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I nuovi adempimenti comunali nel Salva-Casa

Le innovazioni della recente legge Salva-Casa non sono a costo zero per la pubblica amministrazione chiamata (nei suoi Organi e nelle sue strutture tecniche) a nuovi compiti per i quali si dubita possa essere immediatamente dotata delle necessarie professionalità.  Questo è un problema per la corretta e compiuta applicazione normativa che potrebbe vedere deluse le aspettative sorte intorno al provvedimento. L’Autore le estrapola dalle pieghe della legge in un commento cumulativo che ne evidenzia le criticità.

Prendendo spunto dalle considerazioni del precedente commento in merito alle innovative competenze dei tecnici privati vediamo quali altre competenze vengono invece addossate alla Pubblica Amministrazione.

Non parliamo di quelle ovvie dell’istruttoria delle istanze di sanatoria (che saranno molte e complesse); quella è da sempre attività istituzionale cui gli uffici tecnici pubblici sono avvezzi e preparati.

Parlo di adempimenti nuovi.

  

L’accertamento di legittimità, ovvero “bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga come prima”

Potremmo cominciare con le modifiche all’articolo 9-bis, comma 1-bis che molti hanno commentato positivamente per il fatto che la nuova norma pareva avesse limitato la verificazione della corrispondenza “stato di fatto-autorizzazione” all’ultimo atto abilitativo (innovazione per la quale è bastato cambiare la congiunzione della precedente “e” con l’attuale disgiunzione “o”).

Mi pare però che ci si sia dimenticati che il Legislatore - sacrificando la “e” a favore della “o” – si è comunque cautelato precisando che la disgiunzione vale solo se l’Amministrazione in sede di rilascio dell’ultimo titolo abbia effettivamente verificato la legittimità di tutti i pregressi.

Il che vuol dire che la sostanza dell’accertamento di legittimità richiesto dal Legislatore resta lo stesso di prima (onestamente non poteva che essere così), solo che ne ha traslato la competenza.

E non è ben chiaro a chi.

Chi attesta l’avvenuto accertamento di legittimità dei pregressi titoli ?

Non certo il privato professionista che non sa (né può sapere) come si comportava l’Amministrazione rilasciante in epoche anche remote.

Ma anche l’Amministrazione attuale, pur essendo l’unica che potrebbe farlo, non sempre è certa dei comportamenti dei predecessori e dubito che sia disposta a certificarlo.

In assenza di certezze, il progettista non può avvalersi di questa facoltà per cui mi pare che tutto resti come prima. Credo che la pretesa innovazione sia di fatto una pia illusione.

 

  

Integrazione della normazione pianificatoria comunale

Sul delicatissimo tema del mutamento di destinazione d’uso in realtà il coinvolgimento non è solo dell’apparato tecnico delle Pubbliche Amministrazioni ma anche - direi prioritariamente – dell’apparato politico.

Il comma 1-bis e 1- quater dell’articolo 23-ter consentono ai comuni tramite lo strumento urbanistico di “fissare specifiche condizioni” tra cui è anche “inclusa la finalizzazione del mutamento alla forma di utilizzo… “ per le singole unità immobiliari come precisa il comma 1-quater.

Non entreremo per ora nel merito di questa complessa problematica, ma – pur limitandoci al solo aspetto di rinvio della facoltà pianificatoria che il Legislatore nazionale fa - dobbiamo rilevare che la disposizione, per come è scritta, è indirizzata direttamente alle amministrazioni locali indipendentemente dalle eventuali legislazioni regionali.

Un’urgente valutazione e intervento comunale pare d’obbligo, perché, data la strategicità del tema, sarebbe inopportuno che tale adempimento (pur facoltativo) non fosse adottato per mera inerzia e non per scelta.

Alla regione (salve le competenze della legislazione concorrente) sono invece espressamente demandati i compiti di definizione del “contributo per opere di urbanizzazione secondaria” (articolo 23-ter, co. 1-quater) e, più in generale l’adeguamento del proprio regime legislativo al “mutamento di destinazione d’uso” disciplinato dall’articolo 23-ter che deve annoverarsi comunque tra i “principi” della Legislazione nazionale. Come tali inderogabili.

