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Habitus e architettura: la dimensione invisibile del vivere sociale

Il modo in cui viviamo e interpretiamo gli spazi architettonici non è mai neutro: è influenzato da strutture culturali e sociali profonde, spesso invisibili. Pierre Bourdieu, tra i più influenti sociologi del Novecento, ha chiamato questo insieme di disposizioni interiori “habitus”. Comprendere questo concetto è fondamentale per chi progetta città e architetture: significa riconoscere che ogni spazio genera – e subisce – relazioni sociali. In questo articolo, Andrea Dari esplora come l’habitus influenzi la percezione degli ambienti costruiti, e come gli architetti possano – e debbano – tenerne conto per generare inclusione e benessere collettivo.

Habitus

La parola habitus deriva dal latino “habere”, che significa avere, possedere, mantenere qualcosa come parte di sé.

Nel corso del tempo, il significato della parola si è evoluto per indicare abitudini, modi di essere, comportamenti e inclinazioni che contraddistinguono individui o intere comunità.

Dal punto di vista filosofico e sociologico, il concetto di habitus è stato esplorato in profondità da Pierre Bourdieu, sociologo francese che lo ha reso un punto di riferimento fondamentale per capire come le persone interagiscono con la società. Secondo Bourdieu, l’habitus è un insieme di disposizioni mentali e comportamentali che acquisiamo nel corso della vita, soprattutto nell’infanzia, e che guidano inconsapevolmente il nostro modo di percepire il mondo, prendere decisioni e agire quotidianamente.

Pierre Bourdieu

Pierre Bourdieu (1930–2002) è stato un sociologo francese tra i più influenti del XX secolo. Ha introdotto concetti fondamentali come habitus (schemi interiorizzati di comportamento), campo (spazi sociali con regole e gerarchie proprie) e capitali (economico, culturale, sociale, simbolico). Con questi strumenti ha spiegato come le disuguaglianze sociali si riproducano in modo invisibile e legittimato. Celebre per opere come La distinzione e La riproduzione, ha analizzato in profondità scuola, arte, politica e potere. Al centro del suo pensiero, la violenza simbolica: il dominio esercitato attraverso la cultura e il linguaggio, che rende naturali le disuguaglianze.

Queste disposizioni sono influenzate fortemente dal contesto sociale, culturale ed economico nel quale cresciamo e viviamo.

L’habitus è come una sorta di bussola invisibile che orienta continuamente le nostre scelte, gusti e preferenze, anche se non ne siamo del tutto consapevoli. È ciò che fa sì che persone provenienti da ambienti sociali diversi interpretino e vivano lo stesso spazio o la stessa situazione in modi differenti.

Per gli architetti, gli urbanisti, chi si occupa di progetto e gestione delle città, comprendere questo aspetto è essenziale. Infatti, quando si progetta uno spazio, non si stanno solo definendo volumi e funzioni, ma si sta plasmando la vita delle persone che vi entreranno in contatto. L’habitus è ciò che determina come un individuo interagirà con uno spazio architettonico, influenzandone profondamente l’uso e il significato che gli attribuirà.

Immaginiamo, per esempio, due quartieri con realtà sociali molto diverse: uno popolare, vivo di incontri spontanei, di scambi immediati e pragmatici, e uno più elitario, con esigenze maggiormente orientate verso la rappresentazione dello status e la cura dell’estetica. In entrambi i casi, anche progettando spazi simili come piazze o centri culturali, il modo in cui le persone si relazioneranno a questi spazi sarà profondamente diverso. Nel quartiere popolare prevale un uso concreto e funzionale dello spazio, con scambi frequenti, informali e dinamici. Nel quartiere più ricco o esclusivo, invece, lo spazio potrebbe assumere un ruolo più formale, dove l’interazione sociale è regolata da norme tacite più rigide, e dove prevale un senso di ordine e rappresentazione.

Dal punto di vista filosofico, l’habitus mostra come ogni scelta individuale sia condizionata da strutture sociali e culturali più ampie, generando una relazione dinamica tra individuo e società. Questo implica inevitabilmente una dimensione di potere: infatti, chi riesce a definire e influenzare l’habitus collettivo detiene una forma sottile e profonda di potere simbolico. Tale potere si esercita non attraverso l’imposizione esplicita, ma tramite la definizione delle norme sociali, delle aspettative e dei valori condivisi.

Per gli architetti, quindi, comprendere l’habitus significa anche diventare consapevoli del proprio ruolo di mediatori di questo potere simbolico. Progettare spazi significa esercitare un’influenza sulle dinamiche sociali e culturali, promuovendo o limitando certe forme di interazione e comportamento. Sviluppare consapevolmente questa sensibilità consente agli architetti di creare spazi capaci non solo di rispondere a esigenze tecniche, ma anche di generare benessere sociale e culturale, favorendo l’inclusione e la partecipazione.

Riconoscere e valorizzare l’habitus nella progettazione significa dunque umanizzare l’architettura, rendendola sensibile ai reali bisogni e aspettative delle persone. Significa costruire spazi che non siano semplicemente belli o funzionali, ma che riflettano e rispettino profondamente la vita sociale che li anima, utilizzando responsabilmente la propria capacità di influenzare positivamente la vita della comunità.

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