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I limiti congrui e fisiologici della ristrutturazione edilizia

Tutte le caratteristiche e le questioni irrisolte della ristrutturazione edilizia: partendo dal confine tra esistente e nuova costruzione, l'articolo propone una vasta analisi su finalità, procedure abilitative correlate, contenuti in ambito edilizio e urbanistico, "quid novi", demolizione e ricostruzione con focus su traslazione del sedime, prospetto, sagoma, altezze e distanze, per concludere con la tutela della specificità

La ristrutturazione edilizia è definizione assai tormentata la cui interpretazione è stata spesso ricondotta alle sedi giurisdizionali. Quel che produce comunque è una costante incertezza applicativa che non fa bene all’edilizia. L’Autore ne esamina partitamente i contenuti sostanziali riportandoli alla coerenza logica con i principi della materia suggerendone una riperimetrazione dei contenuti.


Fin dalla sua originaria definizione legislativa dell’articolo 31, lett. d) della legge n. 457/78 la definizione di ristrutturazione edilizia ha creato problemi interpretativi che hanno condotto all’attuale (ancor problematica) stesura, spesso fonte di guai sia in sede civile, che amministrativa, che penale.

Questo perché la ristrutturazione edilizia è una terra di confine tra esistente e nuova costruzione e, come tale, oggetto di continui spostamenti di perimetro.

Oggi ne possiamo condurre una disamina consapevole, come si dice “col senno di poi”, visto che l’argomento è all’attenzione dei commentatori (e dei Giudici) da oltre quarant’anni e possiamo presumere di conoscerne bene i diversi aspetti.

La stratificazione attuale del testo – in cui si sono fuse, sedimentate e confuse finalità diverse e contenuti diversi - ne impedisce un’analisi serena per cui cecheremo di disarticolarlo per poterlo analizzare separatamente in funzione degli obiettivi posti e tentare poi di definirne il corretto perimetro in cui può articolarsi.

Potrà apparire un esercizio didascalico, ma forse proprio per questo ci aiuta perché ho l’impressione che si sia perso il quadro di riferimento e si operi di volta in volta più per sommatoria acritica per inseguire esigenze contingenti e spurie, piuttosto che per dare un’organica struttura alla definizione.

Ne esamineremo progressivamente per punti: la finalità, la posizione giuridica, il contenuto tecnico.

 

1 - La finalità

Chiariamo subito qual è la finalità della ristrutturazione edilizia che ne deve integrare la definizione:

  • consentire interventi di mantenimento in efficienza e usabilità del patrimonio edilizio esistente.

Se siamo d’accordo su questa finalità dobbiamo subito rilevare che ha due aspetti, ovvero uno edilizio e uno urbanistico:

  • quello urbanistico mira a tutelare la configurazione della città e i suoi “macro parametri”
  • quello edilizio a consentire l’uso dell’edificio non solo ripristinando il decadimento naturale conseguente al trascorrere del tempo (a quello basterebbe la manutenzione straordinaria) ma anche consentendo gli adeguamenti impiantistici e strutturali medio tempore intervenuti al fine di mantenere in efficienza un bene esistente.

 

2a - La posizione giuridica del bene...

La modalità d’intervento non è estranea al regime giuridico del bene.

Allora quali diritti gravano sull’esistente?

Esistente vuol dire già realizzato (evidentemente in modo legittimo e non abusivo) e quindi – limitatamente all’edificio già realizzato e al netto di eventuale ulteriore capacità edificatoria connessa al lotto - si tratta di un bene per il quale è già stato esercitato il diritto di costruire (lo ius aedificandi) trasformandolo da diritto potenziale a diritto soggettivo.

Siamo quindi di fronte ad un diritto non più esposto alle eventuali mutevoli disposizioni dello strumento urbanistico - che possono variare in funzione di modifiche del PRG - ma ad un diritto costitutivo della proprietà.

Dunque intervenendo su di un bene esistente si esercita il diritto patrimoniale al suo mantenimento.

