarsi dinamicamente alle esigenze dei cittadini.

Tuttavia, questo progresso porta con sé non pochi dilemmi etici.

Sì pensi all’esperienza di “Quayside”. Google, tramite la sua affiliata Sidewalk Labs, aveva proposto di costruire un quartiere smart chiamato "Quayside" sulla riva orientale del porto di Toronto, Canada. Il progetto mirava a sviluppare un'area altamente tecnologica con l'obiettivo di migliorare l'efficienza urbana attraverso l'uso avanzato di tecnologie, come l'intelligenza artificiale e sistemi interconnessi per gestire servizi come rifiuti, traffico e consumo energetico. Tuttavia, nel maggio 2020, Sidewalk Labs ha annunciato il ritiro dal progetto a seguito delle crescenti preoccupazioni e critiche da parte della popolazione riguardo al rispetto della privacy.

A mio parere non era solo un problema di privacy, era un senso di efficienza, di omologazione, di inquadramento che ha creato questa reazione della popolazione. Ognuno di noi ha bisogno di trovare sul suo cammino panorami sfuocati come quelli degli impressionisti, percorsi caotici come quelli di Pollock, luoghi in cui momentaneamente perdersi per poi ritrovare nuovi sentieri vitali.

New York City's the place
Where they said, "Hey, babe
Take a walk on the wild side"

Il problema sta nel fatto che l’adozione di una soluzione tecnologica basata su criteri tecnologici e principi tecnologici ci porta direttamente nella direzione di ciò che vogliamo contrastare: il principio che la felicità dell’individuo e lo sviluppo delle comunità possa svilupparsi attraverso la valorizzazione dell’efficienza, del rendimento, del “corretto funzionamento”.

Lo strumento dell’innovazione digitale può essere utile ma deve rimanere strumento, e non fine. L’obiettivo è quello di creare città in cui l’uomo “vive”, non “funziona”.

Umberto Galimberti in un recente evento organizzato da GBC Italia a cui ho partecipato parlava di mettere al centro non l’uomo ma la vita, salvaguardare quella biosfera che, io aggiungo, Dio ci ha consegnato non per usarla, sfruttarla, consumarla fino alla sua fine ma conservarla e migliorarla.

 

Promuovere la comunità attraverso il design

Come farlo allora? se la tecnologia è al tempo stesso uno strumento e un pericolo come affrontare una sfida così irriducibile, così. complessa? Mentre le città si trasformano rapidamente, con una crescente enfasi sugli "oggetti di consumo" urbani come fossero gadget o elementi di curiosa distrazione, a mio parere l'architetto ha la responsabilità di integrare elementi che rafforzino la comunità.

Questo può essere realizzato attraverso la progettazione di nuovi edifici, nuovi spazi privati e nuovi spazi pubblici che facilitino interazioni umane significative e inclusività, contrastando la tendenza alla frammentazione sociale. 

Non sto parlando solo delle piazze, delle agorà tradizionali a cui siamo abituati a pensare. Sto pensando alla conformazione degli incroci, alle fermate degli autobus, ai bar e ai negozi, alle stanze in cui gli adolescenti amano isolarsi, alle scuole e alle palestre, agli ospizi e agli ospedali, alle uscite delle autostrade come strette viuzze dei centri storici, ai musei e ai parchi cittadini.

Come dice e scrive la prof.sssa Elena Granata il ruolo dell’architetto si deve contaminare fino a diventare una sorta di placemaker che entra nel merito delle pluralità e singolarità per arrivare a ricucire attraverso la sua opera la città con il cittadino.

Di fatto l’architettura si pone come un mediatore essenziale tra il temporaneo e l’atemporale, assumendo un ruolo che trascende la pura estetica formale per immergersi profondamente nella dimensione sociale dell’esistenza umana.

In questo equilibrio delicato, il design diventa un potente strumento di intervento sociale, non limitandosi a definire la forma degli spazi, ma anche a modellare le dinamiche e le interazioni che vi si svolgono. In una società sempre più caratterizzata da rapidi cambiamenti e dalla predominanza di esperienze effimere, l’architettura può offrire punti di riferimento stabili e duraturi. Questi spazi non solo rispondono alle immediate necessità funzionali, ma anche aspirano a diventare luoghi di memoria e di significato collettivo che perdurano nel tempo. L’obiettivo è creare ambienti che non solo facilitino le attività quotidiane, ma che anche evocano un senso di appartenenza e identità che resista all’erosione del tempo.

