Architettura resiliente nell’ambiente di lavoro
Una volta che il cantiere edile è terminato prende inizio l’utilizzo dell’edificio. È sempre stato così e tutto avviene senza soluzione di continuità. Sembra quasi che questi due mondi facciano di tutto per non incontrarsi.
Approcciando temi quali sicurezza sul lavoro, benessere e produttività, questo contributo affronta l’Architettura non come edilizia nobilitata, scienza, arte o disciplina, bensì come Cultura e come tale presente in ogni aspetto del rapporto tra l’uomo e i suoi manufatti.
Una riflessione, in approccio multidisciplinare, per individuare i termini della questione ed aumentarne la consapevolezza.
Luogo fisico e sicurezza sul lavoro: inquadriamo la questione
I luoghi nei quali svolgiamo le nostre mansioni lavorative, sono spazi progettati sulla base di alcuni standard dimensionali definiti per legge tra i quali i rapporti aeroilluminanti, le caratteristiche tecniche degli impianti tecnologici, le proprietà e le prestazioni dei materiali edili ecc.
I requisiti che questi ambienti devo avere sono normati da regolamenti locali d’igiene, da normative a tutela della salute e della sicurezza dei luoghi di lavoro (in primis certo il D.lgs. 81/2008, ma non solo) e dalle norme tecniche di riferimento, anche se non sempre tali requisiti sono perfettamente allineati e delineati, il che lascia spazio ad intercapedini interpretative ed arbitrarie.
Certo, c’è da fare una netta distinzione tra settore secondario e terziario, tra ambiti produttivi e servizi. Con riguardo al luogo fisico, gli ambienti produttivi necessitano infatti di un approccio più rigido e tecnico.
Vediamo perché il soddisfacimento degli standard dimensionali citati all’inizio non può essere sufficiente e di come alle norme di settore non possano essere tout court derogate le nostre salute, benessere e produttività.
Architettura e sicurezza sul lavoro: un rapporto di bilateralità
La progettazione dell’ambiente di lavoro non può e non deve ricondursi al solo rispetto delle conformità richieste dalla Legge, ma deve considerare l’intera dimensione umana, ovvero l’interazione tra ambiente e fruitore nonché la sua evoluzione, per soddisfarne tutte le necessità biologiche.
L’analisi progettuale deve includere la qualità della prestazione, l’impatto sui rischi psico-fisici dei lavoratori, direttamente correlati alle condizioni tecniche e fisiche in cui gli è consentito operare. Una progettazione che diventa così misura di prevenzione strategica per la mitigazione dei rischi, un modo di pensare alla sicurezza e più in generale, un atteggiamento verso i lavoratori, futuri destinatari di quegli spazi.
L’ambiente costruito inclusivo della persona è, per i datori di lavoro, la chiave per investire sul loro benessere ed aumentarne la produttività. L’idea che ne scaturisce è quella allora di un nuovo bisogno da rivolgere all’Architettura, ovvero darle quale obiettivo strategico di ampio respiro la progettazione di ambienti di lavoro che vadano oltre la mera applicazione delle indicazioni prescrittive, mettendo al centro il lavoratore, considerando tutti i parametri della quale dispone: estetica, comodità, praticità, efficienza, economicità, impatto sociale, benessere psicologico e molto altro.
Il rapporto tra architettura e tutela della salute e della sicurezza sul lavoro non costituisce oggi una relazione assiomatica.
Un divario che va senz’altro colmato, a partire dall’approccio culturalmente pregiudiziale che gli operatori del settore edile hanno molto spesso nei confronti dell’Architettura, che deve essere percepita come una multi-disciplina nella quale concorrono aspetti tecnici ed artistici ma che sa, all’occorrenza, essere funzione e rappresentazione di chi la usa. I lavoratori non possono e non vogliono essere sottratti dal loro ruolo di fruitori, a favore di quella sterile opinione che vede l’architettura contrapporsi alla praticità. Ma purtroppo possiamo scorgere ovunque nei nostri paesaggi, l’anonimo e piatto assoggettamento dello spazio alle esigenze della produzione, dettato esclusivamente da esigenze di: economicità, rapidità di esecuzione e mera rispondenza alla normativa.