 

2b - … e la procedura abilitativa

Ciò significa che l’esecuzione di opere di ristrutturazione dipende “esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, …” come recita l’articolo 19 comma 1 della legge n. 241/90 quando introduce la “segnalazione certificata di inizio attività”.

Il che ha consentito – nell’evoluzione delle procedure amministrative abilitative – di liberalizzare l’esecuzione delle opere di “ristrutturazione” sottoponendole alla mera “comunicazione di parte” (ieri d.i.a., oggi s.c.i.a.) che non è un atto autorizzativo, ma semplicemente una presa d’atto della conformità alle norme autodichiarata dal proprietario.

Allora dobbiamo stare molto attenti a definire le opere di ristrutturazione perché, una volta identificate, non sono più condizionabili ma si possono attivare di diritto.

 

3 - I contenuti in ambito edilizio e urbanistico

Gli effetti di un intervento di “mantenimento in efficienza di un bene esistente” (come abbiamo dianzi definito) ha effetti e ricadute sia in campo edilizio che urbanistico.

 

3.1 - In campo edilizio non sono mai sorti problemi particolari perché la definizione delle modalità di intervento sono quelle previste dal primo capoverso del primo comma dell’attuale articolo 3, let.d) del DPR n. 380/01 rimasto inalterato dal 1978 che precisa che sono “interventi di ristrutturazione edilizia, quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”

Tale norma non pone particolari limitazioni se non quelle che possono gravare sul singolo edificio in funzione delle specifiche peculiarità da preservare, desumibili da “vincoli” sovraordinati di legge o di pianificazione urbanistica.

In altri termini non si sono rilevate criticità interpretative delle opere eseguibili all’interno dell’involucro; all’esterno invece sì, e molte, ma perché investono aspetti urbanistici.

3.2 - In campo urbanistico conservare l’“esistente” vuol dire non modificare il carico urbanistico che già c’è, così come definito dalla voce 5 delle DTU come il “Fabbisogno di dotazioni territoriali di un determinato immobile o insediamento in relazione alla sua entità e destinazione d’uso. Costituiscono variazione del carico urbanistico l’aumento o la riduzione di tale fabbisogno conseguenti all’attuazione di interventi urbanistico-edilizi ovvero a mutamenti di destinazione d’uso.”

Ovvero - detto in altri termini – se vogliamo conservare l’esistente (e non alterarlo) dobbiamo garantire l’“INVARIANZA URBANISTICA”.

Il che significa che – dal punto di vista fisico -:

  • non può essere incrementato il volume e/o la superficie perché ne conseguirebbe un incremento insediativo e
  • neppure può essere modificata la destinazione d’uso

perché questi due parametri costituiscono il cardine della pianificazione e da essi conseguono gli standards posti a garanzia della qualità della vita, (quelli che dianzi abbiamo definito ”i macro parametri dell’urbanistica”).

Abbiamo così risolto in partenza il quesito più imbarazzante anche se forse non piacerà a tutti.

 

4 - I dubbi storici della ristrutturazione edilizia

Sulla formulazione concettuale come sopra delineata – apparentemente semplice e inequivocabile – si sono appuntati invece (e sclerotizzati) dubbi atavici anche perché il Legislatore nella traduzione in norma giuridica non ha seguito la coerenza concettuale, ma, per venire incontro a contingenti esigenze (rectius: pressioni immobiliari), ha usato equivoche formulazioni che di volta in volta hanno implementato il testo portandolo alla pressoché illeggibile stesura attuale.

Senza risolvere appieno i dubbi che possiamo così riassumere:

  • 1 - la ristrutturazione può comportare anche l’inserimento di nuovi volumi?
  • 2 - la ristrutturazione può comportare anche la totale demolizione dell’edificio da ristrutturare?

e, se sì:

  • 3 - la ristrutturazione deve conservare l’involucro precedente, ovvero la “sagoma”, e il posizionamento (ovvero il “sedime”)?
  • 4 - la ristrutturazione può essere estesa anche ad edifici non più esistenti (magari demoliti da eventi bellici o, perché no?, catastrofici?
  • 5 - la ristrutturazione (anche in caso di completa demolizione) può far conservare l’involucro originario (sagoma) anche se attualmente in contrasto con le norme (altezze e distanze dai confini)?
  • 6 - come si tutelano le caratteristiche specifiche del bene qualora sia soggetto a particolari limitazioni o vincoli?

