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Il Prefabbricato e lo Smartphone

Un articolo del prof. Angelo Ciribini

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È sorprendente in che misura si sia creata, partendo prevalentemente dai sistemi costruttivi a secco, una tendenza internazionale, diffusasi anche a livello europeo, a favore della Prefabbricazione, in particolare nell’edilizia residenziale pubblica (o affine) nei Paesi Britannici e Anglofoni, dall’Irlanda alla Scozia, dopo che il celebre episodio di Ronan Point sembrava, decenni fa, aver chiuso definitivamente la questione.

I recenti ingressi di produttori giapponesi sul mercato britannico e statunitensi su quello saudita hanno conferito un’aurea ulteriore di globalizzazione agli investimenti diretti di Airbnb o di Amazon.

Anche nel Nostro Paese, una vicenda che per gli storici della produzione edilizia, aveva segnato uno sforzo autoreferenziale conchiusosi in se stesso (almeno per le destinazioni d’uso non connesse all’edilizia per l’industria e per la logistica), ritorna di attualità, declinata come l’agognata caratterizzazione manifatturiera, propiziata, tra l’altro, da una ormai insostenibile parcellizzazione del mercato e da una drammatica carenza di manodopera qualificata.

Altrove, con un certo successo, si sollecitano i governi a soddisfare il fabbisogno annuale di centinaia di migliaia di nuove residenze attraverso la creazione di una Domanda che legittimi importanti della investimenti, talvolta miliardari, in commesse e in impianti produttivi, comprese le flying factory.

La «modernità» e la «nuova costruzione» sembrerebbero voler o poter irrompere prepotentemente anche in un mercato domestico, da un decennio in così grave sofferenza da aver dimenticato le nozioni di «crescita» e di «sviluppo», che sembrava ormai concentrato esclusivamente su interventi, eventualmente additivi, di recupero, di riuso, di riqualificazione, sulla scorta anche di una cultura della conservazione particolarmente avanzata, tesa a contenere il consumo di suolo e a valorizzare il patrimonio esistente in senso generalizzato.

Non è un caso che, nonostante per anni si sia dimostrato l’effetto positivo anche per il gettito erariale delle politiche di incentivazione per il recupero e per la riqualificazione, solo ora i maggiori istituti di credito, assieme alle Multi Utility, stiano intervenendo massicciamente.

Resta aperta la controversia sul fatto che questa politica, non solo fiscale, abbia, in definitiva, consolidato la frammentazione del tessuto professionale e di quello imprenditoriale.

Al contempo, però, l’insostenibile e deplorevole stato prestazionale, in termini energetici e strutturali, di gran parte dello stock immobiliare presente faceva sì che si accentuasse la percezione della necessità di rimpiazzarne una parte, ormai «obsoleta».

Si tratta di un abbaglio o di una condizione reale?

Industralizzazione e Prefabbricazione non sono sinonimi

La Industrializzazione e la Prefabbricazione nel settore della costruzione non sono, tuttavia, sinonimi: è questo il postulato fondamentale da cui partire per ragionare sull’avvento della cultura industriale digitalizzata nel settore della costruzione e dell’immobiliare.

A questo assunto occorrerebbe associare un dubbio propositivo sull’opportunità di accostare indiscriminatamente i paradigmi manifatturieri a quelli costruttivi.

Specialmente, a proposito dei primi, il prodotto stesso, si pensi all’autoveicolo, è soggetto a profondi mutamenti in se stesso e sul suo significato: a partire dalla nozione di proprietà del bene sino al ruolo del conducente.

Di fatto, la similitudine, non letterale, nel senso della Quarta Rivoluzione Industriale, varrebbe sulla capacità di dominare l’alea caratteristica del cantiere, per ricondurla alla predittività, nonché nella messa a sistema di catene di fornitura che siano capaci di generare valore, indipendentemente dall’essere On Site od Off Site.

Se, inizialmente, ci si limitasse a riflettere sulla natura del prodotto edilizio prefabbricato attuale, nei confronti di quello appartenente al passato, si avrebbe buon gioco a farne risaltare le differenze sotto il profilo tecnologico, relativamente ai sistemi costruttivi, anche in considerazione di alcune consapevolezze di carattere ambientale, circolare, sostenibile.

