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Il patrimonio edilizio italiano residenziale e la sfida della digitalizzazione dell’energia

In Italia ci sono più di 13 milioni e mezzo di edifici, di cui oltre il 90% è residenziale. Di questi edifici, oltre il 70% è stato costruito prima del 1980 e oltre il 50% prima del 1970, epoca in cui la priorità non era avere una casa energeticamente efficiente, ma avere una casa. Alla luce di questi numeri, l’associazione Smart Building Alliance Italia (SBA) presenta alcune considerazioni e proposte sulla digitalizzazione dell’energia nel patrimonio italiano residenziale, prendendo anche spunto dai dati forniti dal Politecnico di Milano nel suo ultimo “Smart Building Report 2022”.

Smart Building: lo stato dell'arte fotografato dal Report del Politecnico di Milano

Il Politecnico di Milano ha un gran merito, e gliene va dato atto. Vanta numerosi Osservatori sull’evoluzione tecnologica italiana, che riescono sempre a fornire un quadro interessante e ragionevolmente aggiornato a supporto delle riflessioni degli esperti del settore fra cui, se non altro per raggiunti limiti d’età, anch’io mi annovero.

Alla fine del 2022, è stato presentato lo “Smart Building Report”, una foto significativa dello stato dell’arte e, nel contempo, uno sguardo sul futuro, o almeno sulle ambizioni di questa Europa che ci unisce, ma che nel contempo sembra sempre più distaccata dalla vita quotidiana.

I dati proposti dal Report sono in parte nuovi, in parte noti, come è giusto che sia, e sono stati commentati ottimamente dai relatori (e al loro webinar rimando chi non avesse avuto l’occasione di ascoltarli in tempo reale), quindi quello che qui farò sarà di ricombinare queste informazioni per estrarne considerazioni aggiuntive rispetto a quelle già esposte, nel tentativo di enucleare i problemi che ci troviamo ad affrontare secondo un’angolazione diversa.


I numeri chiave del patrimonio edilizio italiano

Partiamo ad esempio da numeri chiave, che mi concederete di riportare in forma non esatta ma arrotondata, per semplicità di pensiero. Sapete che l’ingegnere questo ha di bello rispetto al matematico o all’economista: è più interessato ai rapporti dimensionali che alle virgole.

In Italia ci sono più di 13 milioni e mezzo di edifici, di cui oltre il 90% è residenziale, vale a dire oltre 12 milioni.

Di questi edifici, oltre il 70% (pari a 8 milioni e mezzo) è stato costruito prima del 1980, e oltre il 50% prima del 1970, epoca in cui la priorità non era avere una casa energeticamente efficiente, ma avere una casa, ricordiamoci bene questo fatto.

Nel frattempo, aggiungo io, la popolazione italiana è rimasta quasi stabile, passata da 56 milioni e mezzo del 1981 a 59 milioni del 2021. Non stupisce quindi sapere che più del 60% delle case è situata nelle classi energetiche meno performanti, la F e la G, che diventa un bel 90% dalla D in giù. E, sempre aggiungo io, i consumi energetici dal 1970 ad oggi sono praticamente raddoppiati.


L’elevato consumo di energia per la vetustà del parco abitativo

In Italia si costruisce poco di nuovo, meno dell’1%, e ancora meno, lo 0,85% al massimo, la ristrutturazione profonda (termine inviso all’ingegnere, dato che ‘profondo’ non significa nulla, ricorda il coma o titoli di film di serie Z di molti anni fa).

Ne abbiamo già abbastanza per alcune valutazioni: in primo luogo, l’elevato consumo termico è coerente con la vetustà del parco abitativo; secondariamente la nuova edilizia non contribuisce in maniera significativa al rinnovamento del parco edificato: tra cent’anni forse avremo tutti edifici ammodernati (alla tecnologia attuale, ben inteso).

Tutti ormai conosciamo, aggiungo fino alla nausea, i problemi legati al consumo di energia da combustibili fossili e dell’aumento di emissioni di anidride carbonica nell’aria.

Il governo europeo e molti nazionali hanno lanciato delle campagne di rinnovamento del parco edificato, supportati anche da direttive che hanno valore cogente, volte a promuovere l’adozione di fonti energetiche rinnovabili (statisticamente parlando, il solare) e, nel contempo, la concezione della casa come sistema adiabatico, cioè senza scambi energetici con l’esterno. Questi due filoni di pensiero hanno modificato di molto la tecnologia delle case future, idealmente coperte da pannelli fotovoltaici e perfettamente isolate.


Quando costa il ricorso a isolamenti aggiuntivi?

Sì, bene, ma le case attuali? Ma davvero sono le soluzioni per produrre meno energia da combustibili fossili? E che facciamo di quel 90% di edifici residenziali sotto la classe D e 60% di F e G? La soluzione trovata finora è quasi ovunque il ricorso a isolamenti aggiuntivi. Ma quanto costa tutto questo?

Il report ci viene ancora in aiuto: il PNIEC (Piano Nazionale Integrato per l'Energia e il Clima 2030) identifica il costo di una riqualificazione energetica media in 11miliardi su 20 milioni di metri quadri, cioè 550 euro al metro quadro.

