CANAPA NERA “Guardavo le macerie e immaginavo il futuro”
Un’installazione che fa leva sul cuore, ma anche sulla responsabilità collettiva di ognuno
Quando, alle 7:41 del 30 ottobre 2016, l’Umbria sud-orientale è stata investita da un forte evento sismico (6,5 gradi di magnitudo), che nel giro di pochi secondi ha cancellato secoli di storia, radendo al suolo decine di edifici chiesastici tra cui la basilica di San Benedetto a Norcia e intere frazioni tra cui l’abitato di Castelluccio, io mi trovavo a Venezia insieme ai miei studenti: sia insieme a quelli del corso di laurea in Ingegneria edile-Architettura dell’Università degli Studi di Perugia sia insieme a quelli della scuola di Design dell’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia.
Il giorno precedente, infatti, avevamo partecipato con grande entusiasmo al workshop Fontivegge, Perugia. Cento anni di architettura della città, che aveva offerto l’occasione per un dibattito aperto sull’opportunità del completamento della piazza disegnata da Aldo Rossi nei primi anni Ottanta del Novecento e che aveva visto la partecipazione di architetti di chiara fama come Luca Molinari, Pietro Carlo Pellegrini e Gianluca Peluffo.
Il programma di quella mattina prevedeva la visita ai padiglioni della 15a Mostra Internazionale di Architettura di Venezia (di cui era stato parte anche il nostro workshop), che vantava un programma particolarmente denso e stimolante.
Così, dopo essermi minimamente tranquillizzato parlando al telefono con i miei familiari, m’imbarcai su un vaporetto delle linee esterne, che percorse lentamente il Canale della Giudecca, e sbarcai trafelato davanti ai giardini della Biennale, dove era già convenuta la gran parte degli gli studenti. Ci mettemmo in fila davanti alla biglietteria per ritirare l’accredito e, mentre controllavamo gli aggiornamenti delle notizie sui nostri smartphone, cominciammo a dibattere sulle conseguenze di quella immane tragedia. Ma, soprattutto, cominciammo a dibattere sul possibile contributo tanto dell’arte quanto dell’architettura di fronte ai disastri causati dalle calamità naturali quali le frane, le inondazioni e i terremoti.
Eravamo tristi e confusi: io per primo. Poi però, mentre ero rimasto solo in attesa dell’arrivo degli ultimi studenti ritardatari, la mia attenzione cadde su un banner (uno dei tanti affissi all’ingresso della Biennale) in cui era riportato integralmente il testo scritto dal curatore Alejandro Aravena per la premessa al catalogo della mostra. Lo lessi tutto d’un fiato.
“Durante un suo viaggio in America del Sud, Bruce Chatwin incontrò un’anziana signora che camminava nel deserto trasportando una scala di alluminio sulle spalle. Era l’archeologa tedesca Maria Reiche, che studiava le linee Nazca. A guardarle stando con i piedi appoggiati al suolo, le pietre non avevano alcun senso, sembravano soltanto banali sassi. Ma dall’alto della scala, le pietre si trasformavano in uccelli, giaguari, alberi o fiori. Maria Reiche non aveva abbastanza denaro per noleggiare un aereo e studiare le linee dall’alto, e la tecnologia dell’epoca non disponeva di droni da far volare sul deserto. Ma l’archeologa era abbastanza creativa da trovare comunque un modo per riuscire nel suo intento. Quella semplice scala è la prova che non dovremmo chiamare in causa limiti, seppure duri, per giustificare l’incapacità di fare il nostro lavoro. Contro la scarsità di mezzi: l’inventiva. D’altra parte, è molto probabile che Maria Reiche si sarebbe potuta permettere un’automobile o un furgone per viaggiare nel deserto, salire sul tetto della vettura e guardare da una certa altezza; e così facendo si sarebbe anche potuta spostare con maggiore rapidità. Ma questa scelta avrebbe distrutto l’oggetto del suo studio. Quindi, in questo caso, si è arrivati a una valutazione intelligente della realtà grazie all’intuizione dei mezzi con cui prendersene cura. Contro l’abbondanza: la pertinenza.” (Alejandro Aravena, Chi, che, perché, in Reporting from the front, Marsilio Editori, Venezia 2016, p. 21).
Quale potesse (o forse dovesse) essere il contributo dell’arte e dell’architettura di fronte all’emergenza ...