D’altronde, come è stato osservato, la centralità della questione energetica per il prodotto immobiliare verte sulla produzione, sulla gestione e sulla transazione dell’energia (pulita) e, di conseguenza, coinvolge ambiti più vasti dell’edilizia in se stessa: o meglio, qui sta il punto, immette l’immobile in un circuito differente.

D’altra parte, Clean, Green, Digital, Inclusive, sono attributi proposti, nelle politiche di marketing per i prefabbricati, come intimamente sussunte.

Parimenti, si potrebbe facilmente affermare che le potenzialità progettuali degli ideatori e le potenzialità produttive degli impianti, digitalmente abilitate, permetterebbero di conseguire un livello elevato di diversificazione e di singolarità spaziale e morfologica, contrariamente a un passato in cui, peraltro, la serialità e la precisione erano ben lungi dall’essere considerati disvalori.

D’altra parte, il grado di automazione e di robotizzazione degli impianti produttivi è assai variabile, anche se i procedimenti ideativi sono indubbiamente supportati dalla digitalizzazione come criterio ordinatore di una razionalità «superiore».

Il cespite, lo si sente ripetere ossessivamente, realizzato in condizioni qualitative meglio controllabili, consentirebbe abbattimenti di costi, maggiore rapidità di installazione, condizioni di assemblaggio più sicure, effetti ambientali nettamente migliori.

Si tratta di suggestioni potenti che, benché rivolte principalmente al decisore politico e all’investitore privato, riscontrano interesse presso i costruttori tradizionali e, in misura forse più limitata, presso i progettisti: anch’essi tradizionali?

È significativo, a questo proposito, un documento tassonomico pubblicato nel Regno Unito, dal titolo MMC Definition Framework: nello stesso Paese, in una recente audizione alla House of Commons, dedicata al tema, si sottolineavano, tuttavia, le criticità endemiche del settore.

Secondo tale convinzione, non si vedrebbe ragione alcuna perché il Factory-Made e l’Off Site Manufacturing, vale a dire i Modern Methods of Construction, non abbiano già raggiunto una prevalenza dominante sui mercati che, globalmente, a partire dal fabbisogno di edilizia residenziale socialmente sostenibile, vedrebbero nei prossimi decenni volumi impressionanti di crescita nei principali agglomerati urbani.

Il messaggio che si vorrebbe far passare è, insomma, che tutti, committenti compresi, possano divenire «produttori», nel senso che essere manufacturer sia nel 4.0 una condizione imprescindibile.

Per quanto, come ricordato, digitalmente abilitati, i costrutti concettuali e le logiche a essi sottesi che ineriscono alla Prefabbricazione, quale universo della modularità e della connessione, dunque, dell’ingegneria dei sistemi, non sembrano granché mutati da quel dì e, peraltro, gli impianti produttivi non sono, come detto, sempre così automatizzati e robotizzati, come è il caso per prodotti di piccole dimensioni utilizzati nell’On Site, al netto delle distinzioni più sottili tipiche delle categorie intermedie.

Se così anche fosse, sotto l’aspetto spaziale e morfologico, l’anelito delle soluzioni più avanzate, in taluni casi concretatisi, paradossalmente sta a testimoniare quanto il prodotto industriale ambisca a emulare quello tradizionale, forse persino mascherando la pannellizzazione, la modularità e la volumetricità.

Al contempo, occorre osservare come nel racconto delle consultancy e dei player, curiosamente, il Constructuring appaia una delle categorie tipicamente digitali, al pari dell’Additive Manufacturing, dell’Artificial Intelligence, degli Immersive Virtual Environment, dell’Internet of Things e di altro.

Stranamente, nel contesto europeo, la Prefabbricazione vive, appunto, un momento di particolare popolarità nel Regno Unito, non propriamente un Paese che in passato aveva vissuto entusiasticamente l’introduzione, ove si guarda con invidia alla Germania, alla Svezia, così come al Giappone e agli Stati Uniti.

Curiosamente, persino nel Paese Occidentale in cui la Prefabbricazione è stata massima protagonista nei Gloriosi Trenta (1945-1973), la Francia, essa è salutata come assolutamente innovativa, anche nella fattispecie del «tridimensionale», riveduto e corretto.

La ragione della fortuna di una opzione che si pone come «modernizzatrice» andrebbe più profondamente indagata, di là di una spiegazione epidermica risalente alla pretesa improduttività del settore.