Vediamo se, esaminandoli alla luce della logica, possiamo trarne suggerimenti per una riscrittura coerente.

 

5 - L’irrisolto dilemma esistenziale del “quid novi”

Fin dalla metà degli anni ottanta la ristrutturazione edilizia è stata travagliata dal dubbio se nell’“insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” si potesse ammettere anche qualche modesta integrazione volumetrica, visto che l’esito finale dell’operazione (ovvero l’“organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”) poteva in effetti farlo presupporre.

Si instaurò un’insanabile diversità di orientamento tra il Giudice Amministrativo (propenso ad ammetterlo) e il Giudice Penale che non lo consentiva, diversità che non fu sanata neppure quando la norma fu riscritta e inserita nel DPR 380/01 perché a fronte dell’articolo 3, lett. d) - che non ne parla - l’articolo 10 (che trattava il tipo di atto abilitativo) pareva invece consentirlo.

La dicotomia delle due norme – frutto irrisolto della duplice visone - apparve da subito evidente e insanabile tanto da indurre (dapprima la dottrina e poi la giurisprudenza) a riconoscere addirittura due tipi di “ristrutturazione” definita “pesante” quella che ammetteva integrazioni volumetriche e “leggera” quella che non le contemplava.

Strabismo di per sé infausto di cui ancor oggi scontiamo l’ambiguità.

Anche perché l’eventuale inserimento di una porzione nuova (il “quid novi”) porta inevitabilmente a trasferire nel campo del permesso la ristrutturazione pesante, mentre quella leggera resta nell’ambito della s.c.i.a.; dunque un’ulteriore ambiguità e possibilità di errore.

Se stiamo alla coerenza delle finalità “conservativa” del preesistente gli incrementi volumetrici non possono essere consentiti per ragioni urbanistiche.

Qualunque sia la percentuale di incremento è evidente che l’applicazione individuale (come tale incontrollata e incontrollabile a priori) porta ad uno squilibrio/insufficienza delle dotazioni territoriali che, in mancanza di un atto di pianificazione che ne regoli la variazione, non è affatto recuperabile tramite l’onerosità (come si vorrebbe far credere).

Sta di fatto che, per coerenza, gli unici incrementi volumetrici possibili sono quelli dell’ispessimento delle pareti per la creazione di cappotti termici (già normato in deroga da specifiche normative) escludendo qualsiasi altro incentivo che aumenti la “capacità” insediativa e, con essa, scardini l’equilibrio del rapporto: costruito/dotazioni territoriali.

Anche i “bonus” di varia natura vanno esclusi perché la loro incidenza (spesso anche superiore al 20% del preesistente) alterano l’equilibrio delle dotazioni territoriali.

E non si assuma a motivazione la finalità di “rigenerazione urbana” che è altra cosa e non si persegue con la ristrutturazione edilizia fai-da-Te per iniziativa privata occasionale e non coordinata.

 

6 - Il tabù della demolizione integrale

Altro elemento a lungo fonte di dibattito tra puristi e non, è stata la possibilità o meno di demolire integralmente l’edificio e poi ricostruirlo (magari con tecniche e materiali diversi e, perché no?, con i dovuti adeguamenti/miglioramenti strutturali e impiantistici).

Quando il Legislatore (nel DPR n. 380/01) lo ha espressamente previsto, sono sorti ulteriori aspetti interpretativi problematici che vedremo di dirimere ai paragrafi successivi con la stessa impostazione logica della conservazione dell’INVARIANZA urbanistica.

 

6.1 - I limiti alla traslazione del sedime

Se perseguiamo la congruità della norma con la finalità e garantiamo la costanza dei volumi e delle destinazioni può essere ammessa la demolizione totale e la ricostruzione a parità di volume anche cambiando sagoma e può essere ammessa anche la “modesta traslazione del sedime” se migliorativa.

