Direttiva Case Green: chi paga, o, meglio, come si fa?
L’articolo analizza la Direttiva Case Green (EPBD IV), evidenziando gli obiettivi di efficienza energetica e le implicazioni economiche per il patrimonio edilizio. Vengono approfonditi i costi, i benefici e le strategie di finanziamento per rendere sostenibile la transizione energetica, con particolare attenzione alle famiglie e agli edifici residenziali.
La Direttiva Case Green: obiettivi e scadenze
Come è oramai noto, dopo un lungo dibattito tra le parti ed un estenuante iter approvativo, lo scorso 8 maggio è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea la nuova direttiva sull’efficienza energetica degli edifici (Energy Performance of Building Directive), e cioè la EPBD IV, comunemente definita “Case Green”.
Gli Stati membri dovranno recepire la Direttiva entro la prima metà del 2026, predisponendo piani nazionali di ristrutturazione energetica degli edifici residenziali e non residenziali, sia pubblici che privati.
L’obiettivo principale della Direttiva consiste nel delineare i principi, gli strumenti e le strategie che dovrebbero consentire, entro il 2050, di avere un patrimonio edilizio europeo ad emissioni zero.
In definitiva, si tratta di misure volte ad aumentare l’efficienza ed abbattere i consumi da combustibili fossili degli edifici dell’Unione.
Efficienza energetica e consumi: il peso degli edifici esistenti
L’atto di indirizzo del Parlamento Europeo distingue innanzitutto tra edifici di nuova costruzione, che entro il 2030 dovranno passare progressivamente dal livello “ad energia quasi zero” a quello “ad emissioni zero”, ed edifici esistenti, che dovranno ridurre significativamente i relativi consumi.
Questi ultimi, a dire il vero, sono quelli che destano maggiori preoccupazioni per le implicazioni economiche che comporta inevitabilmente la loro riqualificazione. Prova ne è il quesito (a nostro avviso tendenzioso) che serpeggia negli ultimi mesi in tutta Europa, ma soprattutto in Italia: “chi paga?”.
A ben guardare, in un Paese come il nostro, in cui la spesa energetica si aggira attualmente intorno ai 60 miliardi di euro all'anno , i consumi degli edifici pesano per più di un terzo, circa il 75% del fabbisogno nazionale è coperto dalle importazioni di combustibili fossili dall’estero e le bollette sono sempre meno sostenibili, la domanda corretta dovrebbe piuttosto essere “come si fa?”.
Innanzitutto, al fine di disinnescare prematuri allarmismi, è opportuno richiamare l’Articolo 8 della Direttiva, che specifica che “i requisiti minimi di prestazione energetica [dovranno essere] fissati per quanto tecnicamente, funzionalmente ed economicamente fattibile”. Cioè, in parole povere, dovrà essere verificata la reale fattibilità tecnico-economica delle strategie e degli interventi di riqualificazione previsti, tutelando gli interessi dei soggetti coinvolti (e quindi, soprattutto, dei privati).
A questo proposito, inoltre, nel medesimo articolo si specifica che gli Stati dovranno adottare “misure finanziarie adeguate, in particolare quelle destinate alle famiglie vulnerabili, alle persone in condizioni di povertà energetica o, se del caso, che vivono in alloggi di edilizia popolare”.
Nel testo della Direttiva, gli obiettivi di riduzione dei consumi del patrimonio esistente non sono, a prima vista, di semplice interpretazione, ma in realtà le difficoltà sono più che altro linguistiche e possono essere facilmente superate.
Si distingue innanzitutto tra edifici non residenziali e residenziali.
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Le prospettive per gli edifici non residenziali
Per i primi, dovranno essere fissati dei requisiti minimi e progressivi di prestazione energetica (soglie di consumo, copertura da fonti rinnovabili) che dovranno essere rispettati a partire dal 2030 con un’ulteriore diminuzione a partire dal 2033, in maniera tale da efficientare, alla fine, almeno il 26% dell’intero parco non residenziale caratterizzato dalle prestazioni peggiori.
Il che, stando alle condizioni generali dei nostri immobili, pare un obiettivo tutt’altro che irraggiungibile.
Se si considerano poi il carattere prevalentemente commerciale o pubblico di questi edifici, il relativo gravame delle spese energetiche e le economie di gestione che di buona norma dovrebbero esservi applicate, si può affermare che in questo caso si tratterebbe di veri e propri investimenti, con tempi di ritorno mediamente rapidi.
Oltretutto, per quanto riguarda specificamente il patrimonio immobiliare pubblico (e le consuete difficoltà burocratico-amministrative che ne rendono solitamente estremamente difficoltoso l’ammodernamento), si deve rilevare come nuove opportunità di finanziamento (si vedano ad esempio i programmi per l’efficientamento energetico degli edifici pubblici previsti nell’ambito del PNRR o i partenariati pubblico-privato ) forniscano un nuovo e concreto slancio per la fattibilità degli interventi necessari.