   

Dilazione (possibile) della rimessa in pristino degli abusi

L’articolo 31, co.3 prevede la proroga del termine per l’esecuzione delle rimesse in pristino degli abusi imposti dall’Amministrazione Comunale (fissato in via ordinaria in 90 giorni sempre dallo stesso articolo al comma 3, primo periodo) “fino a un massimo di duecento quaranta giorni” per “comprovate esigenze di salute” dei residenti o “assoluto bisogno” o “gravi situazioni di disagio”.

Si tratta dunque di “proroga” (e non di attribuzione iniziale) che, come tale, va richiesta entro i termini canonici e va opportunamente motivata e documentata sulla base delle limitazioni di legge che paiono circoscritte a situazioni sociali (ovvero a destinazioni residenziali ?) ; il che necessita di una valutazione necessariamente discrezionale.

Di chi la competenza?

Dei soli tecnici dell’Ufficio Tecnico o anche dei Servizi Sociali?

Scelta discrezionale tecnica o da surrogarsi anche dalla Giunta o dal Sindaco come Autorità Sanitaria?

     

Valutazione delle sanzioni per violazioni paesaggistiche sanabili

Oneroso è il comma 5-bis dell’articolo 36-bis che introduce la necessità in capo all’Amministrazione Comunale della definizione delle sanzioni in caso di violazioni paesaggistiche per difformità sanabili (e, dunque, compatibili); sanzione da stabilirsi con perizia di stima e quantificata nel maggiore importo tra “profitto” conseguito dal privato che ha commesso l’abuso e “il danno” paesaggistico” arrecato al bene oggetto di tutela.

La quantificazione del “danno paesaggistico” appare di complessa, difficile e assai discrezionale valutazione, esposta ad interpretazioni.

Vero è che la norma non è nuova, perché è di fatto la trascrizione della disposizione dell’articolo 167, co. 5 del d.lgs. n. 42/2004, e quindi le amministrazioni già hanno dovuto affrontare il problema, ma è altrettanto vero che si amplia lo spettro delle difformità sanabili e si arricchisce la casistica in precedenza limitata ai soli casi del comma 4 del citato articolo 167.

   

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Termini ridotti e silenzio-assenso per l’esame delle sanatorie di difformità parziali

Rischioso poi è ancor più il comma 6 dell’articolo 36-bis che riduce a soli 45 giorni il termine per l’emanazione del provvedimento motivato del comune in mancanza del quale si dà per acquisito il silenzio-assenso.

Finora la materia della sanatoria era (per così dire) protetta dal silenzio-rifiuto (ex articolo 36, comma 3 alla decorrenza di sessanta giorni).

Averla ricondotta al regime del silenzio-assenso (pur se limitatamente alle parziali difformità e variazioni essenziali) vuol dire – dal punto di vista concettuale – che inequivocabilmente (in presenza dei requisiti di legge da chiunque obiettivamente riscontrabili) questo tipo di sanatoria è un atto dovuto.

Il che non è riconoscimento da poco.

Proprio per questo però poteva essere concesso un termine più congruo per l’istruttoria pubblica.

Anche perché l’istituto del silenzio-assenso sta godendo di un recente orientamento giurisprudenziale che assicura l’inverarsi dell’atto per effetto del solo decorso del tempo in assenza di contestazioni della P.A. anche a fronte di non conformità urbanistiche. (Di questo abbiamo detto in recenti commenti – v. InGenio - 18.06.2024 - “Stato legittimo, presunzione di legittimità e garanzie sostanziali degli interessi pubblici: la non abusività” e 01.07.2024 - “L'esistenza degli atti per silenzio-assenso e garanzie sostanziali degli interessi pubblici”).

Il che va sicuramente a favore della certezza del diritto privato cui sono dichiaratamente orientate le norme or ora introdotte, ma a discapito dell’interesse collettivo qualora la norma sia concepita per non dare il tempo sufficiente e fisiologico alla Pubblica Amministrazione di un esame serio delle richieste.

Questo è quello che presumibilmente si verificherà nel caso in esame (il concretizzarsi del silenzio-assenso anche in caso di non conformità ai requisiti) visto che è da supporre che le Amministrazioni Locali saranno sommerse da contestuali richieste.