Dove per “migliorativo” intendiamo non necessariamente l’adeguamento alle norme vigenti oggi, ma almeno un “avvicinamento”.

Traslare il sedime di per sé non comporta variazione del “carico urbanisticose sono rispettate alcune limitazioni, ovvero:

  • se la traslazione resta all’interno del lotto originario
  • se la traslazione resta all’interno della stessa “zona omogenea”, perché uscendo da questa altereremmo l’invarianza urbanistica delle dotazioni territoriali (un po’ come si fa per la cessione di cubatura).

 

6.2 - Il prospetto e la sagoma

Va da sé che il prospetto è ininfluente per la definizione del carico urbanistico e così anche la sagoma.

La sagoma preesistente può però aver consolidato diritti acquisiti (perché di questo si tratta quando si ricostruisce), ovvero eventuali posizionamenti legittimi all’epoca della realizzazione, ma divenuti oggi in contrasto con subentrate normative (si pensi alle distanze tra edifici o alle altezze che – pur essendo parametri apparentemente edilizi – hanno evidente rilievo urbanistico sulla forma della città).

Le considerazioni di ammissibilità si spostano allora sul piano dei diritti e non tanto della pianificazione.

 

6.3 - I diritti acquisiti su distanze e altezze oggi difformi

Ovvio che se l’involucro viene conservato il diritto permane; lo si perde se si demolisce e ricostruisce perché allora si diventa soggetti alle norme vigenti.

Nel passato si è assistito ad imbarazzanti infingimenti di mantenimento in essere di monconi di ruderi (peraltro pericolosi per l’esecuzione dei lavori) della cui mera strumentalità ai soli fini del mantenimento dei cosiddetti “diritti acquisiti” tutti erano a conoscenza (privati e pubbliche amministrazioni).

Sarà bene eliminare questi finti presupposti per conferire trasparenza e coerenza all’attività della Pubblica Amministrazione consentendoli per legge anche in caso di demolizione totale.

Se le norme attuali poi consentono distanze tra fabbricati o dai confini minori o altezze maggiori delle preesistenti, a queste si potrà adeguare la sagoma, a condizione però che non si superino mai quelle disposte per legge o per strumento urbanistico locale.

In buona sostanza potremmo dire che nella ricostruzione dovremo muoverci all’ìnterno di due sagome virtuali:

  • quella preesistente quando si vuol godere di diritti acquisiti sui parametri di altezze e distanze,
  • quella costituita dalle norme vigenti quando si vuole uscire dalla precedente.

Criterio, questo, che renderebbe giustizia dell’incongrua e contraddittoria formulazione dell’articolo 2-bis, comma 1-ter (cui la circolare interpretativa e alcune leggi regionali hanno tentato di dare coerenza lessicale, ma non logica).

Condizione di conservazione dei “diritti acquisiti” è che siano stati ottenuti legittimamente o, sarebbe meglio dire, non abusivamente, ovvero in base al titolo dovuto all’epoca di realizzazione.


6.4 - Edifici crollati o demoliti

L’apertura della possibilità di demolire e ricostruire ha aperto il tema della ricostruzione di edifici crollati per cause esterne alla volontà della proprietà, quali gli eventi calamitosi e, se vogliamo, anche gli eventi bellici anche se ormai risalenti ad oltre ottant’anni.

La conservazione/ricostruzione del pregresso crollato può rientrare nel concetto della “già avvenuta trasformazione del territorio” che abbiamo assunto a faro guida della interpretazione, a condizione di non risalire alle guerre puniche, ma porre un congruo termine temporale di retroattività.

In assenza del Legislatore il Giudice Amministrativo ne ha già perimetrato il confine. (V. InGenio: 08.02.2023 - Per gli edifici crollati il Consiglio di Stato circoscrive i confini della ristrutturazione ricostruttiva)

 

7 - La tutela delle specificità

L’attuale formulazione della norma contempla limitazioni alle operazioni fisiche attuabili con la ristrutturazione edilizia per gli edifici soggetti a particolari vincoli di pregio, di fatto delineando - all’interno della stressa norma - due diverse tipologie di ristrutturazione: quella per edifici “normali” e quella per edifici “speciali”.

