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Calcestruzzo e corrosione, Schvarcz: "Svincolarsi dai limiti prescrittivi introducendo dei valori limite dimostrabili in laboratorio"

In questa intervista del nostro Editore e Direttore Andrea Dari a Riccardo Schvarcz si parla come progettare e prescrivere il calcestruzzo al fine di evitare problematiche di corrosione delle armature.
Inoltre, viene affrontato il tema della sostenibilità del materiale, che secondo Schvarcz va valutato lungo tutto il ciclo di vita.

L'impiego di cemento a basso tenore di clinker riduce l'azione aggressiva di agenti chimici esterni 

Andrea Dari: 

Alla luce delle nuove tecnologie, all’uso dei cementi di miscela così come di prodotti speciali, a tuo parere si dovrebbe superare la prescrizione del rapporto acqua/cemento per andare nella direzione di una richiesta prestazionale, per esempio sui limiti della penetrazione cloruri e penetrazione acqua?

Riccardo Schvarcz:

Da tempo, a mio parere, si dovrebbe andare oltre le prescrizioni delle normative tecniche per quanto attiene la durabilità del conglomerato cementizio in relazione al rapporto acqua/legante.

Il calcestruzzo e l’acciaio possono essere sostanzialmente soggetti ad un attacco carbonatico, da cloruri o attacco solfatico, che in funzione del contesto ambientale in cui si trovano vengono aggrediti chimicamente attraverso la penetrazione e la propagazione di tali agenti esterni, il contesto stesso (temperatura, umidità, pH, ecc) ne accelera o meno la velocità di avanzamento.

Per ognuna delle 4 classi ad esempio XC la UNI 11104 (istruzioni complementari per l’applicazione delle EN 206-1) impone dei limiti individuando un contenuto minimo di cemento e un massimo rapporto a/c. Il massimo valore di a/c consentito passa da 0,60 per classi di esposizione XC1 ed XC2 a 0,50 per la classe XC4.
La UNI 11104 impone anche una resistenza a compressione minima: tale richiesta serve a garantire una certa permeabilità del calcestruzzo.
Le prescrizioni non si esauriscono con in vincoli riguardanti la composizione del calcestruzzo ma devono essere completate con quelli relativi allo spessore del copriferro. I valori minimi di spessore di copriferro previsti dall’eurocodice 2 variano da 10 a 30mm, passando dalla classe XC1 alla XC4. Per garantire una vita di servizio dell’ordine di 50 anni.

Sicuramente l’impiego di cementi diversi da quelli ad alto tenore di calcare, in particolare quelli attuali a basso tenore di clinker, favorisce o meno l’azione aggressiva di agenti chimici esterni, come quelli pocanzi menzionati.

L’argomento è piuttosto complesso, ma ritengo opportuno svincolarsi dai limiti prescrittivi introducendo invece dei valori limite, paragonabile al copriferro di progetto, dimostrabili attraverso adeguate prove di laboratorio.

Se pensiamo ad esempio alla carpenteria metallica (pali, palancole, micropali, ecc), diverse sono le esperienze e prove effettuate in sito che permettono di dare come indicazione utile per un acciaio al carbonio soggetto all’attacco da cloruri di mare posto a contatto con l’acqua di mare, nel caso di corrosione media uniforme di tipo generalizzato una velocità di attacco di 70-100 μm/anno.

Ecco, secondo me, dovremo arrivare a questo, ossia qualificare la miscela in conglomerato cementizio con legante e rapporto a/l idoneo che soggetto, ad esempio, ad una penetrazione di anidride carbonica (CO2) la velocità di penetrazione nel primo anno risulti ad esempio di 1000 µm/anno per gli anni a seguire di 500 µm/anno, pertanto potrà essere determinabile in 50 anni, nel calcestruzzo in questione, un degrado generalizzato pari a circa 25500 μm, ossia 2,55 cm confrontabile con il copriferro previsto da progetto. Nel caso in cui il copriferro fosse di 3 cm, significa che la miscela è adeguata e non necessità di protezione ma solo di ordinaria manutenzione, nel caso in cui fosse stato necessario prevedere un copriferro di 2 cm vi sarebbe la necessità o di studiare una miscela diversa o di prevedere una protezione superficiale adeguata (di sacrificio).