La rapida fatiscenza dello scadente patrimonio immobiliare ha subito fatto emergere l’inadeguatezza e l’incapacità a soddisfare le nuove esigenze di una società in rapido mutamento. Ed è in questi anni che negli atenei di tutto il mondo si fa strada una disciplina di settore chiamata architettura bioclimatica, che considera il benessere antropico quale prerogativa per la progettazione “ex novo”, ma soprattutto si pone l’obbiettivo di dotare di una maggiore qualità abitativa quel patrimonio edilizio sorto nel trentennio del dopoguerra, caratterizzato dall’uso di materiali, tecnologie e maestranze scarsamente qualificate.
Sicurezza, benessere e produttività in relazione all’ambiente costruito
Per progettare correttamente uno spazio di lavoro vanno considerati dunque, oltre ai rischi fisici, anche le necessità di natura psico-sociale, quali: il bisogno di concentrazione, di collaborazione, di apprendimento e socializzazione, oltre ad una serie di esigenze prettamente individuali.
Il tema della reattività umana ai segnali uditivi e visivi è un fattore che si muove in due direzioni: verso spazi adibiti ai bisogni individuali, come la concentrazione, e verso luoghi dedicati al meeting, nelle sue numerose declinazioni. Illuminazione, cromatismi, geometrie e scelte materiche concorrono a modellare lo spazio fisico nel quale si manifesta il nostro comportamento, che a sua volta si ripercuote sullo spazio fisico che lo ha generato. Vediamo come.
L’atmosfera che avvertiamo sul lavoro, direttamente correlata anche al design del workspace, trasmette emozioni ed energia che impattano sul benessere psico-fisico dei lavoratori. Pensiamo ad esempio alla luce naturale, alla presenza delle piante, all’esercizio fisico e alla socializzazione. L’attenzione va posta anche ai materiali, tradizionali o innovativi, naturali (legno, alghe, fibra di lino) o ricompositi, derivanti da processi di riciclo. Dimostrato è, ad esempio, come la presenza di verde e di elementi naturali incrementino le capacità di attenzione, così come l’influenza che il design può avere sull’autostima dei lavoratori e nella psicologia del lavoro, elementi preziosi che si assimilano e ripropongono nei comportamenti lavorativi. La possibilità di personalizzazione della postazione di lavoro aiuta poi l’amplificazione del benessere mentale. Il workspace può fare la differenza, ha il potere di ridurre i tempi di risposta reattiva, attivando (o sopprimendo) anche il pensiero creativo.
Riorganizzare il workspace significa evidenziare il ruolo del simbolismo organizzativo nel presentare la cultura aziendale e nel proiettare i valori condivisi. Tutto ciò si riflette nel più grande motore di cui ha bisogno l’azienda, la fiducia del team e dei singoli. Ed è proprio il rapporto di fiducia che sembra essere il nodo cruciale della nuova organizzazione del lavoro, sdoganata dalla recente pandemia. Non si fa riferimento ai cosiddetti spazi gadget (canestri, biliardini o spazi fitness) da pensare come isolati ma, in termini più ampi, alla necessità di una progettazione che possa valorizzare il senso di appartenenza e un’atmosfera positiva e motivazionale, da pensare come chiave di crescita anche in termine di produttività.
Negli anni dello smart working la leadership basata sul controllo a vista del dipendente entra in crisi e con lei anche gli ambienti di lavoro ad essa ispirati, caratterizzati da open-space e fila di scrivanie. Una progettazione che riflette lo stile di gestione militare: se vedo i dipendenti li posso controllare. Una sensazione di controllo comunque falsa, poiché non serve alzarsi dalla scrivania per interrompere il flusso del lavoro. Come, all’opposto, risulta fuorviante pensare che mettere un’altalena, un tavolo da ping-pong e una sala relax possa servire ad istaurare un rapporto di fiducia, necessario per far scattare la scintilla della motivazione.
