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Il Prima o il Dopo nel Settore della Costruzione e dell’Immobiliare

Transizione digitale: a che punto siamo? Alcune riflessioni di Angelo Ciribini

L’emergenza pandemica ha suscitato reazioni molto varie, tra cui alcune legate al millenarismo, alla risurrezione o, quanto meno, alla ricostruzione, ideale e materiale, a prescindere dal fatto che il fenomeno virale possa davvero estinguersi in tempi rapidi, grazie ai programmi vaccinali e alle soluzioni terapeutiche, perché se così non fosse, le pretese svolte potrebbero tradursi in una impegnativa convivenza con il virus che alcuni osservatori prospettano, peraltro, almeno nel breve termine.

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Quanto di reale vi sia in questa convinzione non è facile stabilirlo, anche se fenomeni epocali, quali il mutato atteggiamento delle istituzioni comunitarie sulle politiche di deficit o la trasposizione della scuola nell’apprendimento a distanza sembrano testimoniarlo.

Certo, con ogni probabilità, sarà necessario ripensare il sistema territoriale della salute pubblica oltreché non tollerare più un tasso di evasione fiscale così elevato, che sottrae risorse alla sanità pubblica.

La cooperazione tra Apple e Google a proposito del contact tracing evidenzierebbe, inoltre, un potenziale cambiamento di paradigma a proposito del paradosso della competizione collaborativa.

Meno chiaro è, ad esempio, se la coscienza ambientale, legata al cambiamento climatico, già oggetto del recente Green Deal comunitario, possa davvero affermarsi definitivamente, così come la Social Innovation.

D’altronde, già in periodo di confinamento, i divari sociali sembrano apparire più nitidi; è probabile che se si tratterà di recessione grave, essi aumenteranno ulteriormente.

Come ho avuto modo di ricordare più volte, il discrimine più importante che è venuto temporaneamente meno è quello inerente alla parziale tutela dei dati personali, rendendo, almeno in parte, possibile la saldatura tra il mondo immateriale delle piattaforme digitali e quello materiale degli operatori dell’ambiente costruito.

L’impressione è, comunque, che i presupposti di molti passaggi trasformativi fossero già stati gettati da tempo e che la crisi abbia funto da acceleratore radicale, ma, da lì a perseguire il finalismo, per cui ciò che avverrà sia logica conseguenza di ciò che è stato, molto ne corre.

Transizione digitale: a che punto siamo?

Il punto, tuttavia, consiste nel chiedersi sino a che misura tale transizione si stia avvicinando a compimento o meno, in merito a elementi quali l’integrazione piena tra la sfera professionale e quella imprenditoriale o la definitiva servitizzazione dei cespiti immobiliari e infrastrutturali, i due punti che, a mio parere, appariranno decisivi per il settore della costruzione e dell’immobiliare e per i quali non sembrano sussistere interamente le premesse.

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Applicando, dunque, il tema al settore di interesse, la sensazione è che vi sia una certa consapevolezza, dettata da constatazioni dirette (come quelle relative al distanziamento fisico nello spazio privato e, soprattutto, pubblico: in termini di densità) o indirette (una generale consapevolezza delle questioni ambientali e sociali), della svolta avvenuta, ma che si stenti a trarne interamente le conseguenze, poiché sugli elementi valoriali su questi argomenti si è fatta sinora molta retorica.

L’idea di essere in presenza di un processo catartico è suggestiva, ma poco rivela probabilmente della fatica che filiere improntate a determinate catene del valore possano sopportare per riconvertirsi nell’ambito di un ipotetico European Recovery Plan che, peraltro, potrebbe essere percepito come l’occasione per consolidare in statu quo ante.

Per chi, come per le generazioni che attualmente detengono un qualche ruolo decisionale, si trova a gestire fasi transitorie, comprendere il punto di rottura tra il passato e il futuro è assai improbo, poiché se, da un lato, appare difficile non aderire all’ipotesi della fine di un universo radicato, dall’altro, non è semplice archiviare tranquillamente il passato come compromesso e concluso.

Ciò vale in virtù di due considerazioni.

La prima di esse riguarda il fatto che i nuovi prodotti/servizi immobiliari e infrastrutturali si trovino spesso a uno stato prototipale, o perlomeno di pre-commercializzazione.

Il che, suggestioni a parte, non rende agevole porre una pietra tombale sul PRIMA a favore del DOPO.

In secondo luogo, è palese come il sistema consolidato di convenienze, che nessuno può permettersi di ignorare, sia ben poco disposto a farsi da parte e quanto lo stato di emergenza stenti a divenire uno stato dì necessità.

Se, perciò, una «rivoluzione» debba accadere, occorre riflettere attentamente sulla opportunità che essa possegga riferimenti certi per poter avvenire.

Affinché questo accada occorrono parole dure, al limite dell’impietosità: il cambiamento, per quanto auspicabile, non potrebbe che rivelarsi doloroso per molti.

Che cosa significa, innanzitutto, completare la transizione digitale?

Significa, si immagina, ridisegnare la geografia dei soggetti sul mercato e riposizionarvi gli operatori: sarà ciò possibile in un contesto di crisi in cui, per forza di cose, le rappresentanze, di per se stesse già ampiamente sollecitate, non potranno che recitare il mantra del «non lasciamo indietro nessuno»?

Secondariamente, si afferma che occorra, d’ora in poi, viaggiare «responsabilmente», abitare «responsabilmente», ripensare, perciò, edifici e infrastrutture.

È davvero questo l’immaginario di chi si auspica «piani Marshall» per ricoprire il territorio di nuove reti e di rigenerazioni urbane?

Sinora, digitalizzazione e sostenibilità sono state nozione cavalcate retoricamente in maniera analogica e consumistica: come fare affinché ciò non accada più?

Sono davvero appannaggio di queste generazioni attualmente «al potere» le culture ambientali, circolari, digitali?

La sensazione è che, a fronte di proclami epocali, possa, infine, prevalere il riduzionismo del piccolo mondo antico, ma, certo, l’entità della crisi emergenziale potrebbe veramente smentire questa facile ipotesi.

In ogni modo, ciò che preoccupa non sono tanto le forze renitenti quanto quelle progressiste, poiché queste ultime sarebbero, alla fine, chiamate a dimostrare che ciò che si professava invano (una condizione, tutto sommato, che potremmo definire di comodo) possa realmente divenire concreto.


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