Le prospettive per gli edifici residenziali
Per gli edifici ad uso abitativo la situazione è decisamente più complessa e patisce del coinvolgimento diretto dei privati, giustamente preoccupati per le loro finanze.
In questa sede, quindi, cercheremo di fare chiarezza proprio sulle sorti prospettate per questa parte maggioritaria (circa l’85%) del nostro patrimonio edilizio.
Sempre secondo la Direttiva, per gli immobili residenziali, partendo dai livelli del 2020, dovrà essere raggiunta una riduzione media (cioè su tutto il parco) del consumo di energia primaria almeno del 16% entro il 2030 e del 20-22% entro il 2035.
A tal proposito si noti che, sulla base di un consumo totale del settore residenziale in Italia al 2020 pari a circa 350.000 GWh (il relativo 16% si aggira quindi intorno ai 56.000 GWh) e dei dati forniti da ENEA relativamente al risparmio ottenuto mediante tutti gli interventi finanziati con bonus edilizi tra gennaio 2020 e maggio 2024, pari a circa 29000 GWh/anno, si stima che attualmente il nostro Paese abbia già raggiunto approssimativamente il 52% dell’obiettivo fissato per il 2030.
Ne consegue che la riduzione residua si attesterebbe su valori all’incirca dimezzati rispetto alle prescrizioni EPBD.
Dal 2035 al 2050, poi, si dovrà garantire un progressivo calo del consumo medio in linea con l’obiettivo parco immobiliare ad emissioni zero.
Gli unici limiti imposti per il momento, dunque, sono quelli al 2030 ed al 2035, su cui si vuole focalizzare in questa sede l’attenzione.
Innanzitutto, è opportuno evidenziare come le riduzioni citate (16-22%, senza volere tener conto cautelativamente dei risultati già conseguiti) siano di carattere medio e quindi non necessariamente riferibili a tutti gli immobili, ma eventualmente ad una parte di essi, che potrebbe anche essere indirizzata verso obiettivi più ambiziosi.
Un facile esempio: su 100 edifici, 50 potrebbero realizzare una diminuzione dei consumi, ognuno del 44%, e 50 rimanere nelle medesime condizioni, ed il traguardo del 22% sarebbe comunque raggiunto.
La determinazione di obiettivi più stringenti sarebbe in ogni caso discrezionale, a seconda di specifiche valutazioni di convenienza e fattibilità.
Come dimostra la recente letteratura tecnico-scientifica a riguardo (si vedano le note all'interno del pdf), le operazioni di energy retrofit, se opportunamente pianificate e realizzate, si rivelano nella maggior parte dei casi economicamente vantaggiose.
Ad esempio, ricerche sperimentali, condotte dal Politecnico di Milano nell’ambito dei programmi europei Horizon hanno dimostrato che, attraverso interventi sinergici basati sull’impiego di un mix tecnologie tradizionali ed innovative, è possibile ridurre dal 70 al 90% i consumi degli edifici esistenti, con tempi di ritorno degli investimenti tra i 15 e 20 anni.
Naturalmente, si tratta di obiettivi estremamente ambiziosi, che arrivano a toccare il livello ZEMB (Zero Emission Building) prospettato dalla Direttiva e superano ampiamente i requisiti in oggetto.
Se, però, si vuole estendere alla larga scala il ragionamento, si può fare riferimento all’esperienza del Superbonus, in cui il salto di 2 classi energetiche, necessario per accedere all’incentivo, si è tradotto mediamente in una diminuzione dei consumi del 40-50%.
Purtroppo nel caso specifico, come è noto, innegabili carenze organizzative e programmatiche, abbinate all’infelice situazione congiunturale ed all’insorgenza di scellerate logiche speculative, hanno avuto pesanti ripercussioni sui prezzi di mercato, impattando profondamente sui costi finali e quindi sui tempi di ritorno degli investimenti. Tale fenomeno non è inconsueto ed è già stato osservato in corrispondenza di altre campagne di incentivazione, in cui si è assistito al paradosso per cui il supporto economico pubblico destinato a favorire la convenienza di misure di efficientamento energetico è stato bilanciato con destrezza da un’impennata dei relativi prezzi.
Se non fosse già evidente, è comunque utile sottolineare come proprio i tempi di ritorno, e cioè il numero di anni in cui i risparmi dovuti ai minori consumi vanno a compensare le spese di ristrutturazione, rappresentino il nodo fondamentale della questione. Se è indubbio che la diminuzione della bolletta energetica sia un elemento facilmente monetizzabile, risulta tuttavia meno evidente quale sia l’orizzonte temporale che l’utente medio (ad esempio la famiglia italiana) è disponibile ad affrontare in relazione a questo tipo d’investimento.
Secondo ENEA , tempi di ritorno fino a 10-12 anni vengono considerati “di potenziale interesse per il mercato” (cioè abbordabili), con ovvia propensione per periodi inferiori.
A questo punto, pare opportuno scendere ad un livello di maggior dettaglio e delineare alcuni sintetici bilanci, in grado di illustrare le opportunità che possono essere associate alla nuova direttiva.
...CONTINUA LA LETTURA NEL PDF.
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