Urbanistica | Edilizia | Normativa Tecnica
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I tabù dell’urbanistica

A distanza di oltre cinquanta anni dall'emanazione del decreto ministeriale 1444/68, che fissa limiti inderogabili in materia edilizia e standard urbanistici, l'autore suggerisce una lettura critica del contenuto e delle finalità del testo al fine di promuovere un ripensamento della normativa.

Sono passati cinquantacinque anni da quando il Legislatore ha fissato col decreto ministeriale (anzi: interministeriale) n. 1444/68 i limiti di densità, altezza e distanza degli edifici in assenza di pianificazione di dettaglio e forse vale la pena esaminare criticamente il contenuto di quelle norme che nel tempo si sono consolidate tanto da essere ritenute “principi” dell’urbanistica.

Ma è davvero così o più semplicemente è una sclerotizzazione per inerzia?

Un esame sistematico è d’obbligo, poiché nei confronti di queste norme si nota una generalizzata insofferenza e però, contestualmente, una timida impotenza a proporne il cambiamento.

L’Autore sviluppa una lettura critica (non delle interpretazioni giurisprudenziali, ma) del contenuto e della finalità della norma che può essere utile ad un suo ripensamento.


Abbiamo già trattato dell’evoluzione della norma sulle distanze delle costruzioni, introdotta dall’articolo 9 del d.m. 1444/68 in attuazione del disposto dell’articolo 17 della legge n. 765/67, la cui rilevanza è assurta addirittura a norma di principio integrativa dell’articolo 873 del codice civile e, come tale, inderogabile. Così la Corte Costituzionale (dopo una lunga e non sempre lineare evoluzione giurisprudenziale - v. InGenio 10/09/2019 – “Le distanze dell’articolo 9 del DM 1444/68: la metamorfosi di una norma”).

In realtà non sono tanto sicuro che il Legislatore, nel formularla, avesse voluto attribuirle in effetti questa portata che si è venuta affermando e accrescendo nel tempo per evoluzione giurisprudenziale.

 

L’iniziale sottovalutazione

Certamente non se ne erano resi conto gli “applicatori” della legge, un po’ (fors’anche) per superficialità, un po’ per comodo e per interesse (la norma appariva molto restrittiva se applicata nelle zone “B”), un po’ perché il Legislatore non era stato affatto chiaro nella sua formulazione di chi fossero i destinatari (il lungo e non sempre coerente percorso giurisprudenziale lo conferma).

Va detto infatti che il decreto in cui si colloca l’articolo 9 titola: “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati …….. da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici …….. ai sensi dell'art. 17 della legge n. 765 del 1967“ da cui – in un’interpretazione letterale – si deduceva che i destinatari fossero gli Urbanisti progettisti dei piani e non il singolo progettista dell’edificio. Per cui – laddove il pianificatore non ne avesse trascritto il dispositivo nello strumento urbanistico o ne avesse previsto deroghe – l’operatore finale (il progettista architettonico) ben poteva intendere che prevalesse la norma di piano e non quella di decreto (perché di decreto si trattava e dunque di un atto amministrativo, ancorché di fonte statale).

Su questo equivoco (se di equivoco si è trattato) per lungo tempo (fino a quasi tutti gli anni ottanta) si è in buona fede applicata la norma delle distanze imposte solo dal piano regolatore che (si sa) in molti casi disapplicava di fatto la norma statale.

Solo per effetto di successive interpretazioni giurisprudenziali – sempre più stringenti – alla disposizione ministeriale si è invece venuta attribuendo quella valenza di principio inderogabile di diretta destinazione all’operatore finale (il progettista architettonico dell’edificio) anche qualora l’urbanista se ne fosse discostato o l’avesse disattesa.

Un salto interpretativo importante per l’epoca (siamo a cavallo degli anni novanta del secolo scorso) che coinvolgeva plurime responsabilità e ha provocato conseguenze e ricadute a volte anche pesanti in sede giudiziale.

