Etica della relazione nel lavoro in team: la buona comunicazione
Oggi è dunque poco frequente che il lavoro dell’ingegnere si realizzi senza una collaborazione con altri: si pensi alla realizzazione di progetti e documenti, che richiede più coautori; o alla responsabilità condivisa nella gestione dei lavori. Nel concetto di professionalità rientrano pertanto una serie di abilità relazionali e comunicative, così come nell’etica del lavoro è compresa anche un’etica della relazione.
La figura dell’artifex polytechnicus, caratteristica del Rinascimento, che riuniva in sé le competenze dell’ingegnere, dell’architetto e del contabile, insieme a doti filosofiche, letterarie e artistiche, è ormai irrealizzabile. La mole di conoscenze, la complessità delle procedure, la diversificazione dei metodi rendono inevitabili e necessari la specializzazione e il lavoro in team. Tra chi firma un progetto e chi lo collauda c’è una lunga catena di figure intermedie, che risultano indispensabili alla sua realizzazione.
Oggi è dunque poco frequente che il lavoro dell’ingegnere si realizzi senza una collaborazione con altri: si pensi alla realizzazione di progetti e documenti, che richiede più coautori; o alla responsabilità condivisa nella gestione dei lavori. Nel concetto di professionalità rientrano pertanto una serie di abilità relazionali e comunicative, così come nell’etica del lavoro è compresa anche un’etica della relazione.
Il team o squadra si distingue dal semplice gruppo: quest’ultimo è un insieme di due o più individui che interagiscono e dipendono gli uni dagli altri per il raggiungimento di un obiettivo comune. Il team, invece, è una forma particolare di gruppo in cui ciascuno ha compiti e attività ben definite, ruoli determinati e impegno adeguato per ottenere un risultato condiviso. E’ noto il detto che “con il talento si vincono le partite, ma è con il lavoro di squadra e l’intelligenza che si vincono i campionati”. Nella squadra le risorse del singolo sono finalizzate all’obiettivo comune e non al raggiungimento di una soddisfazione o di un utile personale. O meglio: la soddisfazione personale diventa la diretta conseguenza dell’impegno in vista dello scopo comune. Come recita il detto, non è una sola partita a garantire la vittoria, ma lo sforzo prolungato, che spesso richiede anche saper subordinare un risultato immediato a uno meno accessibile ma più solido.
Un’etica della relazione nel lavoro di squadra esige la messa in gioco di diverse qualità e abilità relazionali, per instaurare e conservare uno stile di collaborazione orientato al miglioramento di ciascuno. Lo scopo, infatti, non è soltanto l’efficienza e il risultato tecnicamente ineccepibile, ma la crescita umana di chi è coinvolto in quel progetto. Come ha osservato lo psichiatra Viktor Frankl, l’uomo è l’unico essere che non può agire senza migliorare o peggiorare. In altri termini, non vi è nessun fare, nessuna attività, che non sia anche un agire, ossia un’azione eticamente connotata, che rende migliore o peggiore chi la svolge, a seconda degli obiettivi che egli si pone e del modo di realizzarla. Questo esito che viene chiamato “effetto feed-back”, per cui l’agire retroagisce sul soggetto che lo compie, è anche il motivo della soddisfazione personale, o al contrario della profonda frustrazione, che si prova nel proprio lavoro, indipendentemente dal riconoscimento esterno in termini di profitto o di successo.
In un’etica del lavoro in team riveste una speciale importanza la buona comunicazione. Non soltanto la comunicazione efficace, ma la comunicazione buona, ossia orientata alla verità di ciò che va detto o, in caso contrario, va taciuto. Si pensi al ruolo della parola e del silenzio, alle modalità comunicative di volta in volta adottate, che possono essere più o meno rispettose degli altri e rispecchiare in misura maggiore o minore la realtà dei fatti. La chiarezza, la concisione, la veridicità sono aspetti degli atti comunicativi che garantiscono un autentico clima di collaborazione. Al contrario, la leggerezza nel parlare, l’approssimazione nell’informare, la reticenza impediscono una reale comunicazione, creando barriere nei confronti degli altri. Anche un’informazione prolissa e intenzionalmente equivoca ostacola la ricezione del messaggio e risulta ingannevole. Il buon comunicatore si preoccupa non soltanto di trasmettere con chiarezza un messaggio, ma cerca anche di accertarsi che sia compreso nei giusti termini. Si pensi alla responsabilità nella comunicazione del rischio, che deve cercare sempre un equilibrio tra l’allarmismo ingiustificato e la sottostima del pericolo. L’ingegnere e scrittore Carlo Emilio Gadda, dopo aver dichiarato che la bella lingua italiana “è fatta per non dire”, descrive con ironia l’ambiguità di un parlare oscuro e volutamente ambiguo: “cominciare col sì, rincalzare col già, continuare col però, soprassedere col ma, finire col no, concludere col non si sa”.
Nella collaborazione è talvolta necessario anche il silenzio, nonostante tacere sia oggi spesso considerato come espressione di incompetenza o di debolezza. Nell’epoca del dialogo a oltranza e dell’informazione a tutti i costi sembra che ad avere la meglio sia la parola, la capacità di dire e di intervenire. Il silenzio finisce col risultare quasi imbarazzante, come uno spazio vuoto da riempire quanto prima; chi “resta senza parole” appare perdente rispetto a chi “ha sempre la risposta pronta”. Eppure il silenzio rappresenta l’orizzonte irrinunciabile senza il quale le parole non troverebbero spazio. Non è assenza di comunicazione; anzi, è il ritmo parola-silenzio ad assicurare il significato di ogni discorso. Il silenzio è una forma di linguaggio ed è condizione indispensabile perché ogni parlare abbia senso: chi parla fa tacere gli altri, assicurandosi il loro ascolto attraverso il silenzio; chi tace sta prestando attenzione, facendo spazio dentro di sé alle parole dell’altro. Tuttavia non è facile distinguere quando è bene che qualcosa resti non detto e quando invece tacere sarebbe complicità, opportunismo o segno di omertà. Il silenzio complice, che si serve del non detto come alibi per fuggire dalle proprie responsabilità; il silenzio giudicante, che esprime disapprovazione, ma rifiuta di trasformarsi in aiuto, per il timore di complicarsi la vita; il silenzio evasivo, di chi non fa domande per non sapere o di chi non risponde per non essere costretto a spiegare sono tutte forme banali di silenzio, nelle quali il tacere è un ponte levatoio che viene sollevato per non compromettersi nella relazione e per difendere la propria sicurezza. Il silenzio autentico è invece discrezione e prudenza: dal rispetto della privacy alla custodia del segreto professionale, il silenzio è l’indispensabile ingrediente di una buona comunicazione.