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Il BIM e gli Architetti

La relazione, complessa che intercorre tra la digitalizzazione e gli architetti nella cultura e nella professione comunitarie

Più volte, in questa sede, si è avuto occasione di scrivere sulla relazione, complessa, che intercorre tra la digitalizzazione e gli architetti nella cultura e nella professione comunitarie e di come essa sia stata affrontata in Francia, in Germania e nel Regno Unito, cercando talora di rivendicare all'architetto un ruolo guida nei processi digitalizzati (su un piano invero tendenzialmente analogico di separazione dei ruoli e delle scansioni temporali), in talaltra occasione, al contrario, di constatare come l'avvento del digitale coincidesse con la diffusione di un suo ruolo meno solipsistico nei confronti, ad esempio, degli attori della costruzione.
Se nel Regno Unito si è incrementato il ruolo dell'architetto come Design Manager nel Desugn-Build Procurement Route, negli Stati Uniti si è accennato al cosiddetto Architect-Led Design-Build.
Nel Nostro Paese l'attenzione che gli architetti, intesi come mondo accademico e quale rappresentanza professionale, hanno riservato al Building Information Modeling (BIM) è sicuramente crescente e degna di nota.
D'altra parte, anche a livello continentale, l'ACE, l'associazione europea, si dimostra essere particolarmente attiva sull'argomento, attraverso un Gruppo di Lavoro dedicato all'argomento.
Gli architetti, almeno quelli italiani, si sono, però, spesso preoccupati principalmente di sottolinearne l'utilità, sottolineandone, tuttavia, per così dire il carattere marginale, nel senso di ritenere che esso non influenzasse la «creatività» dell'architetto e la «qualità» dell'architettura, oltre che la «centralità» di entrambi, come a dire che le poetiche compositive e le istanze sociali risiedessero, comunque, altrove.
A prescindere dal fatto che si tratta, in entrambi i casi, di categorie piuttosto evanescenti e arbitrarie (pur essendo divenute, anche per questa ragione, una sorta di cifra identitaria), è palese a tutti che instaurare un nesso causale tra efficacia degli strumenti (per non dire del metodo) e risultati della concezione sarebbe degno del peggiore, bieco, determinismo.
Questo piano argomentativo, tuttavia, elude completamente la sostanza del problema, perché il fattore dirompente che il BIM potrebbe assumere nell'architettura e per l'architettura non agisce certamente in un ambito tradizionale, bensì tende a porre in discussione l'identità statutaria della figura professionale in Italia per come attualmente (da alcuni decenni perlomeno: da quasi un secolo) essa è conosciuta.
Il 14 settembre 2017, in occasione del Convegno Annuale di ISTeA, l'ultimo che si terrà sotto la presidenza dello scrivente, si avrà modo di confrontarsi sul tema con Randall Deutsch, probabilmente il più acuto osservatore della cultura digitale degli architetti negli Stati Uniti, Paese nel quale il dibattito, su entrambe le coste, sia in ambito accademico sia in ambito professionale, è stato in questi anni particolarmente intenso, con toni comuni, a opera di esponenti professionali con venature accademiche, da accademici con ruoli professionali e da una intellettualità più pura.
Il suo ultimo saggio, significativamente intitolato Convergence, per i tipi di Wiley, correla Building Information Modeling e Computational Design, enfatizzando, tra le altre cose, la ricerca del cosiddetto Software for Everything, di cui Project Quantum di Autodesk è sicuramente uno degli sforzi embrionali maggiormente rappresentativi, quantunque non certo l'unico.
Lo studio, peraltro, andrebbe letto in successione al precedente, che trattava del Data-Driven Design.
Tra l'altro, Deutsch, in certi passaggi giunge a ricordare come la computazionalità possa diventare essa medesima metodo di progettazione e come l'automazione dei processi progettuali non sia così remota, per quanto essa sia presentata sotto la veste di un espediente per alleviare i creativi da routine tediose (il che, comunque, comporta una riduzione dell'intensità di lavoro intellettuale).
Non si tratta, infatti, tanto di sottolineare come il pensiero collaborativo possa erodere il primato autoriale dell'architetto (uno degli argomenti alla base della contestazione dell'appalto integrato: non per nulla), bensì di evidenziare che tutto l'apparato simulativo e computazionale che il BIM (per meglio dire, la digitalizzazione) porta con sé interroga radicalmente il progetto (di architettura, ovvero dell'architetto: integrato dagli apporti dei consulenti tecnici) in funzione del funzionamento del cespite ideato (anche nel caso di intervento sul costruito, ovviamente: la Maintenance) nel ciclo di vita e, addirittura, della validazione occupativa dello stesso (le Operations): i cicli delle vite.
Quest'ultimo passaggio, sotto le vesti della Smart Home e del Cognitive Building, disloca oggettivamente già ora il protagonismo sul prodotto immobiliare verso altri attori e competitori, spesso sino a ora lontani dal settore delle costruzioni. 
Per prima cosa, dunque, la convergenza di cui discorre Randy Deutsch è assai più che una semplice forma di collaborazione e di integrazione, come, appunto, dimostrano tutti i tentativi di creare ecologie digitali o perlomeno flussi di dati che si trasferiscano entro un ambiente di condivisione unitario: da cui, ad esempio, le menzioni di Flux oppure di Karamba e di Octopus.
Per Deutsch, invero, integrazione è locuzione che finisce ancora per rimandare alla linearità, a differenza della circolarità della convergenza.
