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Il disastro della diga del Vajont: la storia, i dati, le cause della frana e chi fu condannato

Il 9 ottobre 1963 un'enorme frana si stacca dal Monte Toc per finire nelle acque del bacino generato dalla diga del Vajont. L'onda che si genera, alta oltre 250 metri provocherà la morte di quasi 2000 persone. All'interno una breve cronistoria di un'opera che doveva essere il vanto dell'ingegneria italiana ma che alla fine è stato solo un esempio di errori da non rifare più.

Il disastro del Vajont, avvenuto il 9 ottobre 1963, rappresenta uno dei capitoli più tragici nella storia d'Italia. In quella terribile serata, un gigantesco blocco di roccia di oltre 270 milioni di metri cubi si stacca dalle pareti del Monte Toc, scivola nel bacino artificiale ad una velocità di 90 km/h e genera due enormi onde, alte oltre 250 metri provocando oltre 1900 vittime.

A distanza di sessant'anni, la ferita causata da questa tragedia è ancora aperta e il ricordo di quel disastro rimane indelebile nella memoria collettiva. Ciò che rende ancora più drammatica la vicenda è il fatto che la catastrofe del Vajont non fu un evento inaspettato. L'onda mortale che cancellò interi paesi e provocò la morte di quasi 2.000 vite umane non fu una fatalità, come fu successivamente confermato dall'inchiesta condotta dal ministero dei Lavori pubblici.

Nonostante la furia delle acque, la struttura della diga del Vajont ha resistito al punto da trasformarsi nel corso del tempo in un sito visitabile. Da ormai circa un quarto di secolo è accessibile al pubblico, e attualmente è sotto la gestione dell'Ente Parco delle Dolomiti.


Dove si trova la diga del Vajont

La diga sorge al confine tra il Friuli-Venezia Giulia e il Veneto, precisamente nel territorio dei comuni di Erto e Casso, nella provincia di Pordenone. La sua posizione è lungo il corso del fiume Vajont, un affluente del Piave, che sfocia non lontano dal piccolo centro di Longarone, in provincia di Belluno. 


Il progetto e i dati della diga

Per comprendere come nasce l’idea della costruzione di quella diga, è necessario fare un salto indietro all'inizio del secolo scorso. In quegli anni, alcune società private videro nella zona del Piave la possibilità di sfruttare le acque del suo bacino per la produzione di energia elettrica attraverso la creazione di un bacino artificiale.

Nel 1929, la valle del Vajont viene valutata come luogo idoneo per la realizzazione di un bacino idroelettrico, commissionato dalla S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità) di Venezia. Questa scelta segnò l'inizio di un'ambiziosa opera che avrebbe sfruttato appieno le risorse del bacino del Piave per la produzione di energia elettrica.

La progettazione della diga fu affidata all'ing. Carlo Semenza, direttore del Servizio costruzioni idrauliche della SADE .

Il primo progetto risale al 22 giugno 1940, e prevedeva una struttura alta circa 200 metri e con una capacità di circa 50 milioni di metri cubi d'acqua nel bacino. Questa proposta approvata nell'ottobre del 1943 dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, venne ben presto sostituita dal più ambizioso progetto del "Grande Vajont".

Il 22 aprile 1957, la SADE, presentò il secondo progetto esecutivo della diga che, rispetto al precedente, prevedeva un aumento di circa 60 metri dell'altezza dello sbarramento, portando la capacità utile del bacino a 150 milioni di metri cubi d'acqua. Con questo ampliamento, il lago Vajont avrebbe raccolto anche le acque del Maè e del Boite, convogliate attraverso il serbatoio di Pontesei.

Nell'estate del 1957 ebbero inizio gli scavi per la fondazione della diga, completati nell'agosto 1958 per concludere i lavori di costruzione della diga nel settembre 1960. Durante l'escavazione delle fondazioni, si rese necessario eseguire simultaneamente complessi interventi di consolidamento e impermeabilizzazione della roccia, oltre che al rinforzo delle pareti.

La struttura della diga è composta da tre parti: i due pulvini, aderenti alla roccia laterale; il tampone, fondazione della diga che chiude la base della gola; e la sezione centrale, a sua volta suddivisa in quattro parti orizzontali, composte da conci verticali.

Un giunto perimetrale separa il corpo della diga dai pulvini e dal tampone di base, permettendo un funzionamento a cerniera e non a incastro, riducendo gli sforzi di trazione e le fessurazioni del calcestruzzo. Pertanto, la diga può essere considerata isostatica, non vincolata alla roccia circostante.

La scelta di realizzare una diga di tipo "a cupola" o "a doppio arco" apparve la più opportuna ed economica. Questo modello trova applicazione quando si tratta di strutture a sezioni a "V", più o meno allargate verso l'alto e di notevole altezza. La quota finale della diga è di 722,50 metri sul livello del mare, che rappresenta il massimo livello dell'invaso e la soglia di tracimazione.