Il testo di Aravena sembrava scritto apposta per rispondere ai nostri interrogativi: se volevamo capire quale potesse (o forse dovesse) essere il contributo dell’arte e dell’architettura di fronte all’emergenza, dovevamo cambiare il nostro punto di vista, salendo uno a uno i gradini della cultura. E della solidarietà.
Così come era avvenuto all’indomani dei terremoti del Belice e dell’Irpinia, quando gli artisti e gli architetti più celebri dell’epoca parteciparono attivamente all’epopea della ricostruzione, aderendo all’invito provocatorio del sindaco di Gibellina Ludovico Corrao (“Facciamo crescere i fiori dell’arte e della cultura nel deserto del terremoto, del destino, dell’oblio”) e alimentando il progetto culturale del gallerista partenopeo Lucio Amelio (“Voglio promuovere una collezione di grandi opere create ad hoc da lasciare a una istituzione permanente del territorio”). D’altra parte è ormai acclarato che, dopo un evento sismico distruttivo, occorre accompagnare la ricostruzione edilizia con una ricostruzione psicologica volta a tutelare le identità delle comunità offese. E, da questo punto di vista, l’intervento artistico può svolgere un ruolo fondamentale, perché predisposto di per sé a valorizzare ciò che rimane, azionando i meccanismi resilienti e, con essi, il processo di rigenerazione tramite enzimi attivatori formidabili quali la bellezza, la tenacia e la comunicazione.
Mentre percorrevamo le sale della Biennale, ma anche mentre tornavamo in autobus da Venezia a Perugia, parlai a lungo con i miei studenti di queste e di altre questioni. Eravamo tutti ansiosi di fare la nostra parte. Così, quando il lunedì successivo riprendemmo le attività didattiche correnti, cominciammo da subito a lavorare con sistematicità (e con intensità) alla valorizzazione artistica del paesaggio postsismico. Che peraltro, adottando un metodo strutturalista, decostruimmo in opere provvisionali, rovine e macerie: tre materiali da cui ripartire per ricostruire la storia con gli stessi detriti della storia. Ovvero per ricostruire non solo luoghi, ma anche e soprattutto identità.
Sia nell’Accademia che nell’Università attivammo molte iniziative didattiche e organizzammo molti workshop dedicati, ma l’occasione più preziosa ci fu concessa dalla Regione Umbria che, consapevole della necessità di non potersi limitare a gestire l’emergenza, mi propose di coordinare un’équipe interdisciplinare incaricata di progettare un’installazione per il Fuorisalone Milano 2018 capace di guardare oltre il terremoto senza obliare il dramma del terremoto.
Una sfida difficile da molti punti di vista. Non a caso la genesi ideativa fu lunga e sofferta: fino a quando non mi capitò di leggere occasionalmente la Direttiva per le procedure di rimozione e recupero delle macerie di beni tutelati e di edilizia storica (emanata dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo il 12 settembre 2016), che gerarchizzava in modo perentorio le “macerie di beni tutelati” e le “macerie dell’edilizia storica” (appellate rispettivamente “macerie di tipo a” e “macerie di tipo b”) rispetto alle “macerie di edifici moderni privi di interesse culturale” (appellate “macerie di tipo c”). La lettura del documento ministeriale sollevò in me una serie di interrogativi cui non riuscivo a dare una risposta. Perché le “macerie di tipo a” e le “macerie di tipo b” dovevano essere “salvaguardate in situ” e dovevano essere rimosse con “modalità straordinarie”, mentre le “macerie di tipo c” non dovevano essere salvaguardate e potevano essere rimosse con “modalità ordinarie”? Perché le “macerie di tipo a” e le “macerie di tipo b” dovevano essere selezionate per poi essere ricoverate in una situazione protetta, mentre le “macerie di tipo c” potevano essere raccolte in modo indifferenziato per poi essere sepolte e dimenticate in una discarica? Perché discriminare le “macerie di edifici moderni privi di interesse culturale”: non erano anch’esse pregne dei ricordi e delle speranze di chi aveva vissuto, amato e odiato all’interno delle case da cui esse provenivano? Forse che i sentimenti valgono meno dell’opera d’arte che li vuole provocare?
