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Digitalizzazione: i Concorsi di Progettazione tra Common Data Enviroment, il Capitolato Informativo e ...

Come cambieranno i concorsi di progettazione nell'era della digitalizzazione ?

Come cambieranno i concorsi di progettazione nell'era della digitalizzazione ? basterà una piattaforma di raccolta di dati ? porterà a meccanismi diversi di remunerazione del progetto ?

Ecco alcune questioni e risposte a cui questo interessante articolo di Angelo Ciribini pone l'attenzione, con grande chiarezza.

Andrea Dari


Formalismo e Complessità nella Domanda Pubblica Digitale: i Concorsi di Progettazione tra l’Ambiente di Condivisione dei Dati, il Capitolato Informativo e il Documento di Indirizzo Preliminare

la digitalizzazione cambierà i concorsi di progettazioneÈ opinione comune presso i cultori dell’architettura che uno dei viatici decisivi per la «qualità» della stessa sia costituito dai concorsi di progettazione, la cui diffusione, in Italia, è sempre stata riconosciuta come insufficiente.

In particolare, si è spesso lamentata la carenza di professionalità specifiche e di strutture adeguate per la loro gestione, oltre che la debolezza di formule che non garantissero adeguatamente il riconoscimento in termini di remunerazione degli sforzi compiuti dai raggruppamenti ammessi allo stadio conclusivo, evitando, nella prima fase, dispendi eccessivi di risorse progettuali.

Poiché la digitalizzazione appare oggi quale fenomeno sempre più pervasivo, capace di trasformare l’essenza di numerosi risvolti del settore della costruzione e dell’immobiliare, sarebbe opportuno chiedersi in che modo ciò possa riguardare i concorsi di progettazione, che, allo stato attuale delle cose, sono ancora generalmente svolti in maniera tradizionale, introducendo la dimensione digitale vera e propria in maniera sostanzialmente superficiale e tardiva.

Non basta certo, infatti, ricorrere a una piattaforma che veicoli in termini per lo più passivi documenti digitalizzati per potersi dire il procedimento gestito con logiche autenticamente digitali, a iniziare dalla configurazione dei documenti programmatici per giungere all’operato della commissione giudicatrice.

In buona sostanza, la formulazione computazionale delle proprie richieste, articolate e analitiche, da parte di un committente professionale, in luogo di una serie nutrita di suggestioni corredate da scarni indicatori e parametri numerici, esigerebbe un grande sforzo di legittimazione agli organismi professionali impegnati nelle proposte progettuali, sia pure prodromiche, ma, nondimeno, decisive per l’economia della vita utile dell’opera.

Come si ribadirà più oltre, ciò non significa naturalmente che le suggestioni proposte dal committente debbano essere esclusivamente avanzate nella modalità poc’anzi descritta né che la dialettica tra le parti debba risolversi in meri accertamenti della conformità, bensì che a entrambi i soggetti, committenti e fornitori dei servizi di progettazione, serva adottare una diversa regola di ingaggio.

La digitalizzazione mette in questione la stessa essenza dell’architettura

Più oltre, occorre, peraltro, dire che la digitalizzazione mette in questione la stessa essenza dell’architettura (e lo statuto conseguente dell’architetto) in quanto paradossalmente permetterebbe di abilitarne effettivamente intenti, quali quelli «umanistici», spesso professati solo retoricamente.

Si tratta di comprendere come la modalità digitale obblighi i committenti e i progettisti a una legittimazione analitica delle opzioni proposte.

Testimonianza di ciò è la proposta provocatoria di coloro che immaginano che i firmatari del progetto possano essere in parte remunerati progressivamente solo dopo che l’opera, in uso, abbia offerto i riscontri positivi attesi da parte degli utenti effettivi.