Riccardo Schvarcz

Andrea Dari:

Nella prescrizione del calcestruzzo dovrebbe essere eliminata la parte di prescrizione a favore di una maggiore esplicitazione delle indicazioni prestazionali lasciando al fornitore di calcestruzzo la libertà di individuare il mix design più corretto per soddisfare le esigenze del progetto e dell’impresa?

Riccardo Schvarcz:

Come già indicato in precedenza, sono parzialmente d’accordo sul fatto di eliminare la prescrizione e dare maggiore libertà nell’individuare il mix design più corretto.
Se pensiamo però ai piccoli lavori, purtroppo, per modus operandi e per poca conoscenza del tema, il rischio potrebbe essere il proliferare di mix design senza una vera validazione di ciò che si sta facendo.

Il tema, a mio avviso, è particolarmente delicato: andrebbe proposta a livello normativo la soluzione A, “conforme”, che rimanda alle prescrizioni attuali o eventualmente aggiornate in funzione dei materiali attuali, e una soluzione B, “in deroga alla normativa cogente”, validata dal progettista e dalla Direzione dei Lavori. Il numero di campionamenti da effettuarsi in fase di pre-qualifica dovrebbe essere significativo, almeno 15 prelievi per miscela omogenea; in fase di esecuzione invece si potrebbe ipotizzare di ridurre il numero di prove a discrezione della D.LL..

Andrea Dari:

Oggi la norma UNI EN 206 sulla durabilità è più focalizzata sul calcestruzzo all’interno dello specifico ambiente che all’opera nello specifico ambiente. Qual è la tua valutazione, ovvero, è corretta questa impostazione, oppure la norma dovrebbe essere meno prescrittiva e più limitata alle prestazioni oppure dovrebbe scendere in maggiori dettagli prescrittivi per ogni soluzione?

Riccardo Schvarcz:

Questa è una domanda complessa! Certamente andrebbe valutata la durabilità dell’opera nello specifico contesto ambientale, anche in funzione dei possibili cambiamenti climatici, ai reali interventi di manutenzione ordinaria e ai sistemi di protezione passiva messi in campo (intonaci, malte, rivestimenti, ecc).
In questo momento trovo estremamente complesso un ragionamento così ampio, richiederebbe per i professionisti conoscenza ed esperienza sui materiali da costruzione, pertanto, già lavorare bene prestando la massima attenzione, ci permetterebbe di raggiungere ottimi risultati.

Andrea Dari:

L’impatto sulla sostenibilità del calcestruzzo dovrebbe essere considerato a partire dall’impronta di CO2 del calcestruzzo stesso o considerando il ciclo di vita completo dell’opera?

Riccardo Schvarcz:

Approccio diffuso ormai da qualche anno anche grazie alla crescente importanza assunta dal tema della sostenibilità in edilizia, il concetto di ciclo di vita di un edificio/infrastruttura prende in considerazione tutte le fasi che vanno dal concepimento di un’opera fino al termine della sua vita utile, al fine di calcolarne i relativi costi (e, ove richiesto, l’impatto ambientale di tali attività).
In particolare, di esso fanno parte le quattro fasi della progettazione, della costruzione, della gestione del bene e della sua manutenzione, riqualificazione o dismissione, con la terza a presentare la maggiore incidenza sui costi complessivi dell’opera.

Un aspetto interessante per il calcestruzzo è una reale valutazione nel campo dell’efficienza energetica, per esempio, il risparmio energetico derivante dall’utilizzo di strutture in calcestruzzo nella fase di esercizio, potrebbe compensare facilmente il valore di energia consumata per la loro costruzione e installazione.
Il rapporto tra l’energia consumata durante la fase di costruzione e quella di utilizzo dipende dalla durata del periodo preso in considerazione (per le strutture in calcestruzzo secondo NTC 2018, si parla di 50 o 100 anni).
In altre parole, è necessario che la durabilità “potenziale” (ciclo di vita) del conglomerato cementizio venga totalmente espressa attraverso una buona progettazione, riducendo al massimo gli interventi di manutenzione.
Alcuni vantaggi dell’impiego di calcestruzzo nelle strutture possono in via indicativa essere:

  • durata dell’opera, particolarmente significativa (50 – 100 anni);
  • il calcestruzzo attraverso il processo della carbonatazione assorbe CO2 dall’atmosfera;
  • l’impiego di cementi di miscela, grazie a sistemi di additivazione avanzata, consente di ridurre le emissioni dei gas serra derivati dal processo produttivo e di riutilizzare materiali di scarto di altre lavorazioni;
  • il calcestruzzo stesso, attraverso una specifica additivazione, può essere confezionato con significative quantità di aggiunte derivanti dallo scarto di altre produzioni (energetiche e di materiali ferrosi) contribuendo così a ridurre ulteriormente le emissioni di CO2;
  • la produzione ed il trasporto del calcestruzzo avvengono all’interno di aree limitate, contribuendo alla riduzione di gas di scarico dovuti al trasporto.

