Biorestauro: una nuova frontiera per la Conservazione dei Beni Culturali
Il moderno approccio alla conservazione dei beni culturali non mira a ripristinare uno stato originario impossibile da recuperare, ma a trasmettere i loro valori materiali e immateriali dell'opera. In questo contesto, la biopulitura emerge come una tecnica innovativa, sostenibile e rispettosa dei materiali originali, in grado di rimuovere depositi senza danneggiare i materiali originali. Le ricerche condotte da ENEA confermano l'efficacia di questa metodologia.
Biotecnologie microbiche nel contesto del Biorestauro
L’individuazione di modalità innovative nel settore della conservazione dei beni culturali costituisce per il nostro Paese una sfida di immensa importanza alla luce di molteplici aspetti.
Nel campo del restauro si profila l’esigenza di limitare l’utilizzo di prodotti nocivi, che possono provocare effetti tossici negli operatori e danneggiare le opere stesse, per la loro aggressività verso alcune loro componenti. È necessario identificare metodi e tecniche che possano garantire ottimi risultati sull’opera e al tempo stesso non costituire un rischio per i restauratori.
In questo contesto il biorestauro, che si basa sull’applicazione di biotecnologie microbiche, ha un forte potenziale innovativo per lo sviluppo di nuovi prodotti per il restauro, sia nel consolidamento che nella pulitura.
I prodotti del metabolismo cellulare garantiscono una estrema selettività verso i depositi e le patine da rimuovere senza alterare il materiale originario. I microorganismi impiegati nel biorestauro sono soprattutto batteri di origine ambientale, non patogeni e non modificati geneticamente, sono innocui per gli operatori e di facile impiego, poiché non richiedono condizioni operative stringenti e non pongono problemi di smaltimento.
La ricerca dell’ENEA - grazie anche alla collaborazione di un gran numero di restauratori, Sovrintendenze e Musei - ha sviluppato negli ultimi 10 anni una vasta casistica con applicazioni per la rimozione di patine di natura proteica, resine e polimeri sintetici usati come protettivi su dipinti e tele; grassi e olii, patine inorganiche e prodotti di ossidazione da superfici lapidee.
Una nuova frontiera per la Conservazione dei Beni Culturali
Lo sviluppo di strategie di conservazione e di restauro più sostenibili e l’attuazione di investimenti adeguati che le sostengano sul piano nazionale diventano fattori chiave per rispondere ai nuovi indirizzi, in accordo con i principi di compatibilità e ritrattabilità scaturiti dalle riflessioni attorno ai Beni Culturali avvenute dalla Carta di Venezia (1964) in poi.
Naturalmente, l’individuazione di modalità innovative nel settore della conservazione dei beni culturali costituisce per il nostro Paese una sfida di immensa importanza alla luce di molteplici aspetti.
Nel campo del restauro si profila l’esigenza di identificare metodi e tecniche che possano garantire ottimi risultati sull’opera e al tempo stesso non costituire un rischio per la salute dei restauratori. Tale compito rappresenta una grande sfida, comune per il mondo dell’Arte, della scienza e della politica, data l’entità e la diversità degli oggetti coinvolti.
La risposta a questa sfida va ricercata nella possibilità di mettere a frutto le potenzialità della ricerca e dell’innovazione.
Ancora oggi, infatti, accade che opere d’arte e operatori siano esposti quotidianamente a rischi, a causa dell’utilizzo di prodotti nocivi che possono provocare effetti tossici negli operatori- principalmente quando impiegati in situazioni indoor- e danneggiare le opere stesse, per la loro aggressività verso alcune loro componenti. In questo contesto, le biotecnologie microbiche hanno un forte potenziale innovativo per lo sviluppo di nuovi prodotti per il restauro (biorestauro), sia per problemi di consolidamento che di pulitura.
I prodotti microbici sono selettivi verso i depositi da rimuovere, rispettosi del materiale originario, sono innocui per gli operatori e di facile impiego, poiché non richiedono condizioni operative stringenti, in termini di temperatura e pH, ad esempio, e non pongono problemi di smaltimento.
I microorganismi impiegati sono principalmente batteri, di origine ambientale, non patogeni e non modificati geneticamente, quindi sicuri e senza restrizioni di impiego. Sono stati selezionati da ambienti ostili, per la maggior parte da siti contaminati, dove hanno sviluppato - per adattamento - tratti metabolici di particolare interesse per utili applicazioni biotecnologiche.
In laboratorio vengono isolati, identificati, studiati e conservati nella collezione microbica dell’ENEA alla temperatura di -80°C. In base alle loro caratteristiche, possono essere guidati ad esprimere le funzioni desiderate, utili, ad esempio, per rendere l’agricoltura più sostenibile sostituendo i fertilizzanti e riducendo l’irrigazione; per bonificare i siti contaminati mantenendo vive le funzioni del suolo oppure - come in questi casi-per pulire opere d’arte senza usare prodotti tossici e aggressivi.