La motivazione della cogenza della previsione è oggi sorretta dalla motivazione giurisprudenziale che la ritiene a presidio (anche) della salute pubblica in quanto la distanza delle pareti finestrate deve garantire la “salubrità” dei luoghi e impedire il crearsi di “viziose intercapedini”. Una (probabilmente superflua) curiosità: pur essendo un decreto inter-ministeriale (così correttamente viene spesso citato) non è nato d’intesa col Ministero della Sanità, ma tra il Ministero per i Lavori pubblici e quello per l’Interno. La valenza sanitaria dunque l’ha assunta strada facendo.

La norma è risultata spesso invisa agli operatori e anche agli amministratori, perché indubbiamente fortemente limitativa degli interventi edilizi (soprattutto quelli sull’esistente nei casi di “rigenerazione” o “densificazione” urbana) e in qualche modo si è cercato di superarla.

 

I tentativi di superamento

Questo ha motivato alcuni interventi legislativi tesi al suo superamento a partire dall'articolo 30, comma 1, lettera 0a), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (convertito, con modificazioni, dalla Legge 9 agosto 2013, n. 98), timidamente integrato dall'articolo 5, comma 1, lettera b), del d.l. 18 aprile 2019, n. 32 (convertito con modificazioni dalla Legge 14 giugno 2019, n. 55) con cui ci si è limitati a spostare in capo al Legislatore regionale la responsabilità della sua modifica con cui si è aggiunto l’articolo 2-bis al Testo Unico dell’edilizia.

L’unica vera variante di cui il Legislatore nazionale si è assunto la responsabilità è stata introdotta con la lettera b-bis) aggiunta in sede di conversione in legge all’articolo 5, comma 1 del sopracitato d.l. n. 32/2019 (di cui diremo meglio tra poco) facendola passare sotto le mentite spoglie di “interpretazione autentica” per non dare nell’occhio.

Come sempre, per capire il presente, risaliamo all’origine.

 

Un inquadramento temporale

La norma nasce nel 1968 ed è figlia di una cultura razionalista che ancora porta il retaggio della ricerca della “salubrità” da ottenersi con la dovuta aerazione e soleggiamento degli ambienti e, quindi con il dovuto distanziamento degli edifici sì da consentirne l’esposizione all’aria e alla luce.

Chi non ricorda gli studi distributivi del razionalismo o, lo studio degli isolati e dei rapporti distanza/altezza delle “manzanas” del piano regolatore di Barcellona di Ildefonse Cerdà?

Anzi, la pianificazione urbanistica agli esordi del novecento, prima ancora della quantificazione degli “indici di edificabilità”, era improntata sugli abachi delle “tipologie edilizie” realizzabili nelle diverse “zone” (che non erano ancora quelle “omogenee” ai sensi del precitato d.m. n. 1444/68). E in quegli abachi si statuivano anche i rapporti altezze/distanza in funzione della salubrità per evitare le “viziose intercapedini” malsane.

Quando la pianificazione urbanistica ha abbandonato gli abachi tipologici per adottare i parametri e gli indici da attribuire alle “zone omogenee”, la “forma edilizia” delle città è stata demandata alla sommatoria delle interpretazioni individuali dei progettisti architettonici affidata a parametri astratti e generali di cubature, altezze e distanze.

É così che il d.m. del 1968 scinde la disposizioni di altezza e distanza in due diverse norme:

  • con l’articolo 9 impone le distanze tra fabbricati (rectius: tra pareti finestrate); norma che, per semplicità, chiameremo d’ora in poi “la norma dei dieci metri” ;
  • con un disgiunto articolo (l’8) impone le altezze.

La finalità del Legislatore – in questa nuova modalità di disciplina - era lodevole, ma la traduzione normativa era – anche per quell’epoca – abbastanza “grezza” e aprioristica.

Grezza - come grezze sono tutte le norme assolute e di carattere generale - estesa indiscriminatamente sull’intero territorio nazionale,

Aprioristica ed autoreferenziale perché non dimostrata nella sua quantificazione (non mi risulta che a monte sussistano studi di igiene ambientale di cui sia l’esito tecnico).

Frutto più di un’intuizione (di una convinzione) che di una ricerca.

Come tutte le cose non dimostrabili è diventata un dogma indiscusso …. e indiscutibile: un tabù.

 

Le motivazioni originarie

Coerentemente però, la norma assoluta valeva solo per l’edilizia diretta, in assenza di un progetto planivolumetrico d’insieme.