In questo contesto di mutamento e transitorietà, l’approccio di Bruno Latour ai “non oggetti” diventa particolarmente rilevante. Latour suggerisce che i nostri oggetti quotidiani, le tecnologie e le strutture urbane non siano visti solo come mere entità fisiche, ma come partecipanti attivi in reti più ampie di significato e azione, definendo così la nostra realtà sociale. Questi “non oggetti”, o meglio, “quasi oggetti”, mediano tra l’umano e il non umano, creando un tessuto di interazioni che va oltre la loro mera funzionalità.

Il design, quindi, non si limita a un mero esercizio stilistico; esso si carica di una responsabilità sociale e culturale.

Deve facilitare l’inclusione, sostenere la diversità e promuovere la coesione sociale, incorporando soluzioni che rispondano sia alle esigenze immediate che alle aspirazioni a lungo termine delle comunità. Inoltre, l’architettura e il design devono considerare come i loro interventi influenzeranno le generazioni future, non solo in termini di sostenibilità ambientale, ma anche in termini di eredità culturale e sociale.

Un obiettivo complesso: l'architetto deve navigare la tensione tra il desiderio umano di esperienze immediate e l'aspirazione a creazioni più perdurabili.

La sfida è progettare spazi che possano rispondere all’irriducibile esigenza della memoria, come poc’anzi affermato, ma anche adattarsi e rispondere a bisogni temporanei, pur mantenendo la capacità di servire le generazioni future.

Ciò implica un approccio flessibile e innovativo al design urbano, che possa accogliere cambiamenti senza perdere di vista la necessità di sostenibilità a lungo termine.

 

ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor de i vini
l'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
sull'uscio a rimirar

L’uso del Patrimonio Vincolato: la presenza umana determina conservazione, la mancanza genera abbandono

Nei paesaggi urbani contemporanei, ci troviamo di fronte a un patrimonio culturale e sociale che è stato storicamente etichettato con un termine che porta con sé connotazioni spesso negative: "vincolato". Questa terminologia è diventata oggetto di percezioni negative a causa del carico di regolamentazioni che, sebbene non sempre inutili, sono state percepite come ostacoli limitanti.

Queste norme emergono da un contesto di dibattito polarizzato tra i concetti di "conservazione" e "trasformazione", che in tempi recenti sono stati visti addirittura come contraddittori, seguendo il rigido principio di "com'era, dov'era".

Tuttavia, come sottolinea Andrea Grilletto, direttore di Assorestauro, esiste la possibilità di reinterpretare questi vincoli in una chiave positiva. Grilletto propone di considerare i vincoli non come barriere, ma come confini entro i quali è naturale e sano che si sviluppi l'attività urbana — similmente a come un fiume scorre entro i suoi argini senza travolgerli. Il suo paragone con le regole del calcio è illuminante: così come nessuno considera la regola che limita il tocco della palla con le mani al solo portiere come un vincolo negativo per il gioco, così potremmo rivedere i vincoli urbani come strumenti che guidano piuttosto che reprimere lo sviluppo.

Questo cambiamento di prospettiva invita a un ripensamento più ampio del ruolo delle normative nel modellare gli spazi urbani. Offre uno spunto di riflessione sulla potenzialità di norme e regolamenti che, se ben strutturati, possono facilitare un'evoluzione urbana che sia rispettosa del patrimonio storico e culturale, pur permettendo l'innovazione e l'adattamento necessari in una società in continuo cambiamento.

In questo senso, la sociologia urbana può fornire strumenti critici per analizzare e proporre modelli di gestione del territorio che armonizzino conservazione e trasformazione, supportando uno sviluppo sostenibile delle città.

Considerazioni che mi portano a ripensare alle parole del prof. Maurizio De Vita di un recente evento organizzato da SAIE LAB, a Firenze.

Le riflessioni del professor Maurizio De Vita offrono una prospettiva illuminante sulla professione dell'architetto impegnato nei lavori di restauro. Egli evidenzia l'importanza di una consapevolezza profonda del legame tra i principi del restauro e la loro applicazione pratica.