Benché, in passato, l’ambizione manifatturiera sia stata interpretata, lo si è detto, come una intromissione estemporanea, con velleità radicali, in un contesto incrementale anti o moderatamente industriale, attualmente questa condizione appare di sopravvivenza: modernize or die.

Soprattutto, però, i presupposti affinché la Prefabbricazione possa avere luogo sono la manifestazione di una forte domanda anelastica, come si sta verificando nel Regno Unito, la dislocazione opportuna degli impianti produttivi rispetto ai luoghi di assemblaggio da servire e la possibilità, per il nostro Paese, di disporre di una regolamentazione che favorisca l’edilizia di sostituzione, giacché la nuova edificazione appare centrale.

Il nodo ulteriore risiederebbe, tuttavia, in una forte riconfigurazione dell’Offerta, della catena di fornitura, con un relativo asservimento dei progettisti, una possibile contrazione dei distributori e un eventuale ridimensionamento dei costruttori.

In caso di una impossibilità parziale riguardante la nuova costruzione è ben possibile proporre soluzioni ispirate alla Prefabbricazione che, però, si debbano misurare coi singoli componenti e colle specificità del costruito, in Italia meno ripetitivo che in altri Paesi Europei, probabilmente assumendo una veste a scala maggiore di quella edilizia, in contesti di distretti urbani.

Qui, in effetti, più che la Prefabbricazione, conterebbe la Industrializzazione, intesa come la cultura organizzativa che, sulla base dei dati numericamente strutturati e semanticamente articolati, supporterebbe processi di sincronizzazione e di autonomazione, caratteristici della Quarta Rivoluzione Industriale.

L’Industrializzazione, un metodo, anziché un prodotto, è, infatti, una categoria, lo abbiamo anticipato, che si può applicare in maniera equivalente all’On Site e all’Off Site.

In ogni caso, è più manifatturiero, più 4.0, un impianto che produce moduli tridimensionali completi degli arredi o un robot che realizza una muratura di laterizi in cantiere?

A partire, infatti, dal «telaio» è stata, del resto, costruita tutta una narrazione sulle «piattaforme» di componenti tratte dall’Automotive, ma forse, a questo proposito, le tradizioni sarebbero molto più antiche e proprie al comparto, a iniziare dagli Stati Uniti.

Epperò, risiede davvero lì il nucleo della vicenda?

Prodotto prefabbricato sta al nuovo come un telefono a ghiera sta a uno smartphone

Sostenere, peraltro, come taluni fanno, che l’antico prodotto prefabbricato stia al nuovo come un telefono a ghiera starebbe a uno smartphone potrebbe essere condivisibile solo se si accettasse sino in fondo la comparazione, se, cioè, si ammettesse che la svolta consista nella natura sconvolta del prodotto: come servizio.

L’accostamento, sino a un tempo assai recente inusitato, tra Building Information Modeling e Product Lyfecycle Management (PLM) agevola una prima comprensione del fenomeno, se si pensa che da quest’ultimo sorge la nozione di Digital Twin, unitamente all’Internet of Things.

È questo, d’altra parte, del PLM, appunto, un passaggio necessitato se si intende conferire dignità «manifatturiera» al prodotto immobiliare.

Si verifica, qui, perciò, una spostamento di significato verso i modelli e i modi di funzionamento e di guasto dei cespiti che, secondo teorie esplicative ben precise, specie per i prefabbricati, dovrebbero permetterne l’ottimale concezione e, soprattutto, gestione, nel ciclo di vita, grazie a modalità simulative.

D’altra parte, ciò significherebbe che, nel rapporto col proprio gemello, sia ovviamente l’originale fisico a contare maggiormente e che il doppio digitale dovrebbe prestarsi a ogni sorta di sollecitazione per permettere al primo di operare nelle migliori modalità.

Tra l’altro, il doppio, in qualche maniera, nascendo nel corso della progettazione, preesisterebbe all’«originale» e potrebbe persino sopravvivergli, per alimentare nuovi gemelli.

La questione, tuttavia, non risiede nell’opportunità di disporre di un edificio in gran parte pre assemblato, assai performante sotto ogni punto di vista e, per giunta, interconnesso con altri edifici, oltre che col proprio gemello digitale.