“Non esiste la ricerca dell’efficienza vera e propria ma si bada per lo più a un soddisfacente rapporto tra superiore e dipendente. Le aziende moderne hanno bisogno di collaboratori proattivi, l’autodeterminazione dipende da uno stato di auto-motivazione che a sua volta riflette un ambiente di lavoro che soddisfi le tre condizioni: autonomia, competenza e relazione. I tre presupposti della motivazione sul lavoro devono sussistere insieme. Il ruolo del progettista è quello di interpretare le migliori caratteristiche affinché l’ambiente le rispetti e le sviluppi. Uno spazio di lavoro capace di favorire l’autonomia per definizione non deve porre limiti ai dipendenti, quindi libertà di scelta sulla location e sui tempi. Un dipendente intrinsecamente motivato sceglierà sempre il luogo di lavoro e l’orario più efficiente possibile. Oggi per rispondere all’esigenza di un tipo di lavoro basato sulla creatività, occorre favorire un ambiente di lavoro con un approccio euristico (risolvere un problema creando una via d’uscita), al posto di uno algoritmico (seguire una linea continua fatta di compiti semplici e incasellati in un progetto).” (Cit. Nota 1)
Diversi sono gli studi scientifici che avvalorano la tesi per la quale il benessere aziendale è influenzato da fattori quali:
- flessibilità orari;
- sistemi di valutazione su performance;
- work life balance e, non per ultimo, anche spazi funzionali lavorativi che determinano il poter lavorare meglio.
Uso del colore ma anche quello di grafiche e pattern studiate ad hoc, consente di caratterizzare i diversi ambienti e diventa un mezzo per esprimere i valori e la filosofia aziendale, influendo sulla percezione dei lavoratori, incrementandone da un lato il senso di appartenenza e il coinvolgimento e, dell’altro, le abilità di pensiero divergente (fluidità, flessibilità, originalità, etc.).
L’organizzazione dell’area di lavoro in open space flessibili, l’integrazione con spazi ibridi, multifunzionali e di relax, l’affiancamento di phone booth per telefonate, videoconferenze o focus work, l’integrazione discreta della tecnologia negli elementi d’arredo per una rapida connessione e uno scambio costante di informazioni.
“In primo luogo, l’applicazione di soluzioni “su misura” per l’azienda, non più standardizzate ma individuali e personalizzate che favoriscano ed incentivino nuovi e differenti processi lavorativi. In secondo luogo, la presenza di spazi ibridi, flessibili e tecnologici che supportino le nuove esigenze comunicative, collaborative e di continuo cambiamento. Infine, la disponibilità di strumenti digitali e non ed elementi d’arredo che si adattano ai bisogni del lavoratore, non solo professionali ma anche e soprattutto fisiologici ed emotivi.” (Cit. Nota 2)
Architettura resiliente anche nel lavoro
In un mondo del lavoro dinamico e flessibile, è richiesto un approccio resiliente non solo alle persone ma anche ai luoghi. Spazi che sappiano reagire ai mutamenti e agli eventi imprevisti che si manifestano e colpiscono le attività. Dialogando così con gli elementi del tessuto e del contesto, si favorisce l’adattabilità, la trasformazione e l’eventuale ri-costruzione. Bisogna uscire dunque dalla più comune prassi costruttiva di riproduzione di ambienti rigidi, incapaci di adattabilità e dunque fragili. La nuova visione progettuale architettonica sul patrimonio urbano, nell’insieme ma anche nel singolo intervento su edificio, supera le dicotomie abbandono/riqualificazione, vecchio/nuovo, decrescita/sviluppo. L’approccio di tale visione è la cura di un equilibrio tecnologico, economico, sociale, ambientale e culturale. Il modo è valorizzare sempre l’identità in modo multidisciplinare. Unico fine legittimo è quello di generare qualità. L’architettura resiliente tende alla “non impronta”.
