Femia: "Rigeneriamo le scuole rendendole il baricentro delle città, il modello ideale è un Campus aperto"
Ripensare la scuola italiana non solo dal punto di vista didattico, ma anche degli spazi in modo tale che possano agevolare l'apprendimento per gli studenti e allo stesso tempo fungere da cuore pulsante per lo sviluppo delle città.
Così è nato il progetto nazionale “Scuola Social Impact” che traccia uno scenario futuro innovativo: i plessi come nuova spina dorsale di tutte le scelte urbanistiche delle città. Avranno spazi più ampi, interagiranno intensamente con il contesto urbano e le aule saranno flessibili: non più unità precise ma grazie a pareti mobili, diventeranno ambienti che, durante la giornata, potranno variare a seconda degli usi.
Il progetto, coordinato dall'Architetto Alfonso Femia, è oggi descritto in un volume acquistabile online che sintetizza in dieci punti il possibile percorso volto a ripensare il sistema scolastico italiano. Un piano da condividere con tutti gli attori che gravitano intorno al mondo della scuola: soggetti istituzionali, fondazioni private e amministrazioni locali.
Alfonso Femia - ©Daniel Banner
Il progetto Scuola Social Impact
Architetto Femia, com’è nato il progetto «Scuola Social Impact - Facciamo ripartire il Paese dalla Scuola» che lei ha coordinato?
«Quando è scoppiata la pandemia e sono iniziati i lock down, noi architetti siamo stati chiamati a riflettere sulle nuove esigenze abitative, sulle conseguenze del lavoro a distanza e, più in generale, sulla trasformazione della città e degli spazi urbani. Eppure ritengo che ci siano temi più urgenti da affrontare come quello della scuola, l’unica vera funzione pubblica importante che ha avuto un impatto immediato sulla società perché riguarda il 15 per cento della popolazione. In più riguarda le giovani generazioni che vivono anni decisivi per la loro formazione. Riflessioni che si sposano con l’indagine che stiamo portando avanti e che riguarda il ritardo in cui versa la scuola italiana».
Quindi che tipo di analisi ha fatto?
«Abbiamo cominciato ad approfondire il tema della scuola non solo dal punto di vista architettonico, ma anche da quello tecnico, politico, economico, finanziario, sociale ed educativo. L’obiettivo è far capire che in questo momento storico occorre un intervento forte sulla scuola, guardando l’edificio come elemento capace di irrigare la città. Deve essere vista come il motore della rigenerazione perché capace di attivare processi virtuosi come la mobilità dolce, la sostenibilità ambientale e può fungere da ponte verso le zone verdi urbane. Occorre uscire dalla logica secondo cui le azioni sulla scuola debbano solo essere quelle volte all’efficientamento energetico e alla messa in sicurezza degli immobili, bisogna invece ripensare completamente un sistema che è fermo da 45 anni. Un periodo di tempo che ha visto numerosi cambiamenti, a esempio è venuta a mancare la spinta demografica di tanti anni fa, c’è una concentrazione di studenti nelle grandi città metropolitane, ma fuori dai grandi centri i bisogni sono differenti. La rivalutazione dei circa 40mila edifici scolastici deve tener conto di questo. Per non parlare dei pochi investimenti fatti: solo il 5-7 per cento dei plessi nuovi sono stati costruiti negli ultimi 21 anni e questo significa che siamo un Paese che da decenni non sta puntando sul proprio futuro».
Demolizione e ricostruzione per rinnovare il patrimonio edilizio scolastico
Il nostro patrimonio edilizio scolastico è datato, una scuola su due non ha il certificato di agibilità e benché metà degli istituti siano in zone a rischio tellurico, solo l’8 per cento degli edifici sono progettati secondo le normative antisismiche. Secondo lei come si dovrebbe intervenire, rattoppando o ricostruendo ex novo?
«Attualmente diverse iniziative puntano a intercettare i pochi fondi disponibili attraverso azioni che sono di demolizione e ricostruzione. Nell’ultimo anno, a esempio, sono stati indetti circa 40 concorsi di progettazione legati alla scuola che prevedevano queste operazioni per i plessi con più di 40 anni. Non sono grandi numeri ma questo ci fa capire che c’è una tendenza in atto secondo cui non è più possibile recuperare alcuni manufatti. Prendiamo il coraggio e scegliamo la strada più conveniente della demolizione e ricostruzione però l’importante è intervenire perché il nostro patrimonio edilizio scolastico non è più all’altezza. Il futuro di un Paese passerà sempre dalla formazione e, per questo motivo, va bene realizzare piste ciclabili, ma facciamole per collegare le scuole e i quartieri in modo da rendere sicuri i percorsi casa-scuola. Allo stesso modo, cominciamo a riqualificare i parchi e i giardini e le aree verdi anche a uso scolastico. Tutte azioni mirate a delineare il futuro del Paese e non causali».
