Equo compenso, Consiglio di Stato: ok ai bandi pubblici senza corrispettivi, la "gloria" è sufficiente
Secondo Palazzo Spada, la pubblica amministrazione può emettere bandi che non prevedano compensi per i professionisti. Solo qualora lo prevedano, va rispettata la normativa sull'equo compenso
La norma sull’equo compenso significa solo che “laddove il compenso sia previsto, lo stesso debba necessariamente essere equo”. Ma nulla vieta che esso non sia previsto.
Tradotto: se un professionista accetta di 'lavorare gratis, solo per la gloria', è un problema "suo", non della PA, che deve rispettare l'equo compenso SOLO quando un compenso è previsto.
Queste le conclusioni sono contenute nella sentenza 7442/2021 del 9 novembre scorso del Consiglio di Stato, dove di fatto si sottolinea che:
- se il bando prevede un compenso, questo deve essere equo;
- non può ricavarsi dalla disposizione l'ulteriore (e assai diverso corollario) che lo stesso compenso debba sempre essere previsto.
In conclusione: la PA può emettere bandi che non prevedano compensi per i professionisti.
La cronistoria
Questa è la 'pronuncia finale' legata a un vecchio bando del MEF (marzo 2019) effettivamente annullato dal Consiglio di Stato con sentenza 3015/2019. Attenzione però: alla base dello stop non c'era una violazione della norma sull'equo compenso ma una mancanza nei criteri di trasparenza nel processo di selezione previsto dal bando.
La questione sull'equo compenso, quindi, è al centro della sentenza odierna, nella quale in primis Palazzo Spada circoscrive l'oggetto del contendere. Gli Ordini professionali ricorrenti lamentano, nella sostanza, tre ordini di questioni:
- a) la violazione delle norme poste a presidio del decorso e della dignità della professione forense;
- b) la violazione delle norme e dei principi, anche europei, in tema di onerosità dei contratti pubblici;
- c) la violazione delle norme poste a garanzia della efficienza e del buon andamento dell’azione amministrativa.
Per quanto riguarda il profilo sub a), essi richiamano sia le disposizioni di rango costituzionale (art. 36), sia quelle di rango primario (art. 13-bis comma 3 della legge 247/2012, inserito dall’art.19-quaterdecies del DL 148/2017), nella parte in cui prevedono, rispettivamente, il diritto del professionista alla retribuzione commisurata alla quantità e qualità del lavoro prestato, e l’obbligo anche per le Pubbliche Amministrazioni di garantire il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese da professionisti in esecuzione di incarichi conferiti.
Ad avviso della Sezione, nessuno degli assunti difensivi appena sintetizzati va condiviso.
Lavoro retribuito e prestazione gratuita sono due cose diverse
Palazzo Spada evidenzia che la normativa di cui gli appellanti invocano l’applicazione riguarda fattispecie giuridiche del tutto differenti da quella che è oggetto del presente contenzioso, sia in relazione ai presupposti applicativi, sia con riguardo alle conseguenze giuridiche che i medesimi vorrebbero trarne.
La disposizione è chiaramente costruita intorno al presupposto di fatto (che non sussiste affatto nella fattispecie all’esame) che il lavoratore presti un’attività lavorativa che è (o che deve essere) necessariamente retribuita per potere soddisfare le esigenze minime, basilari, irrinunciabili di vita, per sé o per la propria famiglia.
Nell’ordinamento non è rinvenibile alcuna disposizione che vieta, impedisce o altrimenti ostacola l’individuo nella facoltà (essa sì espressione dei diritti di libertà costituzionalmente garantiti) di compiere scelte libere in ordine all’an, al quomodo e al quando di impiegare le proprie energie lavorative (materiali o intellettuali) in assenza di una controprestazione, un corrispettivo o una retribuzione anche latamente intesa.
Nel caso di specie, invece, l’adesione del professionista, all’invito ad offrire contenuto nell’avviso impugnato, reca indubbiamente - a chi ha la volontà, il tempo, il modo e la possibilità (oltre alla capacità professionale) di svolgere la consulenza richiesta - una sicura gratificazione e soddisfazione personale per avere apportato il proprio personale, fattivo e utile contributo alla “cosa pubblica”.
L'equo compenso
Irichiamo alla disciplina dell’equo compenso di cui all’art. 13-bis, comma 3, legge n. 247/2012, inserito dall’art 19-quaterdecies del DL 148/ 2017 è questione che non rileva specificamente per definire la fattispecie in decisione.
Attenzione al passaggio cruciale, questo:
- la normativa sull’equo compenso sta a significare soltanto che, laddove il compenso sia previsto, lo stesso debba necessariamente essere equo, mentre non può ricavarsi dalla disposizione l’ulteriore (e assai diverso corollario) che lo stesso debba essere sempre previsto (a meno di non sostenere, anche in questo caso, che non vi possa essere alcuno spazio per la prestazione di attività gratuite o liberali da parte dei liberi professionisti);
- il riferimento soggettivo previsto dall’art. 13-bis cit. alla “pubblica amministrazione” e quello oggettivo agli “incarichi conferiti” stanno piuttosto a significare - a tutela del professionista - che il compenso deve essere equo e che l’interesse privato non può essere sacrificato rispetto a quello pubblico e generale fino al punto di travalicare – nel bilanciamento dei contrapposti interessi - l’equità della remunerazione;
- la disposizione non esclude il (e nemmeno implica la rinuncia al) potere di disposizione dell’interessato, che resta libero di rinunciare al compenso – qualunque esso sia, anche indipendentemente dalla equità dello stesso – allo scopo di perseguire od ottenere vantaggi indiretti (come nel caso che ci occupa) o addirittura senza vantaggio alcuno, nemmeno indiretto, come tipicamente accade nelle prestazioni liberali (donazioni o liberalità indirette).
Non c'è violazione del Codice dei Contratti
Per quanto concerne il profilo sub b), la Sezione ritiene che il giudice di prime cure abbia correttamente escluso la violazione della disciplina dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 150/2016 e delle linee guida dell’ANAC n. 12 sull’affidamento dei servizi legali.
Le caratteristiche del bando, infatti, non corrispondono ad alcuno degli elementi costitutivi e caratterizzanti il rapporto di lavoro autonomo o l’affidamento mediante appalto dei servizi legali.
Il rapporto di lavoro autonomo per le PA è ammissibile solo se sussistono i presupposti indicati dall’art. 7 comma 6 e comma 6-bis del d.lgs. 165/2001.
Efficienza e buon andamento dell’azione amministrativa
La Sezione ritiene che il profilo sia fondato nella parte in cui lamenta la violazione delle regole che presiedono all’imparzialità dell’azione amministrativa, sia sotto l’aspetto della formazione dell’elenco da cui attingere per i futuri affidamenti di incarichi, sia in relazione ai criteri da applicare di volta in volta per attribuire specificamente gli incarichi ai professionisti.
In definitiva, alla luce delle considerazioni appena illustrate, l’appello va accolto limitatamente alla censura di difetto di istruttoria e di motivazione e soltanto circa l’aspetto concernente la formazione dell’elenco dei professionisti e l’affidamento degli incarichi, mentre va respinto per il resto.
LA SENTENZA INTEGRALE E' SCARICABILE IN FORMATO PDF PREVIA REGISTRAZIONE AL PORTALE