La norma dei dieci metri infatti contiene una delega in bianco al progettista del piano particolareggiato che cura la distribuzione spaziale del contesto in base alle sue sensibilità senza regole precostituite.

Il che aveva (ed ha tutt’ora) una sua ragione; nel piano particolareggiato la distanze reciproche degli edifici sono controllabili in sede di progetto, nell’edilizia lotto per lotto no.

L’intento del Legislatore dunque era evidente: indurre alla pianificazione attuativa di dettaglio (più libera e consapevole) riservando le regole (cautelative e generiche) ad un ruolo residuale della sola edilizia diretta.

Ma così non è stato.

L’italiano medio infatti (proprietario, progettista o fors’anche amministratore che sia) non ama i piani particolareggiati (non ama l’urbanistica di dettaglio) e la città reale si è (anche troppo spesso) sviluppata per interventi diretti disattendendo le aspettative e le indicazioni che il Legislatore del ’68 aveva auspicato.

Ma oggi?

Ciò detto a motivazione del Legislatore del 1968 è però indubbio che oggi un problema esista e, se abbiamo cercato di contestualizzare e giustificare il passato, cerchiamo ora di contestualizzare (e attualizzare) le problematiche e le possibili soluzioni.

Che la norma delle distanze dell’articolo 9 desti diffusa insofferenza è inequivocabile; basti vedere i plurimi tentativi di intervento del Legislatore di cui si è detto tutti orientati a contenerne l’applicazione.

Ma non a smentirne la portata di “principio” inderogabile. E pertanto inefficaci.

 

La vera domanda allora è: “è davvero un principio” ?

Davvero siamo convinti che la salute pubblica sia affidata alla distanza dei dieci metri? e questa risolva la finalità di evitare le viziose intercapedini pregiudizievoli per la salute pubblica?

In base a quali ricerche (non dico scientifiche, ma almeno) tecnico-statistiche è stato definito questo parametro?

A suo tempo il Legislatore non ne aveva motivato espressamente la finalità e prima che la giurisprudenza la qualificasse come una norma a tutela della salute si è a lungo discusso se, invece, non fosse a tutela della introspezione, visto che opera solo in presenza di (almeno una) parete finestrata.

Manca una ricerca scientifica a monte ed anche una verifica a valle: se è vero che è a tutela della salute e non della prospicienza, quali pregiudizievoli conseguenze si sono verificate laddove questo limite non è stato rispettato (visto che è stata diffusamente disapplicata)?

Ciononostante il più recente orientamento giurisprudenziale ha confermato alla norma la valenza di principio a tutela della salute pubblica ed oggi – dopo le ormai costanti espressioni dei Giudici - è diventata un tabù indiscusso su cui nessuno vuole metter mano.

 

Le incongruenze alla fonte

Già nel testo originario l’articolo 9 del d.m. 1444/68 presentava (e presenta tuttora) alcune (chiamiamole così) incongruenze per essere davvero una norma di principio.

Al netto di altre incertezze interpretative, se davvero fosse norma di principio, dovrebbe essere cogente in tutte le occasioni e presiedere ogni intervento edilizio diretto o pianificato e non essere invece così ampiamente derogabile nei piani particolareggiati. Anzi, a voler essere precisi nei planovolumetrici non si tratta neppure di una deroga (il che già presumerebbe una sua esistenza): nei piani particolareggiati la norma non opera (non esiste proprio) e la tutela della salute pubblica cui dovrebbe presiedere è affidata – senza regole – al progettista del piano.

 

Un primo (incongruo ma significativo) intervento del Legislatore

Particolarmente significativo poi appare l’intervento modificativo operato dal Legislatore con l'art. 5, comma 1, lettera b-bis), della legge n. 55 del 2019 (già decreto-legge Sblocca-Cantieri).

A parte il fatto che interpretare in forma “autentica” una norma dopo cinquant’anni di vita e ripetute risoluzioni giurisprudenziali appare di per sé operazione discutibile, con il “pretesto” dell’interpretazione autentica il Legislatore ha di fatto riscritto la norma rispetto alla versione originaria della Gazzetta Ufficiale, facendo diventare due commi (il secondo e il terzo), periodi del comma 1 (v. InGenio 16/07/2019 – “Distanze degli edifici e dintorni nella legge sblocca-cantieri”).