Essa, peraltro, molto rivela, al netto della sua reale praticabilità, lo slittamento concettuale che si annuncia per il bene immobiliare e per la sua caratteristica di immobilità, connessa a quella di tangibilità, dato che queste ultime introducono al ruolo della finalità di «servizio» posseduta dal cespite rivolta alla «esperienza» maturata dall’utente, mostrando in che misura, con reale concretezza, «prestazione» e «produttività» si stiano estendendo dai componenti materiali agli spazi immateriali e ai comportamenti intangibili.

Di conseguenza, a far inizio dalla restituzione geospaziale del territorio e del contesto con cui si prevede il nuovo progetto debba cimentarsi, sarebbe opportuno fornire ai concorrenti strumenti dinamici e interattivi col committente e colla commissione giudicatrice, anche per verificare il rispetto di alcuni vincoli preliminari di natura diversa, la cui negligenza inficerebbe tutta l’operazione.

BIM: tecnologia o metodo ?

Un recente bando attinente a una procedura competitiva relativa a un significativo incarico di progettazione (inerente a contratti pubblici) permette così di ritornare, ancora una volta, sul significato ultimo del ruolo della Domanda Pubblica nella digitalizzazione, ancorché essa apparentemente dimostri di tenere in conto con scrupolo la legislazione cogente e la normativa facoltativa vigenti, muovendosi, emblematicamente, ma pure contraddittoriamente, a proposito del «BIM», tra la menzione di «tecnologia» (presente nel bando in questione) e quella di «metodologia» (contenuta nel capitolato informativo), sintomo di una incertezza fondamentale che è, tuttavia, pure rivelatrice di un giudizio valoriale che resta sempre oscillante.

D’altra parte, allorché i requisiti informativi sono espressi dal committente in occasione di un concorso di progettazione, ma non solo, si assiste regolarmente allo iato che sussiste tra la determinazione del Documento di Indirizzo Preliminare (DIP), la predisposizione delle proposte progettuali iniziali in maniera sostanzialmente «analogica», a prescindere dalla natura dei supporti utilizzati, e il Capitolato Informativo (CI) rivolto, solo successivamente alla aggiudicazione del concorso, alla redazione vera e propria del progetto di fattibilità tecnico-economica.

Il che, in definitiva, confina la gestione informativa al di fuori del perimetro della «decisione» intesa quale morfogenesi originaria del progetto, laddove innumerevoli sono ormai gli strumenti combinatoriali che permettono non solo il digital sketching, ma, soprattutto, forme avanzate di generative design che propongono spettri di soluzioni ottimizzate di natura multicriteriale.

Da questo punto di vista, su un piano strettamente formale, gli stadi di selezione della proposta progettuale si basano, in queste occasioni, su documenti tradizionali, del tutto «congelati» in formati che non sono, di fatto, interrogabili da coloro che ne giudicheranno il valore, che non sono, cioè, «leggibili dalla macchina», dunque non direttamente confrontabili.

Ovviamente, si potrà correttamente ritenere che il giudizio su proposte originarie, morfogenetiche, non possa essere completamente lasciato a valutazioni quantitative e oggettive (che preluderebbero alla «automazione», sostituzione, della commissione giudicatrice con una intelligenza algoritmica), ma, senza dubbio, si tratta di ragionare sulla responsabilizzazione di coloro che formulano le domande e che configurano le risposte, dovendole, appunto, legittimare opportunamente.

Tra l’altro, come è palese anche nella circostanza specifica, la flessibilità e la versatilità dei luoghi di lavoro previsti, frutto di una evoluzionalità che, in verità, riguarda attualmente ormai anche le destinazioni d’uso residenziali, proprio in virtù della mutevolezza, non può essere lasciata a una sostanziale indeterminazione della domanda, in attesa del potere risolutivo della risposta, su cui esercitare una preferenza esclusivamente soggettiva.