Se davvero si volesse accostare, come fatto in tempi non sospetti da CASE Inc., eppoi da WeWork, l’immobile al cellulare bisognerebbe riflettere sul significato delle prestazioni attese, vale a dire, sul fatto che non si tratta di misurare l’avanzamento tecnologico rispetto a qualche decennio or è, bensì di comprendere se il prodotto abbia subito un mutamento genetico, se abbia cambiato natura.

La similitudine, in verità, poi verteva anche sulla possibilità di parziale auto progettazione di una parte del telefono cellulare, riproposta in alcune ipotesi di Design Automation nell’Off Site.

La proposizione di moduli prefabbricati dotati completamente degli arredi, inclusi gli home speaker, potrebbe indurci a immaginare che, in quella occasione, più che portare a compimento il pre assemblaggio dell’unità immobiliare, o di una sua parte, si sia già «disegnato» lo stile di vita dei suoi futuri occupanti.

L’idea è, ovviamente, quella di definire simulazioni computazionali, supportate da antropologi, da neuroscienziati e da psicologi ambientali e cognitivi, dei «modi d’uso» che, oltre a restituire possibili modalità di fruizione, configurino soluzioni esperienziali.

Di conseguenza, se oggi si pensa alla «generatività» per realizzare configurazioni singolari e personalizzate dell’alloggio (sia pure, in gran parte, socialmente accessibile: affordable), rimane inevaso il tema evolutivo.

Quel modulo, infatti, dovrà mutare e adattarsi alle diverse condizioni esistenziali dei suoi occupanti: altrimenti, anziché Space as a Service rimarrebbe indefinitamente Space as a Product.

Ed è qui che si solleva la questione dello snaturamento che condurrebbe a ritenere valida l’equivalenza tra l’edificio e lo smartphone: qualora si potessero «modellare» comportamenti, azioni, flussi, interazioni, si fosse in grado di costruirvi una grammatica e una sintassi, di dare vita a combinatorie generative non solo di componenti edilizi e impiantistici o di moduli abitativi od occupativi, l’equivalenza reggerebbe.

Al contempo, però, coloro che hanno proposto sul mercato gli smartphone o ne hanno sfruttato le potenzialità, come, ad esempio, Apple o Google, sono alla ricerca di interfacce naturali, desiderano che l’utente sollevi il naso dal dispositivo, che possa usufruire di ulteriori servizi interattivi: a maggiore valore aggiunto.

E, si badi bene, queste Technology Company intendono farlo nello Urban Landscape come negli Indoor Environment.

Vale la pena di soffermarsi ancora un attimo su questo secondo punto, poiché, per il primo, l’assistente vocale, nel rispetto della riservatezza dei dati, molto direbbe delle abitudini degli occupanti, ma, in realtà, alla scala del quartiere sembrano essere gli spazi aperti il tema di maggior interesse per Facebook o per Uber, vale a dire una dimensione urbana e pubblica distrettuale, ispirata a mobilità e socialità.

Ed è per questo che si era immaginato, all’Università degli Studi di Brescia, lo shuttle come l’equivalente dell’assistente vocale,

È questa la ragione che deve indurci a riflettere sulla «dematerializzazione» del prodotto immobiliare, poiché questo tema, «liquido», come la società, sembra riferirsi a una «mobilitazione» del cespite che ne fa un prodotto, o meglio un servizio, di realtà immateriale: concretissimo.

Come si è già notato, tanto più per prodotti residenziali e terziari intimamente legati al vissuto quotidiano delle persone, l’aspetto ambientale ed energetico, tanto più legato alla Smart City, traslava il cespite immobile, specie se «positivo e interconnesso» in un contesto di mercato differente, prossimo alle «reti».

I comportamenti degli utenti ai fini dell’efficientamento energetico, lo User Centrism, permettono di compiere un passo più in là e, infine, la User Experience consente all’immobile, cognitivo e responsivo, di proiettarsi, anche in termini di Social Innovation, nel grande ecosistema dell’ambiente costruito, tipico dei servizi alla persona del Surveillance Capitalism e delle sue controverse relazioni coi Data for the Public Good.

Quale espressione migliore di «cultura industriale» per il comparto che non trovarsi nel vertice delle nuove dinamiche economiche, sociali e politiche, che introdurlo nei «social media»?

Sarà, infine, possibile offrire, come si ipotizza all’Università degli Studi di Brescia, «contratti esistenziali» colle corrispondenti «API»?

Il prefabbricato avrebbe compiuto così un lungo cammino: verso lo smartphone.