... l’eterna diatriba “dov’era e com’era/né dov’era né com’era/dov’era ma non com’era”
Inizialmente trovai le risposte alle mie domande in altri ambiti disciplinari. Soprattutto nell’arte contemporanea (da Iannis Kounellis a Claudio Parmiggiani fino ad Ai Weiwei) e nell’antropologia contemporanea (da Anthony Oliver-Smith a Marc Augé fino a Vito Teti). Ma poi le trovai anche nell’architettura contemporanea, segnatamente nel Museo di Storia realizzato da Wang Shu a Ningbo e nel rifugio temporaneo progettato da Shigeru Ban per i senzatetto del Nepal: due architetture fondate proprio sull’utilizzo di materiali costruttivi recuperati da edifici crollati. Mi ripresi d’animo: forse, superando l’eterna diatriba “dov’era e com’era/né dov’era né com’era/dov’era ma non com’era”, si poteva cominciare a pensare anche a ricostruire dovunque e comunque “con ciò che c’era” ovvero con le macerie.
Ripensai così alla scena finale del film Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni, contrassegnata dall’esplosione di frammenti di suppellettili, di librerie, di vestiti, di elettrodomestici, di cibarie e di molti altri beni di consumo eletti a icone del benessere e del dominio ideologico.
In quel preciso istante capii che con la nostra installazione, che avevamo deciso di titolare CANAPA NERA in omaggio al fiume da cui prende il nome la Valnerina, non dovevamo parlare solo del passato, ma dovevamo parlare anche del futuro. Né tantomeno dovevamo parlare solo di decostruzione, ma dovevamo parlare anche di ricostruzione.
Mi confrontai con gli altri componenti dell’équipe e fummo tutti d’accordo sull’opportunità di presentare in mostra un’opera concettuale. Optammo così per un lungo muro bifronte, caratterizzato da un lato da un’esplosione caotica di macerie, che prelevammo dopo un lungo iter burocratico nella discarica di Misciano selezionandole con una cura quasi archeologica, e dall’altro da un polittico composto da undici grandi tele di canapa, che Daniela Gerini pittò con grande sensibilità ispirandosi alle trame e ai colori che ogni primavera, in occasione della fioritura, tappezzano Pian Grande. Ma non eravamo ancora soddisfatti: volevamo essere ancora più incisivi. Così decidemmo di suggellare l’installazione con uno slogan (“guardavo le macerie e immaginavo il futuro”), registrato dai miei studenti in occasione dell’intervista a un giovane sfollato dal centro storico di Norcia, che eleggemmo a sottotitolo proprio perché capace di traghettare verso il futuro (ovvero oltre il terremoto) i ricordi e le speranze della popolazione della Valnerina.
Sono passati molti mesi dal Fuorisalone Milano 2018 e CANAPA NERA ha raccolto molti consensi.
Tanto da essere riallestita nel Salone d’Onore della Rocca Albornoz in occasione del 61o Festival dei Due Mondi di Spoleto. Ma ciò che mi ha gratificato di più non sono state le recensioni positive che ho letto sulle pagine delle riviste specializzate, ma la commozione che ho letto sui volti delle persone comuni mentre erano intente a mandare a memoria lo slogan o a toccare con riguardo le macerie. Forse perché, memorizzando uno slogan e toccando delle macerie, hanno cominciato a salire i gradini della cultura (oltre che della solidarietà) e hanno potuto guardare il paesaggio postsismico da un punto di vista nuovo. Come aveva fatto tanti anni prima Maria Reiche nel deserto di Nazca.
Committenza: Regione Umbria
Coordinamento generale: Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia
Concept e progetto dell’allestimento:
Università degli Studi di Perugia (Paolo Belardi)
Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia (Paul Henry Robb, Matteo Scoccia)
Concept e realizzazione delle opere d'arte su tela di canapa:
Studio Daniela Gerini di Milano (Daniela Gerini)
Supporto tecnico:
Museo della Canapa di Sant’Anatolia di Narco (Glenda Giampaoli)
Allestimenti:
Milano, Fuorisalone Milano 2018, Ca’ Granda, Cortile Centrale,16-28 aprile 2018
Spoleto, Festival dei Due Mondi, Rocca Albornoz, Salone d’Onore, 29 giugno-15 luglio 2018
Realizzazione:
Totem (Milano)
Katana Service (Spoleto)
Fotografie:
Federico Monti (Milano)
Giovanni Tarpani (Spoleto)
CANAPA NERA: il comunicato stampa
Un’installazione che fa leva sul cuore, ma anche sulla responsabilità collettiva di ognuno. Un algido muro bifronte si innalza nel Salone d’Onore della Rocca di Spoleto per raccontare in un mix alchemico la storia di un popolo coraggioso, quello della Valnerina. Da un lato c’è il grigio, memoria della pietra urbana della Basilica di San Benedetto a Norcia, dall’altro i colori esplosivi della fiorita di Pian Grande di Castelluccio.