In definitiva, l’impostazione del DIP, per quanto dettagliato e accompagnato da un gran numero di allegati esso possa essere, è solitamente precipuamente narrativa e discorsiva, sia pure corredata da molteplici schede, da alcuni parametri e da vari indicatori numerici, evidenziando una modesta propensione computazionale di quelle che il DM 560/2017 avrebbe voluto intendere come committenze digitali, vale a dire numeriche.

innovativo, integrato, originale, unitario, flessibile, accessibile, resiliente, iconico e ... moderno

Si sprecano, in effetti, nei DIP, e nei loro allegati, attributi come «innovativo», «integrato», «originale», «unitario», «flessibile», «accessibile», «resiliente», «iconico», persino «moderno», la cui valenza è assolutamente indefinita, incommensurabile e impalpabile, laddove, al contrario, tali aggettivazioni stanno sempre più a essere supportate da simulazioni numeriche: la digitalizzazione, infatti, inguaia le retoriche, pur richiedendo, ovviamente, una capacità decisionale, da parte del committente, che trascenda l’oggettivazione, su basi, però, di legittimazione puntuale.

In altri termini, la funzionalità e la fruibilità possono oggi essere valutate nei modelli informativi risultanti dalla progettazione, attraverso specifiche simulazioni.

Di conseguenza, la valenza del «BIM» diviene «strumentale», nell’approccio che si ritrova oggi nei concorsi di progettazione, poiché non concorre in alcun modo a delineare le scelte originarie né funge da supporto ai decisori nella soluzione della opzione preferita.

Di là dal fatto di ridurre la decisione a un processo vagamente meccanicistico di accertamento unilaterale di conformità delle proposte progettuali ai desiderata della struttura committente, è chiaro che le logiche digitali rimangono estranee ai dispositivi di selezione e che la Domanda (in questi casi Pubblica) non si forma a una dialettica computazionale con i potenziali fornitori dei servizi di progettazione.

È questo un punto decisivo, poiché certamente si potrebbe affermare, ad esempio, che i maggiori committenti pubblici e sviluppatori immobiliari privati, pur oggi supportati da consulenti esterni, possano non avere neppure un interesse ad assumere direttamente una veste numerica così spiccata né a svolgere un ruolo di guida meta-progettuale nel briefing così accentuato.

Purtuttavia, colla questione computazionale sono in gioco due aspetti salienti: l’orientamento operativo alla gestione del cespite nel ciclo di vita utile di servizio e la capacità di sorveglianza sull’intero procedimento.

L’Ambiente di Condivisione dei Dati (AcDat) e il CI sono, in effetti, i veicoli principali per conseguire questi obiettivi e per cercare di comprendere potenzialità e limiti di un certo approccio al BIM che, in caso negativo, probabilmente sarà destinato a una rapida emulazione acritica, come già sta avvenendo.

Per quanto riguarda l’AcDat, appare assolutamente corretto che la stazione appaltante avochi e trattenga a sé la scelta e l’onere inerente, ma, in attesa, come sulle altre materie, di norme specifiche di carattere sovranazionale (emanando esse dal CEN) ed eventualmente nazionale (emanabili dall’UNI), mettendo in disparte, per il momento, il livello internazionale dato dall’ISO, sarebbe imprescindibile la citazione dei documenti pre normativi DIN SPEC 91391-1 e -2, poiché essi costituiscono attualmente le specifiche preferenziali per la selezione, da parte del committente, dell’ecosistema digitale di esecuzione dei contratti pubblici.

Ciò vale pure in virtù del fatto che la conoscenza preventiva delle caratteristiche di tale AcDat sia cruciale per la formulazione dell’Offerta e del Piano di Gestione Informativa (rispettivamente OdGI e PdGI) da parte dei soggetti candidati e, come nel caso citato, ormai già aggiudicatari (assegnatari), poiché la gestione informativa interviene solo a valle del meccanismo decisionale selettivo.

Allorché, poi, si prevede che possano coesistere l’AcDat della Domanda e quello dell’Offerta è chiaro che tali ecosistemi siano considerati alla stregua di meri sistemi di gestione dei documenti.

D’altra parte, l’AcDat è oggi l’ambiente in cui garantire una coerenza tra informazioni contenute in basi di dati correlate, in quanto il novero dei «documenti» traibili dai modelli informativi disciplinari e aggregati o federati è sostanzialmente ridotto, nonostante le buone intenzioni manifestate nei CI a proposito degli «obiettivi» e degli «usi».

