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Diagnostica sulle strutture esistenti…ovvero di cosa parliamo quando parliamo di sperimentazione e certificazione

Approfondimento sui concetti di i concetti di sperimentazione e di certificazione

prove-laboratorio.jpgAccogliendo l’invito dell’editore, ing. Andrea Dari, partecipiamo al dibattitto scaturito dai recenti  interventi pubblicati sul tema della diagnostica sulle strutture, sia da parte di singoli professionisti (spesso portatori di istanze autoreferenziate), che di esponenti di realtà più ampie e qualificate, come nel caso delle interviste al prof. ing. Nicola Augenti e all’ing. Fabio Torrii (riconducibili al mondo accademico il primo e  delle professioni il secondo), nonché delle Associazioni “di categoria” (vedi la nota congiunta di AIPnD, ALGI, ALIG, ALPI, CODIS e dell’Associazione MASTER). Il presente intervento ha l’ambizione di contribuire, per quanto possibile, alla migliore conoscenza dell’argomento, e, comunque, la finalità di partecipare al processo di reciproco accrescimento culturale e di confronto dialettico, e per questo abbiamo richiamato nella titolazione, parafrasandolo, il titolo di un famoso romanzo di R. Carver.

Chiariamo i concetti di sperimentazione e di certificazione

È opportuno premettere che, nella gran parte degli interventi sopra richiamati, è evidente come spesso siano stati confusi, e come in ogni caso sia concreto il rischio che vengano effettivamente confusi, i concetti di sperimentazione e di certificazione.

Tali attività, così come le relative competenze, stanno, a nostro avviso, su piani diversi, seppure convergenti e tra di loro interconnessi e collegati. Ci riferiamo nello specifico al piano delle:

  • “a. esecuzione di prove sperimentali di tipo specialistico”
  • “b. attività di certificazione delle prove”.

Ad un lettore poco accorto potrebbe sembrare questa distinzione capziosa o comunque non rilevante, in quanto dal punto di vista meramente pragmatico ciò che resta importante, e che sembra rilevare, è esclusivamente la precisione e la affidabilità della diagnosi, che un bravo professionista è in grado di eseguire, sulla base del titolo di studio, dell’esperienza e delle abilità (skills) più o meno certificate.

Da tale considerazione “preliminare”, che sembra cogliere il senso ultimo di molti interventi sulla tematica, e specie quelli elaborati dal mondo delle professioni, sorgono due quesiti, che sono quelli che sembrano porsi, in termini finali, molti dei professionisti che hanno espresso considerazioni “negative” sul nuovo sistema che sembra – il condizionale è assolutamente d’obbligo in questi casi – profilarsi e fronte della recente modifica dell’art. 59 del D.P.R. n. 380/2001. A tali quesiti, qui sollevati a mo di “provocazione”, si cercherà di fornire una risposta quanto mai semplice e sintetica.

1. Primo quesito: perché un ingegnere, definizione che individua una figura professionale che solo nella accezione ottocentesca era poliedrica e competente in tutti i campi dell’ingegneria, e che oggi si è fortemente diversificata e non trova riscontro nella figura dell’ingegnere moderno (oramai figura professionale iperspecializzata e spesso ad indirizzo monodisciplinare), fornito di titolo di studio ed abilitato, ed aggiungiamo con specifica competenza nelle attività diagnostiche sulle strutture e sui materiali, deve necessariamente avvalersi di “laboratori” o agency organizzate, strutturate ed appositamente autorizzate da Enti governativi o da Organismi di certificazione delegati, ai quali sembra attribuita un’arbitraria esclusività?

La risposta è semplice: perché la normativa internazionale, europea e di conseguenza italiana, da decenni lo richiede, e l’intero sistema di “certificazione” a bene vedere, poggia sulle medesime istanze ed esigenze. Come si dice in questi casi: perché è una prassi non solo consolidata, ma anche normata, con tale accezione dovendosi intendere non solo ciò che è disciplinato dalla c.d. legge formale (v., appunto, l’art. 59 TUE succitato), ma anche da quella convenzionale e/o uniformata che, pur non essendo propriamente “cogente”, come lo è la prima, è tipica del sistema di normazione tecnica, sia a livello europeo che mondiale, ed è da intendersi come avente la medesima “forza”.