Può sorgere legittima una domanda: chi tutela questi immobili se usiamo una definizione di ristrutturazione generica valida per tutti?

La domanda però può essere invertita: perché riportare queste limitazioni nella definizione della tipologia di intervento, visto che tali diversificazioni e limitazioni non esistevano ab origine?

Se ripercorriamo la genesi della norma si potrà ben rilevare che nella stesura originaria dell’articolo 31 della legge n. 457/78 la definizione di ristrutturazione era indipendente dalla tipologia dell’edificio e da eventuali vincoli posti a tutela di specifici pregi (vuoi architettonico-culturali o storico-artistici o di posizione all’interno di zone di valenza paesaggistica) e così è rimasta fino al 2013.

Concettualmente era corretto così, perché la definizione della tipologia di intervento non può essere condizionata nella sua definizione dal tipo di edificio su cui si esercita. L’operazione “fisica” è la stessa.

Semmai è compito della pianificazione urbanistica consentire o meno che quella tipologia di intervento si possa esercitare su determinati edifici meritevoli di esclusione. Limitazione imponibile legittimamente dal piano regolatore in quanto scaturente da vincolo di natura conformativa gravante sul singolo edificio.

Tant’è che oltre alla ristrutturazione edilizia esiste un’altra categoria di intervento più consona al rispetto di pregi particolari che è il “restauro e risanamento conservativo” della lettera c) dello stresso articolo 3 del DPR n. 380/01. (Per inciso non è strano che mentre la ristrutturazione edilizia ha subìto innumerevoli stravolgenti forzature, il restauro e risanamento conservativo è rimasto pressoché inalterato dal 1978 con l’unica modesta modifica operata dall'art. 65-bis della legge n. 96 del 2017 ?)

In ogni caso è pacifico che vincoli specifici conseguenti a norme specifiche (di legge o di piano) prevalgono sulla categoria di intervento e ne limitano le condizioni di applicabilità, per cui non viene mai meno la tutela laddove si effettuassero su di loro interventi di ristrutturazione.

Ad esempio se un immobile si trovasse in zona paesaggistica la regione (o il comune se delegato) e la competente Soprintendenza avrebbero potere di condizionarne con prescrizione motivata (e non generica di legge) il sedime, il prospetto, la sagoma, ….

Per cui :

  • o si affidano a queste norme di dettaglio le tutele di particolari pregi (com’era una volta)
  • o, se proprio si vuole, si formuli una nuova categoria di intervento (intermedia tra il “restauro e risanamento conservativo” e la “ristrutturazione”) in cui riportare quelle prescrizioni che attualmente affollano il 6° ed ultimo periodo dell’articolo 3 lett. d) del Testo Unico e che ne rendono criptico il testo.

 

8 - La proposta

Le considerazioni che precedono potranno apparire un passo indietro e sicuramente limitano le modalità di intervento oggi consentite (e per questo non saranno gradite), ma bisogna chiedersi se la norma deve favorire le forzature o essere coerente con i concetti.

Certo è che a forza di dilatarne i confini se ne perde la coerenza logica e se ne rende sempre più opinabile e indeterminata la lettura. La disamina effettuata potrà comunque essere utile a dare questa consapevolezza.

Riscritta entro il suo naturale perimetro la norma sarebbe ragionevole e comprensibile perché rispettosa dei criteri urbanistici e giuridici delle procedure e pertanto condivisibile, più facilmente applicabile e interpretabile laddove si ponessero problemi particolari, perché anche l’interpretazione andrebbe ricondotta al rispetto dei principi (inquadrando il particolare nel generale) e non affidandosi ai bizantinismi lessicali (tentando di risalire dalla forma alla sostanza).

Liberi di non farlo, ma allora rassegniamoci a che la ristrutturazione sia sotto costante esame della magistratura, e non solo di quella amministrativa.

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Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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