Ma la scelta di demolire e ricostruire edifici non più recuperabili, a sua volta non pone il problema di dove accogliere gli studenti durante i lavori?
«È ovvio che bisogna immaginare fin da subito l’alternativa. In questo caso sarebbe quella di costruire un volume prefabbricato temporaneo, possibilmente realizzato a secco e in modo da poter essere smontato e riutilizzato per altri scopi. Per questo serve un progetto ampio che includa tutti questi aspetti che, a onor del vero, oggi sono relativamente semplici. È importante che attorno al tavolo sieda tutta la filiera: sia l’attore pubblico sia il privato. Le Fondazioni, a esempio, possono diventare dei finanziatori così come hanno fatto per la cultura e l’ambiente. Si può ipotizzare un processo complessivo dove capitali privati supportino progetti in cui lo Stato mantiene la sua funzione pubblica».
Complesso scolastico di Legnago - Atelier(s) Alfonso Femia ©Diorama/AF517
Il futuro della scuola? Un hub di servizi aperto alla città
Alla luce di queste considerazioni come si sviluppa il vostro progetto?
«Il nostro punto di partenza individua tre situazioni: la Scuola Circolare che si trova nei centri urbani e il cui valore va preservato, alcune volte si tratta infatti di edifici storici di pregio vincolati dalle Soprintendenze che potrebbero essere recuperati cambiando la loro destinazione d’uso. Invece altre volte, nel rispetto della filosofia della “Città dei 15 minuti”, dovrebbero essere recuperate. Poi c’è una grande fetta di edifici scolastici che rientrano nella categoria che noi chiamiamo “Scuola Città”, sono quelli situati nelle zone a contorno dell’area centrale e che sono prevalentemente da demolire e poi ricostruire come luoghi della didattica aperti a tutti. Infine, c’è la “Scuola Territorio” che potrebbe essere vista come un vero e proprio Campus, un sistema scuola/città in grado di innescare la qualificazione delle fasce periferiche in sofferenza».
La seconda categoria, quella che avete denominato «Scuola Città», prevede di aprire i luoghi della didattica ad altri usi. Perché bisogna tenere in considerazione questa possibilità?
«Secondo alcune stime, nei prossimi anni assisteremo a un calo significativo della popolazione studentesca. A esempio, per la Fondazione Agnelli, da qui al 2030 si perderanno circa un milione di studenti tra i tre e i 18 anni e questo calo demografico renderà i singoli edifici scolastici ancor più economicamente insostenibili per quanto riguarda gli aspetti manutentivi ed energetici. Ciò significa che in futuro una parte degli oltre 40mila immobili a oggi censiti, potrebbero diventare superflui, tuttavia, grazie a un attento processo di revisione si potrebbero innescare nuove economie, a esempio destinandoli ad altri usi da affiancare alla funzione didattica. A riguardo, i progetti di partenariato pubblico-privato potrebbero essere un programma strategico per mantenere in vita la scuola, oltre che a essere una soluzione finanziaria. Ritengo che così come si sta facendo per l’housing sociale, bisognerebbe fare un Fondo per la scuola che permetta automaticamente di innescare un meccanismo di finanziamento e di sviluppo del progetto a livello nazionale».
Secondo lei, in questo ultimo anno contrassegnato dalla pandemia, abbiamo perso tempo? Poteva essere un anno prezioso per cominciare a mettere in atto un progetto di questo tipo?
«Credo ci sia ancora tempo. Innanzitutto, si potrebbe cominciare a valutare il progetto come strategia su cui puntare per il rilancio del Paese, anche economico, perché demolire e ricostruire vuol dire mettere in moto attività che sono trasversali a una filiera molto importante. Un’azione di questo tipo, non riguarda solo l’edificio, ma vuol dire rispondere a tutti gli aspetti della vita. Il vero tema non era intervenire in questi mesi, ma poter fotografare la questione, ripartire con uno scenario che sia innovativo e credibile e agire sapendo che molti dei fondi a cui noi possiamo attingere non possono non puntare sulla scuola con una visione che la veda come la spina dorsale di tutta l’edificazione della città. In verità penso che stiamo perdendo tempo perché continuiamo a non vedere la scuola come il vero filo conduttore capace di tenere insieme tutti gli altri aspetti della vita. Se parliamo di smart working, ci riferiamo agli uffici e al mondo privato, se affrontiamo il tema delle smart house siamo nell’ambito dell’abitare, quindi, qual è la vera azione pubblica che attraversa tutti i cittadini? A parte gli ospedali, è la scuola, un ambito ampio, profondo, complesso e capillare. Se lei ci pensa bene, la prima vera azione di abbandono di un luogo, nasce quando si chiude una scuola. Per questo noi parliamo di “Scuola Social Impact”, perché va capito che il mondo scolastico ha un impatto sociale ed economico fondamentale, la scuola non è solo l’edificio in cui vanno a studiare i nostri figli».