D’altra parte, la enorme difficoltà, evidente nei CI, nel gestire la discrasia tra documenti e dati, nonché a convertire questi ultimi, allorché presenti nei modelli informativi, in distinte di elaborati, è auto esplicativa.

Occorre, poi, non dimenticare che il DM 560/2017 impone al soggetto committente di accludere il modello informativo, come sua parte integrante, al CI; ciò vuol dire che esso non possa figurare tra le richieste formulate all’indirizzo del fornitore/appaltatore.

Si tratta, in primo luogo, di rammentare che, anche nel caso della nuova costruzione, i dati di ingresso su cui devono cimentarsi gli organismi di progettazione nell’ambito della gestione informativa risultano contrattualmente fondamentali e non possono essere delegati alla controparte, o almeno sarebbe preferibile che non lo fossero, per quanto si voglia agire eventualmente entro un accordo collaborativo.

In realtà, la citazione delle norme (UNI EN) ISO 19650-1 e -2, nella fattispecie non citate anche come sovranazionali e nazionali (essendo, invece, disponibili anche in lingua italiana: sia pure essendo il concorso di carattere internazionale), imporrebbe la preventiva formulazione degli OIR e degli AIR (rispettivamente i requisiti informativi attinenti agli aspetti organizzativi e gestionali di carattere patrimoniale immobiliare).

Essi, in effetti, particolarmente i primi, avendo una finalità più estesa rispetto al singolo procedimento, potrebbero forse non essere esplicitati ai candidati o al fornitore/appaltatore, ma certamente dovrebbero ampiamente riflettersi nel CI, tanto più che in esso si accenna alle strutture di scomposizione (breakdown structure) a proposito della gestione dei contenitori informativi.

In buona sostanza, focalizzare l’attenzione sugli esiti della progettazione di fattibilità tecnico-economica, definitiva ed esecutiva, senza configurare preventivamente Data Model e Data Structure orientati al Facility Management, né tanto meno fornire le specifiche degli applicativi che si intendano usare per la gestione del bene immobiliare a partire dal Soft Landings, molto rivela del fatto che i temi del ciclo di vita utile di servizio del cespite immobiliare, nonostante, ad esempio, il richiamo ai Criteri Ambientali Minimi (CAM), restino secondari nella operatività, per non parlare, poi, del Digital Twin.

Il punto sensibile consiste, in materia, nel fatto che un nesso diretto, di carattere computazionale, col pur presente DIP, avrebbe permesso di meglio esplicitare anticipatamente le esigenze della Maintenance e, ancor più, quelle delle Operations.

Sono proprio le Operations, infatti, a evidenziare come gli OIR e gli AIR, in realtà, possano oltrepassare gli aspetti strettamente legati ai workplace, intesi come spazi e come componenti, per guardare ai modi d’uso, narrativamente, in gran parte, descritti e prescritti nel DIP.

In questi casi, in realtà, l’attenzione alle attività che dovrebbero svolgersi nell’edificio e, soprattutto, nel distretto urbano di appartenenza, dovrebbe permettere di utilizzare altrimenti il «BIM» al fine di articolare meglio l’essenza del cespite costruibile/costruito, nel senso che AcDat, DIP e CI, in questa circostanza, dovrebbero riflettere la traslazione di significato (alcuni la definirebbero cesura epistemologica) relativa al bene immobiliare, anche in considerazione del contesto geospaziale più ampio del quartiere.

Si tratta di essere consapevole, per un committente, pubblico o privato che sia, che laddove «spazio» ed «esperienza», non più «spazio» e «funzione» oppure «spazio» e «potere», contino, non possa non darsi una progettualità committente autenticamente digitale, progettualità che oggi possiede le conoscenze e i mezzi necessari per attuarsi.

