Sicurezza | Edilizia
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Collassi strutturali e affidabilità delle costruzioni esistenti: una ferita aperta

Il crollo delle due palazzine avvenuto nel mese di luglio, una a Milano l'altra a Torre del Greco, ci obbliga a puntare i fari sul tema della sicurezza strutturale degli edifici e a quanto ancora non è stato fatto sul nostro vetusto patrimonio edilizio.

Due boati quasi concomitanti hanno scandito la metà del mese di luglio: il giorno 15 una palazzina a tre piani crolla in via Sciesa a Milano (dichiarata inagibile, erano in corso lavori di “rinforzo statico”), il giorno 16 collassa una palazzina a tre piani nel centro di Torre del Greco (Napoli). Due edifici con strutture molto diverse tra di loro, in cemento armato la prima, in struttura portante mista la seconda, che si inseriscono, ultime in ordine di tempo, in un nutrito panorama di crolli che caratterizza da diversi decenni il patrimonio edilizio italiano.

Le cause saranno indagate, con la consueta perizia, dai consulenti nominati dalle parti alla ricerca del “nesso causale” alla base del crollo, ma sarebbe utile soffermarci sulla fragilità statica e sulla vetustà dei nostri edifici.

L’ennesima disgrazia sfiorata (nessuna vittima nel bilancio post-evento) si presta ad alcune riflessioni sullo stato di salute del patrimonio italiano dal punto di vista strutturale e su quanto “non fatto” per la sicurezza strutturale dei fabbricati.


I precedenti. Una lezione inascoltata

Nella memoria collettiva riappaiono le immagini del crollo della palazzina di via Vigna Iacobini a Roma (1998, 27 vittime) e della disgrazia di viale Giotto a Foggia (1999, 67 vittime).

Sembrava di assistere alle immagini tipiche del post-evento sismico analizzando quanto diffuso dopo il crollo avvenuto a Roma: una palazzina a cinque piani, implosa (collasso ad asse verticale, come usano definirlo gli esperti del settore) per evidente cedimento strutturale.

Le conclusioni dei periti citano la progettazione non priva di errori, il materiale (calcestruzzo) assolutamente scadente e fuori norma, le dimensioni dei pilastri insufficienti. Sintetizzavano quanto accertato con la considerazione che in Italia, in quel periodo (anni Cinquanta), si costruiva male e si controllava peggio.

Poco meno di un anno dopo, a Foggia, implode un palazzo a sei piani: “A tre mesi dall’avvio delle indagini i consulenti illustrano l’esito della perizia. «Quel palazzo era nato morto, va ritenuto un miracolo il fatto che sia rimasto in piedi per così tanti anni». Errata progettazione, errati calcoli statici, scarsa quantità di sabbia e cemento, materiale pressoché scadente, collaudo probabilmente eseguito dal direttore dei lavori, nessun controllo degli organi preposti a farlo. Il palazzo è crollato per il cedimento strutturale dei pilastri 24 e 25. La rottura ha causato uno schiacciamento, una implosione che data l’eccezionale scarsità dei materiali ha consentito al palazzo di piegarsi in 19 secondi” (da Colpa di nessuno di Davide Grittani).

Le conclusioni del perito, il professor Vitone, meritano un’attenta analisi, dovrebbero invitare tutti a una riflessione profonda sullo stato di salute degli edifici residenziali italiani e comportare una differente distribuzione delle risorse (pubbliche e private) volta, in prima battuta, alla sicurezza strutturale delle nostre case: “È doveroso segnalare che, se è pur vera la straordinarietà del concorso di eventi negativi determinatosi nel caso dell’edificio di viale Giotto, non vi è carenza, difetto o errore della lunga lista compilata nella presente perizia, che non sia singolarmente (o in pericolose concomitanze) riscontrabile nella generalità delle costruzioni in cemento armato realizzate tra l’inizio degli anni ’60 e la fine degli anni ’80. Questa circostanza imporrebbe di affrontare il non semplice tema della sperequazione del rischio al quale sono soggetti cittadini del tutto inconsapevoli”.

La domanda che scaturisce dall’analisi storica dei collassi italiani degli ultimi 25/30 anni è: qualcosa è cambiato nell’approccio sistematico allo studio delle strutture italiane realizzate nel dopoguerra?

Abbiamo acquisito la consapevolezza (intesa come maggiore conoscenza) che il fenomeno dei collassi strutturali degli edifici può essere contenuto (leggasi “limitato”) solo aumentando lo studio dei fabbricati esistenti?


La conoscenza. Una condizione imprescindibile

La normativa italiana (NTC 2018) chiama “valutazione della sicurezza” (Capitolo 8 - punto 8.3) il processo attraverso cui ricostruire la fotografia strutturale degli edifici esistenti.