La scuola post-pandemia dovrà essere pensata secondo nuovi criteri? Lei come la immagina?
«Sarà una scuola generosamente più ampia nei suoi spazi e con un’interazione forte con l’esterno. Poi con una flessibilità reale che, a esempio, renderà facile smontare delle pareti e che porterà a non considerare l’aula come una precisa un’unità di dimensione ma come ambiente che, durante la giornata, può variare accogliendo un numero diverso di persone».
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La sostenibilità economica della scuola
Il documento affronta anche il tema della sostenibilità economica della scuola che in termini progettuali dovrebbe essere pensata per un utilizzo più ampio, trasformando lo spazio fisico da monouso a multiuso con funzioni sociali, sportive o di coworking che vadano oltre la didattica. Come si possono immaginare questi edifici?
«Come hub urbani, come spazi che possono essere gestiti dai ragazzi e che loro stessi possono anche autoalimentare. La scuola dovrebbe essere vista come un edificio che possa funzionare 24 ore su 24, sette giorni su sette, come il baricentro che può accogliere attività diverse compreso anche il ritrovarsi a studiare il pomeriggio in spazi propri, un po’ come avveniva negli oratori di una volta. Bisognerebbe seguire la filosofia dei Campus che ora sono perlopiù immaginati per una fascia di studenti più grandi. Vedere la scuola solo come quel manufatto in cui si entra la mattina e si lascia nel corso della giornata non è più possibile. Il modello del Campus, con le dovute proporzioni, è l’idea di riferimento. Prendiamo a esempio il complesso didattico espositivo della Dallara Academy, un luogo di ricerca, di progetto, di incontro e di eccellenza, dove i ragazzi hanno la possibilità di vedere da vicino l’applicazione della fisica sulla macchina».
Rigenerare la scuola: quale modello?
Ma si può pensare a una scuola che funga da modello da estendere a tutte le realtà?
«Non bisogna inseguire una scuola modello, non esiste, è più corretto pensare ci siano 15, 16, 20 scuole modello perché il tema della scuola deve partire dal basso. Ogni situazione è diversa, essere capaci di declinare il progetto a seconda delle singole realtà è fondamentale, altrimenti si rischia di commettere un errore di presunzione».
Perché è sbagliato pensare a un modello della scuola?
«Perché la scuola non deve essere un volume catapultato in un contesto e offrire un solo servizio. La scuola ha un impatto sociale, non può radicarsi in un luogo senza tener conto delle esigenze locali, deve adattarsi, deve creare le giuste metamorfosi, nascere da un processo dialettico che deve partire dal basso. Se non si operasse così, delegheremmo al metodo un ruolo che sarebbe freddo e asettico e sarebbe un corpo rigettato. In alcuni contesti il progetto ha bisogno di un certo tipo di programma, soprattutto se si prevede la demolizione e la ricostruzione, o la possibilità di aggregare intorno all’edificio altre funzioni scolastiche che magari sono separate. Il tema è dare degli ingredienti e un approccio, poi però si deve avere la responsbilità di volerlo declinare nel contesto».
Ci sono realtà che hanno già cominciato a muoversi prendendo spunto dal documento?
«Sì, sono quelle che abbiamo coinvolto, hanno mostrato interesse le città di Livorno, Prato e Settimo Torinese, che hanno condiviso l’approccio e hanno provato a metterlo in atto».
Un’ultima riflessione Architetto Femia, secondo lei il Recovery Plan dovrebbe dedicare più attenzione al mondo della scuola?
«Certo, la scuola è la spina dorsale. Se vediamo il Next Generation EU come il piano Marshall dei nostri tempi, si deve intervenire anche sull’impatto sociale che avranno tali fondi. La scuola non produrrà direttamente dei redditi, ma può rimettere in circolo l’economia sociale».
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