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Il Difficile Orientamento Digitale delle Rappresentanze e delle Accademie

Una riflessione di Angelo Ciribini

L'Università degli Studi di Milano-Bicocca offre, da poco tempo, un Corso di Laurea Magistrale in Data Science che ha recentemente offerto al mercato i primi laureati.

L’Università degli Studi di Brescia, più modestamente, intende prossimamente avviare un Corso di Master Universitario in Data Science & Communication Technology per il settore della costruzione e dell’immobiliare.

Espressioni quali, ad esempio, data mining o machine learning sono, in effetti, sempre più familiari anche agli operatori del comparto dell’ambiente costruito; analogamente, «artificiale» e «automatico» risuonano come attributi minacciosi.

Verso la dittatura degli algoritmi ?

Gli algoritmi, in effetti, diventano predittivi, la progettazione diviene generativa (in realtà, «aumentata»), le reti generano esternalità, il dato diviene comportamentale.

Tutto ciò fa apparire, in un mondo in cui ogni accadimento può essere notarizzato, ogni attore può essere profilato, ogni entità può essere connessa, la questione del «BIM» piuttosto marginale, allorché ai bambini delle scuole primarie ci si preoccupa di impartire una cultura (della valorizzazione) dei dati e una abilità nel coding.

Contemporaneamente, una generazione ormai prossima al pensionamento, rivestendo ruoli apicali, in molte circostanze, certamente non in tutte, esercita una azione resistenziale autoreferenziale ed egoistica, in grado, però, di differire ovvero di rallentare il processo evolutivo (sempreché esso possa dirsi tale) di un lustro almeno.

Ora, è chiaro che per le rappresentanze committenti, professionali e imprenditoriali, così come per le istituzioni formative, invero non solo accademiche, si pone un serio interrogativo relativamente all'approccio corretto alla problematica da offrire ai propri iscritti o ai propri discenti.

L'incertezza inerente al «BIM» non risiede, però, tanto nell'utilità reale dei metodi e degli strumenti corrispondenti, quanto nella capacità di lettura dei contesti intrinseci ed estrinseci in cui esso si svolge.

In primo luogo, infatti, come testimoniato dalla stessa evoluzione delle metodologie e delle tecnologie predette, la loro apertura, ancora prima che la loro interoperabilità, ad altri ambiti di generazione e di utilizzo dei dati, richiede la necessità di guardarvi con occhi differenti, che non si limitino a un uso, sia pure avanzato e sofisticato degli applicativi.

Di fatto, inevitabilmente, collegare i dati, o meglio sincronizzare le basi dati, implica l'esigenza di introdursi nelle «scatole nere»: tanto più che, appunto, in un futuro non remoto, per i Millenial, tutto ciò risulterà scontato.

Fabbrichiamo acritici operatori del «BIM» ?

Questo è il momento storico in cui, da un lato, occorre evitare che il sapere tecnico-scientifico degli «analogici» non sia trasmesso ai «digitali», ma, da un altro canto, bisogna far sì che non ci si riduca a fabbricare acritici operatori del «BIM».

Questa ultima eventualità costituirebbe, infatti, la dimostrazione di una comprensione superficiale dei passaggi e dei fenomeni epocali in atto e, nel medio termine, mostrerebbe drammaticamente i propri limiti.

Non è, infatti, assolutamente vero che la peggior forma di digitalizzazione sia preferibile all'assenza della stessa.

Per il primo aspetto, è facile rilevare come in molte organizzazioni il passaggio di consegne generazionali tra analogici e digitali implichi un grande sforzo di implementazione e di capitalizzazione della propria storia pregressa.

Molti approcci attuali alla digitalizzazione, anche nel settore della costruzione e dell'immobiliare, assai improvvisati, sono, pertanto, destinati a «nuocere gravemente alla salute» degli operatori e delle organizzazioni.

D'altronde, se il dato, l'informazione e la conoscenza servono a prendere decisioni migliori (ovvero, in prospettiva, a scansare quelle peggiori: e non è una distinzione di poco conto, in quanto essa implica un possibile attentato al libero arbitrio), continuare a distinguere tra i profili professionali relativi ai flussi informativi e a quelli decisionali appare un poco farisaico, facendo sì che in questa maniera si deleghi alla giurisprudenza l'ardua, appunto, sentenza.

Il che vuol dire che, di fatto, occorra definire meglio i poteri decisionali e le relative assunzioni di responsabilità dei profili professionali ascrivibili al famigerato «BIM».

In secondo luogo, però, l'avanzamento delle culture e delle prassi digitali non può prescindere dalla analisi della condizione attuale del mercato committente, professionale e imprenditoriale, la cui mutazione dipende da un complesso combinato disposto di piani culturali, sociologici, giuridici, fiscali, economico-finanziari, organizzativi, oltre che tecnologici.

Ibridazione e deframmentazione

Due, in particolare, sono i temi sensibili che sono in grado di colpire al cuore l'identità delle rappresentanze e delle accademie: l'ibridazione (altrimenti detta integrazione) e la deframmentazione (meglio conosciuta come aggregazione).

Può avere, infatti, davvero senso orientare gli iscritti alla trasformazione digitale e formare i discenti (ma forse anche i docenti) alla sfida digitale senza seriamente, non retoricamente, riflettere attentamente tra indispensabili commistioni, con-fusioni, non di saperi, bensì di priorità, di visioni, di culture?

Può essere veramente possibile parlare di «collaborazione» tra identità che si vogliono fieramente distinte e sequenziali?

Sì, solo a patto che si persegua una strategia di neutralizzazione analogica della digitalizzazione, allorché, al contrario, la «piattaformizzazione» dei mercati renderebbe tutto ciò difficilmente realizzabile e, soprattutto, in potenza, le plat-firm potrebbero esercitare una funzione etero-dirigente nei confronti dei convenzionali player.

È una ipotesi realistica?

Contemporaneamente, alla ibridazione, per così dire, delle identità (a cui corrisponde, peraltro, la rivisitazione del sistema di responsabilità e di negoziazione) si associano i processi aggregativi, la cui natura può essere articolata e variabile, ma, comunque, è foriera di conseguenze trasformative per le rappresentanze e per le accademie.

Si pone, perciò, un problema di orientamento non indifferente, poiché per le rappresentanze il rischio è, appunto, quello di muoversi ambiguamente tra il desiderio, inconscio, di banalizzare i fenomeni innovativi per ricondurli alla «normalità», agli assetti consolidati, e gli effetti «indesiderati» che essi, per quanto depotenziati, comportano.

Per le accademie, il problema consisterebbe nello smarrire il senso ultimo di ciò che sta accadendo, avvalorando una versione riduzionista dell'evoluzione del mercato che finirebbe per danneggiarlo, oltre che nuocere a se stesse.

È forse giunto il tempo di avviare una politica consapevole di queste difficoltà: già troppe iniziative formative si sono avviate in ordine sparso, dis-ordinatamente, senza una coscienza critica del fenomeno.