Nella relazione tra «informazione» e «decisione», che non a caso è oggetto della redigenda norma UNI 11337-8, si gioca, infatti, a livello di Digitally Enabled Design Management (argomento trattato nel passato colla norma BS 7000-4), la possibilità che il committente, in questo caso la stazione appaltante, proponga, «(meta)progettualmente» simulazioni e modelli di flusso e di interazione relativi alle attività che, evolutivamente, si svolgeranno all’interno e per mezzo del bene strumentale indisponibile, oggetto, come nel caso citato, della procedura competitiva.

Il regolarmente (nei concorsi di progettazione) mancato nesso tra DIP e CI fa sì che, a parte la definizione di unità funzionali e il loro dimensionamento di massima, nessun riferimento numerico di Space Programming e di Data Modeling, oltre che di (Crowd) Flow Simulation, sia messo a disposizione degli organismi di progettazione per instaurare una dialettica finalizzata alla verifica e alla validazione del progetto.

È curioso, peraltro, notare che se per «validazione» si intendeva in principio quella inerente ai modi di fruizione di un’opera, attualmente il percorso progettuale può agevolmente essere dotato di modalità di immersive pre-occupancy evaluation coinvolgenti panel di utenti prospettici che la inverano.

Il che spiega perché non si tratti di proporre in maniera oltranzista un approccio computazionale, sia pure, proprio in quanto tale dialogico, al Briefing, al Design Management e all’Information Management, bensì di riconoscerne l’inevitabilità in considerazione della mutazione in essere di status della committenza: progettista e acquirente di dati strutturati dinamici finalizzati al consumo esperienziale di spazi e di relazioni.

La scarsa digitalizzazione, intesa come computazionalità, del DIP, ovverosia degli Employer’s Requirements, riduce la portata degli Exchange Information

Reaquirements a livelli di verifica intrinseci, in qualche modo autoreferenziali, tanto più che essi spesso si riducono alle sole interferenze geometrico dimensionali, in quanto orientati agli elaborati grafici.

D’altra parte, in carenza di modelli e di strutture di dati, buona parte della Quality Assurance e del Model Checking rischia di essere fortemente ridimensionata nella sua interezza.

D’altronde, l’orientamento dei modelli informativi a generare elaborati conferma la prevalenza del documento sul dato.

Naturalmente, la discrasia tra DIP e CI è funzionale a una separazione dei ruoli attinenti all’Information Management e al Project (qui essenzialmente Design) Management, anche sotto il profilo delle professioni non regolamentate trattate nelle norme UNI 11337-7 e UNI 11648.

Epperò, non per nulla, nello stesso CI, un organigramma cerca solitamente di ricomprenderle, più o meno ragionevolmente e dettagliatamente, a dimostrazione del fatto che, in futuro, la giurisprudenza molto avrà da dire sulla corretta allocazione di responsabilità tra i profili e le funzioni, oltre che delle firme (autorialità).

L’evocazione di «modelli» e di «strutture», nella latenza di un Piano di Gestione del Procedimento (non richiesto al RUP dalla legislazione, ma imprescindibile nel Project Management, così come restituito dalla norma UNI ISO 21500), ricorda come l’eventuale delega alla concezione e all’articolazione delle breakdown structure da parte della stazione appaltante nei confronti del prospettico affidatario generi potenzialmente gravi rischi.

Se, ancora, si ripercorrono i contenuti del CI ci si accorge, a proposito di criticità, come un documento (il CI resta tuttora tale) dotato, in gran parte, dei crismi formali possa tendere, tanto più nelle sue repliche ed emulazioni (esso stesso ne è, per alcuni versi, spesso il frutto) a formalismi riduzionisti della complessità.

L'attenzione cade sugli elaborati grafici

Per prima cosa, a proposito della cosiddetta prevalenza contrattuale, è palese che l’attenzione sia prevalentemente incentrata sugli elaborati grafici, laddove il complesso documentale è assai più vasto.