I concetti di compatibilità, reversibilità e intervento minimo, secondo De Vita, devono essere intesi come principi guida, piuttosto che come dogmi inflessibili, poiché ogni progetto di restauro è intrinsecamente unico.In questo contesto, i tradizionali conflitti e apparenti contraddizioni tra conservazione e innovazione si dissolvono.

Il principio cardine nella gestione del patrimonio storico diventa la constatazione che la presenza umana ne favorisce la conservazione, mentre la sua assenza porta all'abbandono.

Di conseguenza, la conservazione degli edifici vincolati smette di essere percepita come un mero onere economico, trasformandosi invece in una risorsa vitale e in un valore aggiunto.

Questa visione trasforma la conservazione in un'opportunità per rafforzare il senso di comunità e per promuovere una vita dove non è l'individualismo a dominare, ma l'incontro con l'altro e l'esperienza condivisa.

Attraverso questo processo, gli spazi e gli edifici storici diventano luoghi dove si manifesta il senso di appartenenza a una comunità più ampia, a una storia, in un contesto in cui non siamo più fatti per morire ma per vivere. Non siamo più soli, non esiste più il solo io, ritorniamo a sentire dentro di noi il fatto, inestinguibile, di  essere creati "ad immagine di Dio".

In tale prospettiva, il ruolo dell'architetto si espande oltre il mero intervento tecnico per abbracciare una dimensione etica e sociale, contribuendo attivamente alla costruzione di una realtà urbana più inclusiva e significativa. Questo approccio non solo preserva il patrimonio architettonico, ma ne rinnova il significato e l'importanza nel tessuto sociale contemporaneo, rendendo il passato una leva dinamica per il futuro. 

 

Conclusioni

Sulla base delle riflessioni fatte è incontestabile che in un'epoca dominata dall'insicurezza e dalla volatilità dell'effimero, l'architetto assume un ruolo fondamentale, non solo come progettista di spazi, ma come visionario di un futuro urbano più coeso e sostenibile.

Le decisioni progettuali non sono mere scelte estetiche o funzionali, ma diventano gesti di consapevolezza profonda, che influenzano come le persone interagiscono tra loro e con l'ambiente circostante.

In questo scenario, l'architettura si eleva oltre la sua tradizionale dimensione fisica per diventare neuroarchitettura, un campo emergente che integra conoscenze di neuroscienza e design per creare ambienti che rispondano dinamicamente alle necessità psicologiche e emotive degli individui. Questa nuova disciplina pone al centro non solo l'essere umano, ma l'intero ecosistema vivente, progettando spazi che facilitano il benessere mentale e fisico, la connessione sociale e l'interazione armonica con l'ambiente.

L'architettura, quindi, si trasforma in una bioscienza, il cui obiettivo è riequilibrare le forze della natura e della tecnologia in modi che favoriscano il benessere collettivo.

Attraverso la neuroarchitettura, l'architetto diventa un mediatore tra il bisogno di sicurezza immediata e l'aspirazione a una vita urbana più ricca e resiliente, reinventando gli spazi cittadini in modo che stimolino positivamente la mente e il corpo, e incoraggino comportamenti salutari e produttivi.

In conclusione, il ruolo dell'architetto oggi è più impegnativo e cruciale che mai: deve non solo progettare, ma anche pensare e costruire tenendo conto delle complesse interazioni neurali che gli spazi urbani possono stimolare. L'architettura diventa così non solo una questione di forme e materiali, ma un'arte e una scienza dedicate a migliorare la qualità della vita a tutti i livelli, definendo una nuova ontologia dell'abitare.

Architettura

L'architettura moderna combina design innovativo e sostenibilità, mirando a edifici ecocompatibili e spazi funzionali. Con l'adozione di tecnologie avanzate e materiali sostenibili, gli architetti moderni creano soluzioni che affrontano l'urbanizzazione e il cambiamento climatico. L'enfasi è su edifici intelligenti e resilienza urbana, garantendo che ogni struttura contribuisca positivamente all'ambiente e alla società, riflettendo la cultura e migliorando la qualità della vita urbana.

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