Oggi per la produzione di clinker, materia prima utilizzata per la produzione del cemento, entrano diversi prodotti sia recuperati dai combustibili impiegati, quali plastica, rifiuti domestici e industriali, che di altra origine; nel clinker entrano anche materiali quali cenere proveniente dalla combustione del legno, cenere come residuo della combustione della carta, ceneri provenienti dalla raccolta e abbattimento dei fumi, materiali provenienti da demolizione, cenere di carbone, scaglie di laminazione ferrose, cenere proveniente da inceneritore.

All’interno del clinker si possono riciclare materiali rifiuti anche sopra il 5% e recuperarne tra 1%-2%.
Attualmente in commercio si possono utilizzare cementi con basso contenuto di clinker pari a circa il 60% - 70% e il 8%-12% di loppa (sottoprodotto), il 6%-7% di gesso (la cui metà è sottoprodotto), calcare naturale al 8%-11% ed altre aggiunte minori.
Ciò significa poter utilizzare un cemento con circa il 3% di pre+post consumer, 1% circa di recuperato da combustibili e 21% circa di sottoprodotto.
Il mercato europeo sta andando in questa direzione, senza stimare la riduzione di impatto sui cambiamenti climatici mediante l’utilizzo di combustibili alternativi al carbone (coke).

Andrea Dari:

Ritieni corretto classificare la sostenibilità di un calcestruzzo in base al suo contenuto di cemento (tenendo conto del suo EPD) e degli aggregati di riciclo o ritieni che sia un’indicazione non corretta perchè può spingere committenti e progettisti a compiere scelte pregiudiziali che non tengono conto degli aspetti collegati all’opera completa?

Riccardo Schvarcz:

L’analisi, come già sopra indicato, va fatta nel suo complesso. È chiaro che se si confronta il calcestruzzo con un altro materiale, è facile giungere a comprendere che il suo impatto sull’ambiente sia significativo. Diverso è valutarlo sull’intero ciclo di vita, dalla produzione dei suoi componenti fino alla sua demolizione e riciclo a fine vita.

Andrea Dari:

Ritieni che alla luce dell’evoluzione tecnica del calcestruzzo sia necessario impostare un nuovo modo di presentare il calcestruzzo oppure è corretto mantenere un’impostazione allineata alla EN 206 come oggi?

Riccardo Schvarcz:

Credo di aver già risposto a questa domanda se ripensiamo al secondo quesito; vedrei un riesame della normativa permettendo, per i più avanzati e strutturati, di dare la possibilità di qualificare il calcestruzzo andando a determinare la profondità di degrado e valutarne la coerenza con i parametri e i requisiti di progettazione

Andrea Dari:

La norma EN 206 andrebbe semplificata riducendo le prescrizioni su componenti e calcestruzzo, puntando su una maggiore responsabilizzazione del produttore e fornitore, oppure aggiornata alle nuove soluzioni aumentando il livello di dettaglio prescrittivo?

Riccardo Schvarcz:

Il mercato non è pronto ad essere responsabile di ciò che fa, il rischio è abbassare l’asticella della qualità del prodotto e non di migliorarla. Basti pensare quale risultato abbiamo raggiunto con la certificazione FPC, anziché avere impianti di produzione con mescolatori fissi per la produzione di calcestruzzo a fluido, abbiamo ancora impianti in manuale, semi-automatici, vetusti e in alcuni casi non strutturati per accogliere un numero sufficiente di componenti.
Premierei il merito, ossia coloro che producono con coscienza e conoscenza, permettendo di attuare anche dei risparmi economici dimostrando realmente il risultato raggiunto in conformità con i requisiti richiesti. Punterei sulla “prestazione sostenibile efficace”, che garantisca nel tempo i requisiti di progetto, in termini di resistenza meccanica, durabilità, lavorabilità, manutenibilità.

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