I DATI TECNICI DELLA DIGA
- quota base 460,90 metri s.l.m.
- quota massimo invaso 722,50 metri s.l.m.
- altezza dal punto più basso delle fondazioni 261,60 metri
- spessore della base 22,11 metri
- spessore del coronamento 3,40 metri
- materiale scavo fondazioni 400.000 metri cubi
- volume calcestruzzo usato nel corpo diga 353.000 metri cubi
- impegno per la costruzione della diga 250 operai per 750.000 ore
- capacità massima 168,715 milioni di metri cubi
- capacità utile 150,000 milioni di metri cubi
- lunghezza del bacino 5,2 km
- larghezza massima del bacino 1,0 km


Le polemiche sulla costruzione della diga

Prima e durante la costruzione della diga del Vajont non mancarono le polemiche, soprattutto in considerazione di quanto accade nel marzo 1959 alla diga di Pontesei progettata dallo stesso Carlo Semenza. Localizzata a circa una decina di km dalla diga del Vajont, la diga di Pontesei venne coinvolta da una frana che provoco il distacco di ca 3 milioni di metri cubi di detriti che generò un'onda di 20 metri causando la morte di un operaio della Sade addetto alla sorveglianza. Di fronte a questi eventi, i cittadini di Erto e Casso, sempre più preoccupati, decisero di costituire un comitato. Nonostante ciò, pochi mesi dopo, la diga del Vajont venne portata a compimento.

In un'epoca di fervente crescita economica in Italia, i timori e l'allarmismo non trovavano spazio. La diga del Vajont veniva vista come una maestosa opera pubblica, portatrice di prosperità economica e fonte di orgoglio nazionale. Inoltre, il Paese si dirigeva verso la nazionalizzazione dell'energia elettrica, un motivo in più che spingeva la SADE ad accelerare il processo di collaudo, per poter godere appieno dei finanziamenti pubblici.


Le fasi di collaudo e la tragedia del 9 ottobre del 1963

Ultimata la costruzione si partì subito con la fase di collaudo. La fase di collaudo della diga del Vajont è stato un momento cruciale nella sua storia, perchè già nella prima fase di invaso emersero alcune segnalazioni di instabilità che avrebbero dovuto sollevare maggiori preoccupazioni. Tuttavia, la costruzione procedette e, come sappiamo, ciò portò alla tragedia del 1963.

La fase di collaudo della diga del Vajont ebbe inizio nel 1960. Questa fase comprendeva il progressivo riempimento del serbatoio con acqua, che avrebbe testato la capacità della diga di trattenere grandi volumi d'acqua senza cedimenti strutturali. Già con il primo invaso d'acqua, emersero segni di instabilità lungo le sponde del lago, soprattutto sul lato sinistro, come alberi inclinati, crepe nel terreno e fenditure sui muri delle abitazioni circostanti.

Nel corso della fase di collaudo, si verificarono alcune frane, tra cui una significativa che si staccò e finì nel lago il 4 novembre 1960 facendo precipitare oltre 750.000 mc di detriti, eventi che indicavano chiaramente la presenza di fattori di rischio e di instabilità nella zona circostante.

Nella parte superiore del versante sinistro, emerse una importante frattura che avrebbe svolto un ruolo fondamentale nella devastante frana che si verificò tre anni dopo. Questa frattura rappresentava la zona di scivolamento del materiale che causò il disastro del Vajont nel 1963.

E infatti alle 22:39 del 9 ottobre del 1963 una frana di oltre 270 milioni di metri cubi di detriti rocciosi e un fronte superiore ai due chilometri, una larghezza di almeno 500 metri, precipita verso il bacino artificiale del Vajont a una velocità stimata di circa 90 km/h. Il bacino conteneva all'incirca 115 milioni di metri cubi d'acqua. L'impatto generò un'onda enorme che superò i 250 metri di altezza e si riversò sulle cittadine e paesi circostanti, tra cui Erto e Casso, causando la perdita di 158 vite umane.

La devastazione si estese anche nella valle del Piave. I centri maggiormente colpiti furono Longarone, dove persero la vita 1.450 persone, Codissago e Castellavazzo, con un totale di 109 vittime. Numerosi corpi non furono mai recuperati. Le zone più gravemente danneggiate dall'inondazione includono Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Ceva, Pinada, Marzana, Prada, San Martino, la parte bassa di Erto, Longarone, Villanova, Pirago, Faé, Rivalta, Soverzene, Ponte nelle Alpi, Belluno, Quero Vas Caorera, Borgo Piave. Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna riportarono notevoli danni.

PER APPROFONDIRE
60 anni fa il disastro della diga del Vajont: esiste ancora il rischio che possa ripetersi?
Potrebbe sembrare una domanda retorica ma così non è. E lo si può capire leggendo le parole del racconto del disastro da parte del Prof. Paolo Paronuzzi, esperto di questo evento che ci fornisce anche una sua visione della lezione che questa tragedia ci ha dato o non ci ha dato.


Il processo e le condanne

Dopo l'incidente, è stata avviata un'inchiesta per determinare se si fosse trattato di un evento naturale o se fosse derivato da una serie di negligenze commesse.

Il procedimento legale che si svolse tra il 1968 e il 1972, si è concluso con la condanna di Alberico Biadene, il quale ha scontato una pena detentiva di diciotto mesi, e Francesco Sensidoni, funzionario del Genio Civile.

Nel 1997, la corte d'appello di Venezia ha stabilito che Montedison fosse obbligata a versare un risarcimento al comune di Longarone. In seguito, Enel è stata costretta a compensare i danni subiti da Erto e Casso.

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