Qui il politico e l’economista direbbero: “venti milioni di metri quadri sono tanti, certo che vale la pena di spendere l’equivalente di una manovra economica!”; il matematico direbbe: “venti milioni sono 2 per 10 elevato a 7”; l’ingegnere direbbe: “sono 280 mila abitazioni da 70 metri quadri da ristrutturare ad esempio in un anno, per farne 8 milioni ci vogliono 8 diviso 0,28, cioè 30 anni, al ritmo di 280 mila all’anno, e con una totale spesa di 330 miliardi di euro” (che sicuramente non basteranno, vedremo perché). L’ingegnere si chiederebbe anche se siano fattibili 280 mila interventi all’anno (meno in realtà, tenendo conto delle realtà condominiali, ipotizziamo siano solo 150 mila).

Attenzione perché gli edifici sono 13 milioni, ma le abitazioni sono 31 milioni, quindi in rapporto di quasi 1 a 3! E’ immediatamente riscontrabile che non è una soluzione perseguibile in alcun caso.


Necessario un indice di efficacia di decarbonizzazione

Ma l’ingegnere si chiederebbe anche un’altra cosa. Se la funzione da identificare, con le suddette condizioni di contorno, deve portare da oggi alla decarbonizzazione, in primis: esiste tale funzione? E se esiste, quante soluzioni ha?

Ma sì, perché si dà per scontato che si debba intervenire a botte di cappotti e pannelli fotovoltaici, con buona pace dei vincoli storici e paesaggistici, nonché di capacità di spesa e di lavoro. Guardate, bisognerebbe introdurre, se qualcuno non l’ha già pensato, cosa che nella mia disconoscenza assoluta ignoro, un indice di efficacia di decarbonizzazione per ogni tecnologia: al denominatore l’energia fossile globale risparmiata, al numeratore il costo ovvero €/TEP (11.630 kwh). Eh sì, perché nessuno vuole rinunciare alle performance di vita e al comfort acquisiti nei decenni, compresi questi ecologisti da ZTL, che impazziscono se il router wifi va fuori servizio per più di mezz’ora.

L’ingegnere sa che, se si vuole controllare il consumo di un motore, la prima e, ripeto, la prima cosa da fare è misurare le emissioni, e installare un anello di controllo. Costa infinitamente meno aprire un interruttore che mettere un cappotto.

Questa è la sensibilità che manca, benché ribadita da norme tecniche, ad esempio la vecchia EN15232 o la nuova ISO 52120-1. A parole siamo tutti bravi, nei fatti ci mancano le infrastrutture per realizzare gli anelli di controllo, cioè delle reti dati locali e veloci, in grado di trasportare istantaneamente le misure e prendere istantaneamente le decisioni.

Se non connettiamo subito gli edifici, non riusciremo mai a controllare un BEMS, o a gestire la politica di ricarica dei veicoli elettrici.

Se non installiamo degli edge computer nel building, non avremo mai nulla in grado di ridurre i consumi quando se ne presenta l’occasione, il che avviene spesso.


Possibili risparmi con i sistemi di controllo digitale

Quanto si risparmierebbe? Chi vende questi sistemi dice il 30%. Se fosse vero, i nostri obiettivi a 10 anni sarebbero già superati. Ad ogni modo ma la Norma UNI EN 52120 ci offre un metodo di calcolo, i famosi BACs, per stimare una classe energetica ed il risparmio ottenibile passando ad una classe alla superiore. La realtà ormai è evidente per tutti, tutte le funzioni, soprattutto quelle energetiche, sono digitalizzate e non possono più prescindere dallo scambio dei dati.

Punto. Vogliamo davvero promuovere le comunità energetiche senza avere un meccanismo che bilanci i carichi e le sorgenti in tempo reale, e contabilizzi l’autoconsumo, che è il presupposto degli incentivi?

E poi un po’ di pensiero trasversale, santo cielo. La Francia passa per il Paese ecologicamente più virtuoso, perché ha molte centrali nucleari e produce poca CO2, eppure è stata la prima ad avviarsi agli obiettivi europei promulgando una legge per la connessione degli edifici commerciali o di una dimensione minima di 1.000 mq ad un sistema centralizzato per la misura dei consumi, denominato “Operat” con il fine di attivare azioni energeticamente efficienti secondo protocolli scientifici come ISO50015 o IPMVP.

L’ARERA aveva pubblicato una direttiva per rinnovare le colonne montanti elettriche vetuste, che cosa costerebbe abbinare le nuove a una fibra ottica durante lo stesso intervento con gli stessi fini? A casa mia ho comprato un gilet riscaldato elettricamente e ho abbassato di tre gradi il riscaldamento, mantenendo il comfort. Per me l’obiettivo di risparmio è già raggiunto, costa meno il mio cappotto che quello della casa.


La transizione ecologica roba da ricchi?

Il report del Politecnico di Milano ci avvisa che i piani di riqualificazione dell’edificio decisi politicamente sono del 1,2% annuo, o giù di lì, cioè pochissimo, con spese enormi a carico dei singoli e della collettività. Se non cambiamo impostazione, la transizione ecologica sarà destinata a rimanere roba da ricchi con le pale eoliche sul tetto, e costi riversati sulla collettività di chi i 15 mila euro per un impianto fotovoltaico non li ha. Cave Europa, se il costo di avere una casa energeticamente efficiente è non avere la casa. Che altri Paesi se ne freghino e continuino a consumare come se non ci fosse un domani, è altrettanto evidente, come per altro ci dimostrano i consumi di carbone, mai stati così alti nella storia. Fumo negli occhi.

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