Una progettazione resiliente fissa il proprio baricentro tra adattabilità e trasformabilità, per sopravvivere a fenomeni esterni impattanti. Trasformabilità come capacità di modificarsi, definendo configurazioni alternative all’originaria. Opportune valutazioni coinvolgono tipi di rischio, eventuale riduzione di risorse, mutamenti socio culturali, previsione di nuovi cicli di vita. Nella strategia vi deve essere la valorizzazione di identità e rispetto delle esperienze passate. Tutto per elaborare scenari progettuali e modelli alternativi. Efficienza energetica, ma anche inclusione sociale e partecipazione sono temi a cui anche un progetto per ambiti lavorativi deve ricondurre.
Una progettazione dunque anche adattativa, che deve essere in rapporto di coevoluzione con il mondo del lavoro e ne deve ricalcare anche la dimensione valoriale e culturale. In tale ottica, cambia il lavoro, deve cambiare la progettazione dei luoghi di lavoro. Pensiamo a come è stata stravolta l’organizzazione del lavoro con la recente pandemia, non più definibile emergenziale, nonché alle trasformazioni sociali e relazionali avviate, il cui impatto è ancora difficile da valutare. Il lavoro da remoto ha rivelato delle opportunità a tante aziende, diventando un alleato per poter garantire continuità alla propria attività. La possibilità di svolgere i propri compiti da qualsiasi postazione cambia però gli scenari di rischio e apre le porte ad ambienti di lavoro plasmati non più intorno alla funzione, ma intorno alla persona.
Oggi, con lo smart working, il luogo di lavoro cambia completamente la sua concezione, diventa altrove, in un posto non precisato. Da qui l’idea, già sviluppata, di progettazione di posti di lavoro atipici all’aperto, rivalorizzando e riqualificando parchi cittadini. Un esempio di come la postazione di lavoro deve diventare sempre più a misura d’uomo, attenta alla soddisfazione complessiva dei lavoratori, per tutelarne il benessere, la salute e la sicurezza, in una progettazione che garantisca equilibrio tra opportunità, buon senso, utilità reale ed etica. Ogni lavoratore diventa il centro del proprio ambiente di lavoro e quest’ultimo si apre a visitatori e collaboratori occasionali, trasformandosi in spazi di co-working. Così come è cambiato il modo di intendere gli spazi di condivisione e collettivi di lavoro, che devono garantire sicurezza ma anche il contatto. Distanza, ma non divisione. Sale riunioni, aree di attesa e di conversazione vanno così ripensati.
I nostri luoghi di lavoro si devono adeguare a normative sopravvenute ma anche a comportamenti sociali che mutano. Le organizzazioni dovrebbero approfittare di questo momento per rivedere strategie a lungo termine. È necessario ripensare pertanto agli spazi e alle dinamiche interne alle attività lavorative. Il futuro del lavoro è in prospettiva dinamica e, come tale, dovranno essere gli ambienti destinati alle persone. Spazi multifunzionali in cui muoversi in diversi momenti legati a proprie mansioni. L’ambiente di lavoro diventa così ibrido, “diffuso”, fluido.
Le tematiche su cui riflettere investono dunque concetti chiave, quali: flessibilità e riconversione, versatilità di arredi e layout organizzativi ma anche riduzione degli affollamenti e programmazione dell’uso degli spazi. Progettare uffici e spazi di lavoro diventa un processo sempre più incentrato sull’organizzazione di ambienti al servizio del benessere e delle esigenze delle persone. La tecnologia diventa sempre più protagonista dello spazio di lavoro ed architettonico. Progettare così non è facile, il livello di entropia è elevato e le informazioni che servono sono numerose in un processo dinamico che consideri la fluidità del mondo produttivo moderno. Bisogna possedere skills tecnici ma anche cd. skills non tecnici, che siano in grado di interpretare trasversalmente le situazioni di rischio, cercando di mediare tra le esigenze di tutti gli stakeholders.