Occorre, peraltro, osservare che, in virtù del significato più proprio di «modello», l’inte(g)razione tra ambienti di calcolo e ambienti di modellazione andrebbe approfondita: non solo in termini di mera interoperabilità.

La richiesta relativa alla dotazione infrastrutturale posseduta dall’aggiudicatario (e, in precedenza, in molte occasioni, dai candidati) non vede quasi mai un ruolo proattivo del committente nel condividere le informazioni attinenti alla propria né mostra che esso possegga una padronanza assoluta su ciò che vada a richiedere alla controparte.

La fornitura e lo scambio dei dati (in realtà, si dovrebbe parlare di modelli e di strutture di dati numerici strutturati e interrogabili) si muove tra i formati nativi, per cui la stazione appaltante pubblica non può agire influenzando i fornitori, e formati neutri e interoperabili, molto dipendenti dalle funzionalità del singolo applicativo e dalle capacità degli operatori e, comunque, elaborabili autonomamente con difficoltà.

Non può bastare certo, al committente, trasferire gli oneri relativi all’efficacia dello scambio dei dati alla controparte, come, invece, avviene.

La definizione esemplificativa e sommaria, al più indicativa, della caratterizzazione delle entità e degli oggetti che figura sovente nei CI rivela, come se non ve ne fosse abbastanza necessità, una dimensione poco computazionale del soggetto proponente.

D’altronde, a proposito della strutturazione e della decomposizione degli oggetti e dei dati, in assenza di una chiara strategia di gestione informativa per il ciclo di vita, si tratta, per la stazione appaltante, di rimandare e di differire scelte cruciali che, in realtà, appartengono all’universo dell’anticipazione tipico della digitalizzazione.

Non è un caso, peraltro, che la identificazione dei livelli di fabbisogno informativo si trovi, nei CI, separata dalla definizione delle finalità della modellazione informativa.

Si tratta, però, qui di intendersi bene, anzitutto, sul fatto che il classico mondo dei livelli di definizione, di dettaglio e di sviluppo, le cui scale e le cui metriche sono innumerevoli, ma concettualmente identiche, vede ormai, nella normativa sovranazionale, una declinazione, articolata per aspetti geometrico dimensionali e alfa numerici, attagliata sugli specifici scopi della gestione informativa.

La relativizzazione e la finalizzazione dei livelli di fabbisogno informativo dimostra, prima di tutto, che non abbia senso alcuno che essi siano trattati, nel CI, disgiuntamente dagli obiettivi della gestione informativa, vanificando complicate progressioni numeriche o letterali, che, invero, non presentano alcuna corrispondenza coll’ordinamento legislativo che si rapporta ai livelli della progettazione.

Rileva, altresì, che l’aspirazione a misurare in continuo la densità informativa degli oggetti e dei modelli decada in improbabili ulteriori scansioni intermedie, incontrollate e incontrollabili, foriere di promettenti coltivazioni dei contenziosi.

Il punto è, al contrario, che esistono oggi applicativi di committenza, generatori dei CI, in grado di formalizzare relazioni tra unità spaziali e funzionali, distanze percorribili e data set corrispondenti ai livelli di fabbisogno informativo.

Essi, da un canto, costituiscono la dorsale computazionale del CI, inteso quale documenti, ma, contemporaneamente, ne fanno ormai intravedere la natura di processo e di dispositivo da sviluppare entro l’AcDat.

Quanto agli obiettivi e agli usi della modellazione informativa, la loro espressione nei termini della pura sintetica narratività poco suggerisce se non il fatto che scopo della strutturazione dei dati sia paradossalmente la produzione di documenti, specialmente, di elaborati grafici.

Questa è la sezione del CI nella quale il limite analogico degli operatori della committenza, ma anche del contesto giuridico-contrattuale in cui essi agiscono, è esplicito.

Se nelle intenzioni della modellazione informativa i dati attinenti all’aspetto alfa numerico avrebbero dovuto essere prevalenti (dato che digitale è numerico e modellato è computazionale), nella prassi, nell’aspettativa della stazione appaltante si trova, invece, un suo ridimensionamento peculiare della sua storia analogica (si pensi ai capitolati speciali di appalto).