In definitiva, ci ricorda lo studioso americano, la convergenza non è antinomica a divergenza, bensì a frammentazione e a separatezza: uno dei capisaldi su cui si basa, in buona sostanza, l'immaginario dell'architetto.
Per Deutsch, peraltro, questa condizione convergente non è frutto di alcuna teoria dell'architettura, bensì dell'evoluzione operativa concomitante di molteplici fattori, maturandosi al di fuori di un ambito rigorosamente accademico.
Questa modalità di incrinare le barriere e di indebolire le distinzioni, più volte citata nel saggio di Deutsch, ma anche nei suoi precedenti volumi, farebbe sì che le potenzialità della simulazione (che coinvolgono anche Gamification, Immersive Environment e Mixed Reality) inducano l'architetto a muoversi oltre i propri confini «culturali» ovvero «temporali», verso le fasi della costruzione e della gestione.
Una tale responsabilizzazione condurrebbe probabilmente l'architetto a rispondere del proprio operato in termini imprenditivi e lo costringerebbe a non potersi idealmente, ma forse anche contrattualmente, più separare dall'opera che ha ideato.
Come si è già osservato in precedenti occasioni, in effetti, la simulazione e il calcolo, da un lato, permettono di attuare bilanciamenti tra le discipline in tempo reale, ma, dall'altro, obbligano i progettisti che hanno formulato le previsioni a confrontarsi cogli esiti effettivi rivelati dai sensori posti nelle opere che essi avevano progettato.
Il BIM, dunque, andrebbe profondamente a impattare sulla identità dell'architetto e dell'architettura per via indiretta, paradossalmente andando a rendere assai meno eteree le nozioni di «creatività» e di «qualità».
Vi è, inoltre, un altro contesto potenzialmente inedito, che passa sotto la locuzione, inusitata e forse inaudibile, di «architettura e intelligenza artificiale», di cui Deutsch parla in termini di automazione, ma anche di intuizione.
Anche in questo caso non si tratta certo ingenuamente di immaginare «robot architetti» (quantunque una parte della produzione architettonica corrente non paia essere così originale e irriproducibile), bensì di riconoscere che si pone la possibilità di gestire, accumulandola e capitalizzandola, la conoscenza generando supporti alle decisioni/soluzioni: «adattivo»,  «generativo», ma pure «evolutivo», non per nulla, sono espressioni tipiche del computazionalismo e del parametricismo.
A parte il fatto che, anche in Italia, i maggiori studi/organismi/società di architettura personalizzano i software di BIM Authoring e fanno largo ricorso al Visual Programming per efficientare le procedure routinarie, l'economia di conoscenza è naturalmente anche economia di scala.
Tra le citazioni commerciali presenti, a titolo esemplificativo, che testimoniano la declinazione comune di Building Information Modeling e Computational Design vi è, ovviamente il connubio di Revit con Dynamo, così come si parla di Revizto per l'associazione coi game engine e la realtà virtuale.
Di conseguenza, la frammentazione e l'individualismo, caratteristici di molti architetti, sono posti in discussione dai processi aggregativi e integrativi, maggiormente sviluppati, tradizionalmente, sui mercati dei servizi di architettura e di ingegneria anglofoni.
Naturalmente il mercato professionale, così come la maggior parte degli esempi addotti dall'autore di Convergence, sono statunitensi, colle debite implicazioni sul differente ruolo della professione di architetto nei confronti dell'Europa e dell'Italia.
Uno degli assunti iniziali da cui parte l'analisi di Randy Deutsch è chiaramente basata sulle conseguenze che la grande recessione ha comportato per il mercato professionale nordamericano: riduzione degli organici, incremento del livello dei servizi, maggiore rapidità nella consegna dei progetti, e così via.
Ovviamente, tutti i riferimenti e le esemplificazioni addotti nel volume prescindono dal confronto col costruito nell'ottica continentale e nazionale, ma ciò non toglie pressoché nulla alla illustrazione di una sfida epocale che non può non riguardare anche la cultura architettonica italiana che, come anticipato, sembra, talvolta, dare l'impressione di voler circoscrivere il fenomeno entro un territorio puramente strumentale, di efficientamento delle strutture e degli apparati tradizionali, riservando ad altro (la questione sociale delle periferie urbane, gli spazi aperti nelle metropoli, la dialettica coll'esistente, e così via) l'attenzione prevalente.
La digitalizzazione, insomma, pare spesso preoccupare, addirittura infastidire, una parte del pensiero architettonico contemporaneo europeo, ma raramente sembra entusiasmarlo.
In Italia, però, molto numerose risultano ancora, nonostante tutte le contrazioni, le matricole e i laureati in architettura: per tutti costoro si pone il problema di quale cultura digitale insegnare e di quali ruoli professionali immaginare.
Non pare che basti ricorrere ai BIM Manager o ai BIM Co-ordinator: qui è in gioco il pensare non più analogicamente l'architettura.
Può darsi che i modelli di concezione della digitalizzazione in architettura dei Paesi anglosassoni (differenti, a ogni buon conto, tra loro), così come le corrispondenti strutture di mercato, non siano affatto pertinenti ai contesti dell'Europa Continentale.
Sicuramente una riflessione, ad esempio, sui processi progettuali e il Machine Learning è attualmente praticabile solo in sfere limitate (i simposî di ACADIA o di Design Modelling oppure i seminari di UCL), ma il tema generazionale si impone. 

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