Tecnica, estetica, etica e studio antropologico per una buona Architettura
Una riflessione che vuole sollevare la necessità di un ruolo amplificato del progettista architettonico, che deve saper tradurre il progetto in processo, in opera capace di accogliere e considerare le “presenze” che in quella sovrastruttura dovranno lavorarci. Un'architettura che sia sempre meno rappresentazione di chi la progetta e sempre più la rappresentazione di chi la usa.
Un progetto che diventa così un impegno maggiore rispetto al semplice atto creativo o tecnico, che richiede competenze trasversali e necessità di confronto multidisciplinare. Il lavoro quindi che si riappropria del progetto, facendolo proprio. Questo vuol dire coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori nella realizzazione dell’opera, non in senso tettonico ma culturale.
Una buona Architettura amalgama tecnica, valori estetici, valori etici e studio antropologico.
È un invito ad un’architettura eteronoma, che si fa contaminare con la destinazione d’uso di quel luogo (in palinsesto è tutto compreso gli utenti), costruendo le aspirazioni dei lavoratori che in quel luogo trascorrono un tempo importante della propria vita. È un invito ad un'architettura partecipata, che fa incontrare chi progetta e chi quel luogo dovrà utilizzarlo. Non è una novità, lo diceva già nel 1972 G. De Carlo nel saggio "An Architecture of Partecipation" (3). La resilienza strutturale comprende così un’architettura che sostenga la sicurezza ed il benessere dei lavoratori nel senso più ampio. I luoghi di lavoro possono diventare così spazi di collaborazione dinamici e flessibili, che stimolano anche la produttività.
Architettura che deve dunque mette necessariamente al centro il soggetto, l’individuo, superando la bollente arroganza della nuda arte o della fredda neutralità tecnica. Ogni progettazione dovrebbe comprendere uno studio sui rischi psico-fisici degli ambienti di lavoro, per organizzare l’ambiente fisico a misura di uomo, commisurandolo strettamente a favorire la sicurezza ed il benessere di chi quello spazio deve utilizzarlo. Spazi al servizio della persona che devono essere quindi: ergonomici, belli, funzionali e versatili, per seguire l’evoluzione del cambiamento. In tale ottica l’architettura dovrebbe essere giudicata non nel momento in cui viene conclusa, vuota e ieratica, ma a posteriori, da chi vi trascorre il proprio tempo e utilizza quegli spazi. L’opera dovrebbe, in tal caso, essere giudicata anche per il ruolo assunto nel favorire o meno le condizioni di sicurezza e di benessere dei lavoratori. Il giudizio dell’opera non può trascendere dal giudizio sull’uso che se ne fa.
In fondo dire che l’architettura deve occuparsi del benessere psico-fisico dei lavoratori vuol dire che tutto ciò che può impattare con la tutela della salute e della sicurezza deve essere progettato in maniera integrata in ottica preventiva. Potrebbero aiutare in tal senso riferimenti e regolamenti tecnici meno frammentati e complessi che possano rappresentare un orientamento valoriale oltre che prescrittivo. Non che la definizione di parametri maggiormente pregnanti possa costituire la panacea di ogni problematica ma, se consideriamo che le norme costituiscono una bussola di riferimento fondamentale per stabilire ed indirizzare verso un comportamento condiviso, è chiaro che questo può costituire un primo problema ostativo nella gestione di tale aspetto.
Note
Nota 1: www.michaelpage.it
Nota 2: www. estratto da progettodesignebuild.com
Nota 3: Giancarlo De Carlo. An Architecture of Partecipation 1972 Royal Australian Institute of Architects. Serie Melbourne Architectural Papers
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L'architettura moderna combina design innovativo e sostenibilità, mirando a edifici ecocompatibili e spazi funzionali. Con l'adozione di tecnologie avanzate e materiali sostenibili, gli architetti moderni creano soluzioni che affrontano l'urbanizzazione e il cambiamento climatico. L'enfasi è su edifici intelligenti e resilienza urbana, garantendo che ogni struttura contribuisca positivamente all'ambiente e alla società, riflettendo la cultura e migliorando la qualità della vita urbana.