È, poi, interessante osservare la correlazione tra la struttura organizzativa del procedimento e la strutturazione della progettazione, in cui si nota immancabilmente una certa approssimazione nella configurazione degli organigrammi funzionali e nominali, la carenza delle matrici di responsabilità e dei registri dei rischi, nonché una palese difficoltà a trasferire la programmazione temporale della progettazione nella simulazione medesima delle logiche e dei processi costruttivi, attraverso Master e Task Information Delivery Plan.

È come se il committente, digitalizzato nelle forme, ma analogico nelle sostanze, privilegiasse la progettazione come sequenza di attività di rappresentazione, anziché, come dovrebbe essere, di simulazione.

È come se il committente, che dovrebbe essere definito acquirente di strutture di dati numerici, fosse dimentico che tali informazioni siano, appunto, «strutturali», quasi tettoniche.

La relazione che si instaura, sotto questo profilo, in materia di proprietà intellettuale, di riservatezza e di sicurezza del dato si interseca colla essenza dell’AcDat che, in casi recenti, prevede uno sdoppiamento tra quello prescelto (e imposto) dalla stazione appaltante e quello che essa permette di adottare alla controparte.

È qui del tutto chiaro l’incomprensione del ruolo dell’AcDat che, pur essendo ancora essenzialmente un sistema di gestione documentale avanzato, promette di divenire l’ecosistema digitale entro cui si esegue il contratto e attraverso cui si esercita una Intelligence sui processi.

È interessante notare come associare alla verifica dei dati e delle informazioni, in maniera «automatizzata» (in realtà, attraverso modalità di accertamento semi-automatico del rispetto di alcune regole), quella dei contenuti informativi dovrebbe costringere a riunire DIP e CI, come, al contrario, non avviene.

Tra l’altro, lo sdoppiamento tra Checking e Intelligence costituisce una delle strade investigative più interessanti, poiché tutto lo sforzo si era sinora incentrato sulla verifica dei contenuti informativi dei modelli informativi, considerati nella loro coerenza interna e tra di essi.

Evitare conflitti (non solo, almeno in teoria, interferenze geometriche) resta, peraltro, ancora l’obiettivo più frequente, ma, in realtà, lo sviluppo computazionale dei CI ha fatto sì che, a partire dalla definizione degli spazi e delle loro relazioni sino alla presenza delle proprietà negli oggetti, la verifica della progettazione verta sui contenuti espressi dalla committenza, non solo in termini di esigenze e di requisiti informativi.

Ciò che appare, limitandosi in questa sede, riferita ai concorsi di progettazione, alla sola fase di progettazione, escludente quella costruttiva, è la possibilità di analizzare non già i contenuti dei modelli quanto come essi siano stati prodotti.

Non si tratta di un passaggio secondario sia perché vi è in nuce la possibilità di configurare un progetto interamente attraverso dati numerici strutturati sia poiché si riscontra la eventualità di comprendere le relazioni che intercorrono tra i progettisti e persino di prevederle.

D’altronde, la nozione stessa di «interferenza», nonché quella di «incoerenza», apparentemente legate agli aspetti di carattere geometrico dimensionale tipici dell’elaborato grafico, rivestono significati assai più profondi alla luce di quanto precedentemente rilevato.

In conclusione, non si intende, naturalmente, espungere la discrezionalità dalla valutazione nei concorsi di progettazione, ma, di là di una maggiore responsabilizzazione di tutti gli attori in merito alle scelte effettuate e alla continuità tra le proposte iniziali e lo sviluppo della fase della progettazione (e non solo), è evidente che proprio la dinamicità dei beni immobili oggetto delle competizioni richieda un atteggiamento probabilistico e una attenzione al ciclo di vita affatto differente, poiché congiunge prestazioni degli edifici e dei suoi occupanti all’interno di una variabilità di assetti assai maggiore che non nel passato.

 

 

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