Con ciò stravolgendone il dispositivo. Ne abbiamo già dato conto in InGenio 21/10/2019 - Distanze tra costruzioni ex articolo 9 DM 1444/68 e articolo 5 dello Sblocca Cantieri: effetti collaterali”)

Guarda caso l’articolo 5 titola “Norme in materia di rigenerazione urbana”, il che vuol dire che la precedente interpretazione (secondo il Legislatore) impattava negativamente sugli interventi nelle zone “B” (quelli diretti evidentemente, non quelli di piano particolareggiato) e ha inteso limitarla. Questa la vera motivazione della re-interpretazione.

Su questo stravolgimento nulla ha potuto dire il Giudice; solo prenderne atto.

Perché – ogni tanto è bene ricordarlo – il Giudice non legifera, ma – più semplicemente - interpreta la legge. Nel gioco democratico dei poteri è il Parlamento che legifera.

Questo discutibile intervento legislativo ci dice però due cose:

  • La prima (una constatazione): Se davvero si trattasse di un principio non dovrebbe essere possibile stravolgerlo con “un’interpretazione autentica”: vorrebbe dire che su di un principio indefettibile e “primario” (come deve essere quello che presidia la salute pubblica) per cinquant’anni ne abbiamo dato un’interpretazione scorretta.
  • Ovvero: noi non avevamo capito, ma anche il Legislatore non è stato mica tanto chiaro! Il che, su di un principio, sarebbe gravissimo.
  • La seconda (una conferma): il fatto che lo si sia stravolto con un nuovo provvedimento di legge ci conferma (se ancora ce ne fosse stato bisogno) che non è un principio indefettibile e che il Legislatore ben può modificarlo.

Solo che con lo sblocca-cantieri lo ha fatto facendo finta di non farlo (con l’artificio che fosse l’autentica interpretazione ab-origine).

Una finzione con cui ha ritenuto di poter salvare (come si dice) capra e cavoli: modificare il contenuto facendo salva l’intangibilità del principio.

A questa impostazione si sono ispirati i sopracitati provvedimenti di modifica dell’articolo 2-bis del DPR 380/01, sempre orientati a limitare l’efficacia dei dieci metri, che hanno ritenuto di bypassare l’imbarazzo della inconciliabile dicotomia demandandone la responsabilità al Legislatore regionale, il quale – evidentemente – ben poco ha potuto a fronte di un “principio statale” non di sua competenza se non ottenere sonore smentite da parte della giurisprudenza quando ha provato a “forzare” il principio. (v. il soprarichiamato InGenio 10/09/2019 – “Le distanze dell’articolo 9 del DM 1444/68: la metamorfosi di una norma”).

Svuotati dalla loro presunta portata innovativa le norme attuali dell’articolo 2-bis del DPR 380/01 consentono oggi il superamento dei dieci metri solo nella strumentazione urbanistica di dettaglio, né più, né meno di quanto già diceva (e ancora dice) l’articolo 9 del d.m. n. 1444/68.

Il tabù è rimasto tale: chi tocca i dieci metri muore.

Dunque non modificheremo mai la norma dei “dieci metri” con palliativi di rinvio se non con un intervento diretto del Legislatore statale visto che solo Lui ne ha competenza.

 

Quand’anche fosse un principio, è modificabile? Il Legislatore lo ha già fatto

Se ci limitiamo all’interpretazione il principio non è modificabile. Ma se cambiamo la norma sì.

Se crediamo davvero che la norma dei “dieci metri” sia attuale, motivata nella sua quantificazione, “sacrosanta e inviolabile”, allora mettiamoci il cuore in pace; applichiamola con convinzione senza girarci intorno dando illusorie facoltà di superamento individuale al Legislatore periferico; l’unico modo di bypassare la norma (che ci piaccia o no) è con la pianificazione di dettaglio … e non altro.

Sennò facciamone una disamina seria del contenuto e della finalità e affrontiamo il delicato tema di una sua eventuale modifica strutturale.

Dopo 55 anni può essere il momento.

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Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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