2. Secondo quesito: il “nuovo” quadro normativo, ed il sistema che verrà generato a fronte della sua prossima applicazione, sono da intendersi come una “imposizione”, ovvero alla stregua di una indebita e “fastidiosa” intromissione che limita la libertà di azione e di lavoro dei cittadini, e nel nostro caso, dei professionisti iscritti ai vari Ordini professionali (particolarmente gli ingegneri)?

La risposta deve essere negativa: l’educazione civica e l’esperienza relazionale che ciascuno di noi, in quanto individuo inserito in un contesto sociale regolamentato, ha appreso, anche a proprie spese, ci informano che la libertà individuale ha un confine molto labile, e a volte in contrasto con quello degli altri; in una società civile, non vige il principio del “prima io”, ma del “noi”, ovvero quello degli spazi comuni e condivisi, dove diritti e doveri sono inviluppati in una circolarità che deve sempre equilibrarsi e bilanciarsi dinamicamente e che ha come unico centro di riferimento, nel nostro caso,  la tutela della sicurezza e dell’integrità delle persone e dei loro beni, ovvero la c.d. “pubblica incolumità”.

Sotto questa luce, parlare solamente di competenza, capacità e attitudine professionale rischia di essere fuorviante, se non mistificante nei fatti, e di nascondere il principio guida nella scala valoriale che presiede alle attività concernenti la sicurezza e l’integrità delle persone e delle cose: la responsabilità del soggetto e il suo impatto sul sociale.

Per questa ragione è indispensabile un processo formativo, di studio e qualificazione che sia esercitato da soggetti istituzionali e che deve essere sempre aggiornato con la necessaria frequenza e con il contributo di quanti partecipano, a vario titolo, alla filiera delle costruzioni. Nessuno vuole limitare l’accessibilità e la conduzione dei programmi formativi, semmai incoraggiarla e promuoverla.

Per meglio comprende tale fondamentale passaggio, va, anzitutto, affrontata la questione dei requisiti dell’esperto in diagnostica delle strutture, che, oggi più che mai, devono essere riconosciuti come quelli di una attività professionale specialistica, la quale andrebbe inserita nei percorsi formativi scolastici, universitari e professionali, nonché alimentata e nutrita dalla ricerca scientifica. 

Le procedure di valutazione della sicurezza, della vulnerabilità, del degrado strutturale devono necessariamente avere il proprio elemento complementare nella pratica sperimentale, ovvero nella esecuzione e certificazione delle prove. Tutte le istituzioni responsabili della “pubblica incolumità” devono essere consapevoli della complementarietà che intercorre fra l’ attività professionale e l’attività sperimentale, ma anche del fatto che entrambe le attività devono avere lo stesso livello di competenza nella gestione del rischio.

La certificazione delle prove ha un valore documentale proprio e uno statuto di natura ontologica a sé stante [1], quindi con attributi di senso specifico e, come verrebbe da dire, “genetici”, e non genericamente riportati e dispersi in relazioni professionali, molte volte con un taglio generalista e speculativi, da ciò conseguendo, ex se, che essa deve necessariamente essere riservata a soggetti giuridici che siano nelle condizioni, nell’esercizio della loro funzione di pubblica utilità, di esprimere una organizzazione che sia:

  • Plurale e articolata per competenze e mansioni accertate e certificate;
  • Indipendente, imparziale e terza, nella filiera delle costruzioni, (assenza di conflitti di interesse tra ruoli di controllore e di controllato);
  • Capace, dal punto di vista imprenditoriale, di assicurare un servizio obbligatorio o non discrezionale;
  • Strutturata per assicurare e documentare le politiche adottate nella gestione delle misurazioni, della loro incertezza e filiera metrologica e della loro restituzione documentale e dell’archiviazione.
  • Neutra e oggettiva nella gestione dei risultati scevra da interpretazioni soggettive, se non espressamente richieste dalla norma di riferimento. In tal senso tutta la normativa nazionale e internazionale, in merito alla sintassi dei resoconti di prova, rimanda a regole decisionali [2] di tipo algoritmico (step by step), il più possibile oggettive e impersonali e non a euristiche di tipo soggettivo e personali (basate sulla intuizione), esposte a bias cognitivi .[3]

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[1] Sulla documentalità e sulla sua rilevanza sociale, si è sviluppata negli ultimi decenni grazie ai lavori di Derrida, Ferraris e Searle una propria scuola di pensiero. Nel particolare Maurizio Ferraris chiarisce: ” Ci sono tre tipi di oggetti: naturali, ideali e sociali. “Gli oggetti naturali stanno nello spazio e nel tempo indipendentemente dai soggetti; gli oggetti ideali stanno fuori dello spazio e del tempo indipendentemente dai soggetti; gli oggetti sociali stanno nello spazio e nel tempo dipendentemente dai soggetti. Per quanto la caratteristica principale dei soggetti, quella di avere rappresentazioni, abbia un’importanza centrale per l’ontologia sociale, la differenza fra soggetti e oggetti non va intesa come una differenza basilare di categoria. I soggetti, infatti, sono anche un tipo di oggetti naturali […] in quanto entità biologiche, e (se inseriti in una società) sono anche oggetti sociali”. Maurizio Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari, 2009. 

[2] La UNI CEI EN ISO/IEC 17025:2018 definisce in maniera chiara i limiti di interpretazione dei dati sperimentali di un laboratorio, restituiti sia come report o certificato. Il paragrafo 7.8.6 richiama l’obbligo da parte del laboratorio di documentare la “regola decisionale” adottata nella restituzione dei dati sperimentali e, solo su espressa richiesta del committente, della dichiarazione di conformità limitatamente al rispetto o meno delle specifiche di prodotto prescritte dalla norma di riferimento. Inoltre, una novità di particolare importanza, eventuali giudizi aggiuntivi ai dati sperimentali devono essere limitati e comunque definiti come “opinioni e interpretazioni” per i quali il laboratorio è chiamato a documentare le basi su cui esse sono state formulate e il tecnico responsabile della valutazione, la cui capacità deve essere riconosciuta dalle autorità di controllo e certificazione.

[3] Kahneman,  in “Thinking Fast and Slow(2011)”  trad. “Pensieri lenti e veloci”, Oscar Mondadori , ha in maniera illuminante svelato, sulla base di una rigorosa indagine statistica, come nelle regole decisionali (decision making), tutti noi corriamo di rischio di incorrere in dei Bias cognitivi che ci portano ad una errata valutazione dei dati e del contesto e a prendere delle decisioni “irrazionali”, basate sull’intuizione o su falsi convincimenti. Chi ha pratica di attività e ricerca sperimentale converrà che generalmente queste “fissazioni” o “pensieri forti” sono più diffusi tra coloro che vantano una maggiore esperienza e autorità e che col tempo diventano meno permeabili al pensiero critico e al confronto dialettico. Nel nostro caso, particolarmente pericolosi sono la CONFIRMATION BIAS: è la tendenza a sovra-ponderare gli elementi che confermano la correttezza di una propria idea o decisione; la OVERCONFIDENCE BIAS: è la tendenza a riporre eccessiva fiducia nelle proprie scelte e capacità previsionali. FRAMING BIASES: caratterizzati dall’influenza del contesto sulla decisione; ANCHORING BIASES: caratterizzati dall’influenza di un punto di riferimento sulla decisione. Una attività di “debiasing” multidisciplinare e di tipo orizzontale, pertanto, è necessaria nella gestione del rischio. Attività che solo una struttura organizzata e articolata per mansioni, competenze e responsabilità può assicurare e documentare. 

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