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Etica e responsabilità, per gli interventi, come per i non interventi

“Fare, o non fare, questo è il problema…”

L’etica, come noto, “studia i fondamenti razionali che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status deontologico, ovvero distinguerli in buoni, giusti, corretti, etc., rispetto ai comportamenti ritenuti ingiusti, illeciti o sconvenienti, secondo dei modelli ideali di riferimento”.
L’etica dipende, oltre che dai modelli di riferimento, anche dalla capacità che ha, ognuno di noi, di sentirsi responsabile dei propri atti e delle proprie scelte, che comprendono non solo le scelte di fare, ma anche quelle di NON fare. Anche queste, infatti, sono delle scelte ben precise, e quello che NON facciamo, specie in determinate situazioni, ha rilevanza pari a ciò che invece, con scelta diversa, facciamo.
I possibili problemi derivanti dal NON fare sono ben noti, ad esempio, ai medici, che per cautelarsi seguono talvolta la via della cosiddetta “medicina difensiva”, prescrivendo esami diagnostici inutili (“medicina difensiva positiva”) ma che li tutelano di fronte alle possibili eventuali accuse di non aver fatto a sufficienza quanto dovevano, oppure evitano di occuparsi di determinati pazienti in casi ritenuti ad alto rischio (“medicina difensiva negativa”).
Le conseguenze di questi atteggiamenti sono gravi e rilevanti anche economicamente, e per questo lo Stato sta provvedendo in via legislativa, proprio in questo periodo, spinto principalmente da motivazioni economiche.
Anche noi ingegneri conosciamo bene i problemi che possono derivare dal NON fare. Ad esempio, quando siamo chiamati a valutare situazioni di rischio e omettiamo di indicare o di prescrivere, ove chiaramente necessari, provvedimenti di messa in sicurezza, possiamo essere chiamati a risponderne.
D’altra parte, anche una “ingegneria difensiva”, con eccessi di cautela o astensioni dal fornire il nostro apporto, avrebbe effetti socialmente insostenibili. Basti pensare alle verifiche sismiche di edifici rilevanti o strategici, a valle delle quali potremmo determinare la chiusura di scuole ospedali, etc., con conseguenze facilmente immaginabili, oppure alla eventuale nostra NON disponibilità a compiere quei sopralluoghi fondamentali per le agibilità nelle emergenze post sismiche.
In ogni caso, qualsiasi sia la professione esercitata, è evidente che ogni scelta di fare o di NON fare implica sempre delle assunzioni di responsabilità, sia per quello che facciamo che per quello che omettiamo di fare.
Per quanto riguarda le responsabilità conseguenti al fare interventi di consolidamento, le cose sono chiare e molti sono gli esempi di errori passati per i quali la categoria degli strutturisti viene chiamata ancor oggi a rispondere, almeno in senso morale (ma non solo).
Dai ferri di Balanos nel Partenone, sino alla sistematica sostituzione, negli anni scorsi, di solai e coperture lignee con massicci elementi in cls armato in edifici con murature meccanicamente “povere” (tecnica disgraziatamente ancora presente, almeno in certe zone); dall’inserimento di pesanti cordoli sommitali in cls armato in chiese ed altre costruzioni monumentali, all’uso indiscriminato di iniezioni cementizie, micropali, etc etc.
In alcuni casi, gli effetti di questi interventi sono stati devastanti e i colleghi restauratori, come anche i funzionari di Soprintendenze o i conservatori dei beni artistici, non perdono occasione per ricordarcelo….
Dato che etica significa anche riconoscimento di responsabilità, non possiamo far altro che ammettere quegli sbagli, originati da una grave mancanza di conoscenza dell’effettivo comportamento meccanico delle costruzioni murarie e delle loro vulnerabilità.

Questa ignoranza ha portato, in particolare negli anni ’80 e ’90, ma non solo, a pensare che fossero utili ed efficaci talune tipologie di intervento mutuate, con ben poca riflessione critica e nessuna sperimentazione, dalle costruzioni in cemento armato, ed “imposte” attraverso strumenti normativi cogenti o circolari amministrative (di fatto, almeno per le ricostruzioni post sismiche, altrettanto cogenti).
Senza voler sminuire la gravità e la portata di questi errori, si dovrebbe ricordare che, considerando nel suo complesso la totalità degli interventi di consolidamento, nelle varie declinazioni attuative, questi, in un numero di casi tutt’altro che trascurabile, hanno contribuito a salvare, in fase di sollecitazione sismica, sia le costruzioni che le persone che ne fruivano.
Negli ultimi anni, comunque, la situazione è cambiata in modo radicale e la stessa normativa tecnica ha finalmente recepito quei princìpi fondamentali che in realtà erano ben noti già qualche secolo fa prima di disperdersi (nella prima metà del 900) nel travolgente fervore innovativo dei nuovi materiali, quali l’acciaio e soprattutto il conglomerato cementizio armato.
Ci si riferisce ai princìpi della sicurezza muraria connessi ad una corretta valutazione della qualità muraria, dei collegamenti che caratterizzano l’assemblaggio delle varie pannellature, dell’analisi dei possibili cinematismi, dell’affermazione della mancanza, in un edificio murario storico, di un comportamento strutturale di tipo globale, etc.
Tenendo poi ben presente la lezione più importante consegnataci dalla antica regola dell’arte edificatoria: la rigorosa applicazione del principio del minimo intervento, che rifuggiva da qualsiasi ridondanza nell’impiego di materiali, e nel loro assemblaggio.
Quanto detto vale per gli edifici ordinari, ma anche e soprattutto per il costruito storico e monumentale, per il quale sono in vigore da qualche tempo le “Linee Guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale” (in seguito indicate, per brevità, come “Linee Guida”) che indicano in modo chiaro ed esplicito i criteri da seguire sia per l’analisi che per gli interventi, laddove questi risultino necessari.

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