E questo non è un bene.

Si noti, solo per verità storica, che l’istituto del silenzio-assenso sulle pratiche di condono è già stato sperimentato (v. articolo 35, co. 18, l. 47/85), ma dal contezioso ancora in essere non pare sia stato risolutivo (vuoi anche per i connessi adempimenti che lo condizionavano).

Non so se la nuova norma sarà esente da ricorsi.

  

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L’esigenza di una normazione edilizia per tende e affini

Vista la proliferazione delle tipologie di opere temporanee a protezione dagli agenti atmosferici il Legislatore ha cercato di disciplinarne le caratteristiche introducendo la lettera b-ter al comma 1 dell’articolo 6 che qualifica edilizia libera “le opere di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici … “ imponendo però che – oltre a non creare “uno spazio stabilmente chiuso con conseguenti variazione di volumi e superficidevono anche “avere caratteristiche tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l’impatto visivo e l’ingombro apparente e devono armonizzarsi alle preesistenti linee architettoniche”.

Sulla verifica dell’incremento di volume e superficie nulla da eccepire: sono parametri quantitativi e misurabili; quanto agli altri requisiti (impatto visivo e armonizzazione architettonica) si tratta di intento condivisibile, ma di difficile apprezzamento.

Da stabilirsi da parte di chi? E, soprattutto, da verificarsi da parte di chi e quando ?

Cominciamo dal “da chi?”: Non certo dall’installatore e neppure da un tecnico privato perché siamo in edilizia libera esente da qualsiasi certificazione preventiva; quindi dalla Pubblica Amministrazione ex post.

Vediamo allora “quando?”
Per iniziativa della P.A.? (ne dubito, il rilievo pubblicistico non lo merita).
Per esposto di privati ? presumibilmente sì, ma in questo caso:

  • quali parametri discrezionali adotterà la P.A. per contestare la violazione “del profilo estetico e dell’armonizzazione con le preesistenti linee architettoniche” ?
  • e poi, se non sono più edilizia libera, a cosa diventano soggette ? e a quale repressione?

Prevedo probabili contenziosi, presumibilmente condominiali.
Diciamo che è una norma di belle intenzioni, che però, si sa, sono quelle che lastricano la via dell’inferno.

La norma pare appartenere a quelle di principio immediatamente vigenti.
Ciononostante non va dimenticato che il comma 1 fa “salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali” per cui non è impedito un intervento regolamentare diretto del comune.

Nonostante si sappia quale travagliata vita abbia avuto la Commissione edilizia (diventata oggi meramente facoltativa proprio perché le erano state demandate valutazioni estetico-discrezionali) forse sarebbe opportuno predisporre una regolamentazione edilizia e d’ornato (come si chiamava una volta); e se non c’è già, va fatta, perché solo con un Regolamento con le relative sanzioni si può gestire questa norma.

Anche se personalmente non amo le regolamentazioni di dettaglio in questo caso condivido quanto suggerito da qualche avveduto dirigente di predisporre un “abaco” delle tipologie possibili indicante dimensioni, caratteristiche estetiche, di colore, di materiali, … tipi di ancoraggio alle strutture principali, …. .

Quando c’è un regolamento o lo si impugna o lo si applica e dopo “carta canta, villan dorme”.

Non sottovalutiamo l’impatto edilizio (non solo estetico) di queste strutture borderline che tanta utilità rappresentano in località dal clima mite come il nostro che induce piacevoli utilizzi in esterno e che, come tali, le rende soggette a continue forzature interpretative.

   

In conclusione

Non mi pare irrilevante l’aggravio di compiti che la nuova norma accolla agli Uffici Tecnici della Pubblica Amministrazione (i Comuni):

  • vuoi dal punto di vista dell’accelerazione dei compiti di istituto già esistenti, ma in precedenza meno cogenti
  • vuoi dal punto di vista di nuove e più estese competenze professionali.

Abbiamo disponibili tutte queste professionalità qualitativamente e numericamente parlando?

Al netto di tutto il resto, non mi pare poco e forse avevo ragione quando dicevo che il Legislatore non si rende ben conto della distanza tra Paese reale e Paese virtuale.

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Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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