Nella sostanza, il legislatore individua un percorso di conoscenza necessario a effettuare una valutazione strutturale dell’edificio in esame: l’analisi storico-critica (principalmente documentale), il rilievo strutturale, la caratterizzazione meccanica dei materiali (consistente in indagini e prove) e la modellazione sono gli strumenti atti a emettere un giudizio tecnico sulla stabilità.

Altre amministrazioni (ad esempio il Comune di Milano) hanno privilegiato strumenti più flessibili e progressivi (Certificazione di Idoneità Statica o CIS) per l’individuazione di eventuali carenze principalmente di carattere statico (corrispondenti ad azioni che si esercitano con cadenza “quotidiana” sui fabbricati).

È individuato un primo di livello di analisi (di tipo qualitativo) e un secondo livello di eventuale approfondimento (di tipo quantitativo).

Tutte queste procedure identificano come requisito imprescindibile la conoscenza di quanto in esame: è evidente che in assenza di dati, o in carenza degli stessi, nessuna analisi può risultare accettabile sotto il profilo tecnico-scientifico.
Nel periodo immediatamente successivo a ogni crollo la componente emotiva prevale sulle valutazioni economiche o corporative: tale circostanza, non necessariamente negativa, porta a ipotizzare strumenti di conoscenza estesi a tutti gli edifici (il fascicolo del fabbricato, richiesto a gran voce dopo il crollo di Roma) o lo stanziamento di ingenti risorse pubbliche (il risarcimento totale delle vittime del crollo di Foggia, per una cifra pari a 15 miliardi di lire).

Se davvero vogliamo diminuire il numero dei crolli in Italia e, tramite interventi mirati, ridurre la vulnerabilità strutturale degli edifici esistenti, l’onda emotiva si deve necessariamente tradurre in programmazione: un programma non può prescindere dai dati di input, in primis dalla storia del fabbricato. Che il nome sia fascicolo del fabbricato, anagrafe digitale o altro non si può più ritardare l’inizio della campagna di acquisizione dei dati storici del fabbricato (che trova corpo e sostanza nell’analisi storico-critica prevista dalla normativa vigente prima richiamata).

Il percorso di conoscenza trova naturale compimento nell’effettuazione di prove e indagini: le perizie dei crolli citati sottolineano due importanti vulnus tipici del periodo di costruzione 1950/1980. Il primo è la scarsa “attitudine” dimostrata dai soggetti deputati ai controlli strutturali; il secondo è il reiterato ricorso a materiali di caratteristiche differenti da quelle di progetto e, nei casi più gravi, inferiori ai valori minimi imposti dalla normativa vigente all’epoca dell’edificazione.

Il rischio potenziale che corrono milioni di cittadini ignari degli eventuali deficit strutturali delle loro abitazioni deve essere drasticamente ridotto.

Altro tema particolarmente delicato è quello inerente alla vetustà del patrimonio edilizio. In Italia abbiamo più di un milione di condomini a uso residenziale: oltre il 50% di essi ha più di 50 anni di vita.

Come si può non ricordare quanto sostenuto da uno dei più attenti studiosi dei dissesti statici degli edifici (Sisto Mastrodicasa)? “Ma come in natura tutto cospira alla caducità delle cose, così nelle strutture di fabbrica, sotto il dominio di questa legge fatale, innumerevoli circostanze tendono a vulnerare la resistenza del materiale rendendo effimere le opere da noi costruite”.

Quanto relativo alla vetustà si sposa (tristemente) alla pressocché totale mancanza di manutenzione di tipo strutturale, carenza che abbatte, prima del limite temporale stabilito, i livelli prestazionali e funzionali necessari alla vita del fabbricato.

Dalle considerazioni sin qui svolte appare evidente che la valutazione della sicurezza del patrimonio edilizio italiano, dal punto di vista strutturale, non possa essere ulteriormente rimandata onde poter mettere in una condizione di maggiore sicurezza la vita degli italiani.

È un percorso lungo e necessita di adeguati supporti finanziari da parte dello Stato.
“Ci sono poi un paio di rivoluzioni culturali. Dobbiamo tutti abbandonare il terreno oscuro e medievale della fatalità. Si parla tanto di fatalità, ma non esiste! (…)
Ci sono persone che non vanno a fare le analisi mediche per paura di sentirsi dire che sono malate. Smettiamo con questo gioco al massacro. Accettiamo il fatto che siamo entrati in una fase diversa e accettiamo la responsabilità collettiva
” (Renzo Piano).


Si ringrazia l'Ordine degli Ingegneri di Torino per la gentile collaborazione.

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