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Il processo di biopulitura
L’attività vitale di una cellula è basata sul suo metabolismo e soggetta a sistemi di regolazione che le permettono di adeguarsi alle condizioni in atto, modulando la produzione di numerosissime molecole, inclusi gli enzimi, già noti nel restauro, ma poco utilizzati per i costi e le condizioni operative stringenti.
Il termine biopulitura indica una procedura che usa microrganismi o loro prodotti come agenti per rimuovere depositi o substrati indesiderati di qualunque origine. La messa a punto di questa procedura prevede fasi di lavoro in sequenza, attraverso le quali si arriva a definire la sua applicazione sull’opera con alta probabilità di successo:
- una diagnosi analitica dei substrati da rimuovere,
- la selezione in laboratorio dei microrganismi in base alla natura del deposito da rimuovere,
- l’allestimento di provini che riproducano il più fedelmente possibile le condizioni del manufatto da trattare,
- il monitoraggio dopo il trattamento per essere certi di non lasciare residui di cellule.
La procedura di biopulitura prevede l'utilizzo di batteri vivi coltivati in gran numero (circa un miliardo di cellule per ml di terreno di crescita), centrifugati per eliminare il terreno di crescita e immobilizzati all’interno di un gel inerte compatibile con la vitalità delle cellule e adeguato ad assicurare le condizioni ottimali di umidità e pH per il tempo necessario (Figura 1).
In casi particolari i batteri vengono applicati “affamati”, cioè tenuti almeno 24 ore nel gel in assenza di nutrienti, per favorire il loro “appetito” verso i substrati organici da rimuovere e rendere più efficace il trattamento di rimozione. Si ottengono così impacchi di cellule microbiche detti micro-pack facilmente applicabili sulle superfici da trattare - anche se verticali o soffitti - e facilmente rimovibili senza lasciare residui.
Questi micro-pack non richiedono condizioni operative stringenti in termini di temperatura e pH e non hanno problemi di smaltimento. Il micro-pack può essere convenientemente preparato su un tavolo di appoggio oppure direttamente sull'oggetto da trattare. Nel primo caso, viene prima adagiato un film plastico, che preserva l'umidità durante il trattamento, seguito da una carta velina leggermente inumidita (es. carta giapponese), poi uno strato di supportante in cui sono stati inglobati i batteri, seguito da un altro strato di carta. L'interposizione della carta facilita l'applicazione e la rimozione del micro-pack e consente ispezioni periodiche per verificare lo stato di avanzamento del processo. Tuttavia, l'opportunità di interporre carta può essere valutata di volta in volta, in base alla situazione specifica; il contatto diretto con il materiale originale a volte può rivelarsi più adatto. Dopo la rimozione, un tampone umido o una spugna sono impiegati nella pulitura della superficie.
Il tempo di contatto del micro-pack dipende da vari fattori, quali la natura del materiale da asportare, lo spessore dello strato, l’attività metabolica del microrganismo, la natura e lo stato di conservazione dei manufatti.
Dal laboratorio all’opera d’arte: alcuni casi studio
I casi studio affrontati nei dieci anni di attività nel campo della biopulitura hanno spaziato tra tipologie di manufatti costituiti da diversi materiali (carta, pergamena, affreschi, dipinti murali e mobili su tela e su tavola, marmi) e diverse sostanze da rimuovere (colle, resine sintetiche e naturali, ossalati, gessi, carbonati, proteine, idrocarburi, olii, ossidi di metalli).
Questi interventi sono stati realizzati con ceppi batterici diversi, a seconda della tipologia di patina da rimuovere con le procedure messe a punto nel nostro laboratorio, grazie alla curiosità e alla lungimiranza di tanti restauratori e in collaborazione con numerose Ditte di restauro, Musei, Sovrintendenze, Scuole di Alta Formazione per il Restauro. Ecco di seguito degli esempi di applicazione dei batteri per la rimozione delle patine che alteravano le opere d’arte.
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L'articolo prosegue illustrando due specifici casi studio in cui ENEA ha impiegato processi di biopulitura:
- La tela del “Martirio di san Giacomo”, Chiesa di S. Giacomo (Soriso, Novara)
- Madonna del Parto di Jacopo Sansovino, Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio (Roma)
Ringraziamenti - Le autrici vogliono ringraziare tutte le persone che a vario titolo hanno collaborato nella realizzazione degli interventi di biorestauro (restauratori, studenti, colleghi ed ex colleghi). Parte del lavoro è stato svolto all’interno del Progetto “Tecnologie microbiche per il BIO-Restauro” finanziato con il 5x1000 all’ENEA.
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