L’architettura è un atto politico e culturale
In un’epoca in cui alienazione e sradicamento segnano la quotidianità, l’architettura si rivela molto più che semplice design: è un atto politico, una scelta che determina l’identità collettiva e la partecipazione di chi abita i luoghi. Progettare significa schierarsi, generare relazioni, trasformare gli spazi in simboli di appartenenza, unendo funzionalità e valori condivisi. In questo modo, si costruisce futuro insieme.
Di questi tempi, invece che di "alienazione" sarebbe meglio parlare di "sradicamento" o di "estraneità". Infatti, l'alienazione presuppone un mondo totale e una persona totale che potrebbero essersi estraniati l'uno dall'altra, ma né la società multirete offre molte opportunità di esperirla come totalità, né i suoi membri modularizzati hanno molte occasioni di sviluppare l'autoconsapevolezza propria delle persone totali. Per i membri modularizzati della società multirete l'appartenenza diviene un problema importante; essa costituisce la loro preoccupazione quotidiana, anche se (o piuttosto perché) raramente trovano una soluzione soddisfacente, e difficilmente trovano una soluzione che possa essere ragionevole.
Architettura e appartenenza: ripensare il costruito tra alienazione, sradicamento ed estraneità
Le parole di Bauman inchiodano l’architettura di oggi a una responsabilità che non può essere ignorata. Alienazione, sradicamento ed estraneità non sono astrazioni teoriche, ma i sintomi tangibili di spazi urbani che perdono significato e di comunità che faticano a riconoscersi in ciò che le circonda.
Dovremmo chiederci se la corsa alla perfezione formale e alla standardizzazione tecnologica abbia soffocato la capacità dell’architettura di plasmare un senso di appartenenza, un’identità condivisa che sappia contrastare la disgregazione sociale.
Invece, proliferano gli edifici dalle superfici lisce e dai dettagli invisibili, le rigide zonizzazioni che separano con un colpo di matita il lavoro dalla vita privata, il residenziale dal commerciale.
Le cosiddette rigenerazioni urbane spesso non sono altro che un simulacro di parresia.
Gli urbanisti esibiscono le “Città 15 minuti” come mantra risolutivo, immaginando che accorciare le distanze tra abitare e servizi sia di per sé un antidoto alle forme più sottili di alienazione. Ma la verità è che la condizione di “società multirete” descritta da Bauman non viene affrontata soltanto con soluzioni logistiche, per quanto auspicabili: i legami territoriali si ricuciono anche attraverso il recupero delle storie locali, delle tracce materiali, delle imperfezioni che rivelano la vita e la stratificazione del passato.
L’imperfezione è spesso il segno di un corpo vivo: mattoni leggermente disallineati, intonaci che cedono, strade irregolari che impongono di rallentare il passo. Sono testimonianze di un lavorìo collettivo, di mani che hanno operato, di vite che si sono incrociate.
Un eccesso di “pulizia” e asetticità allontana le persone, perché non lascia spazio al loro intervento, non permette che si generino appropriazioni spontanee. Una facciata perfetta non racconta nulla di chi la abita; al contrario, un muro su cui qualcuno ha disegnato un graffito, diventa un frammento di narrazione comune, un punto di riferimento, un atto di ribellione o di semplice presenza che rifiuta l’anonimato.
Allo stesso modo, piazze e portici deformati dall’uso e dal tempo ospitano incontri e interazioni non programmate, micro-eventi che rafforzano i rapporti sociali più di qualsiasi piattaforma digitale. Eppure ci si ostina a considerare questi “difetti” come limiti progettuali, da cancellare con il prossimo progetto di riqualificazione, ignorando che proprio lì si annida il potenziale per ricostruire la connessione emotiva con i luoghi.
Nella Società di oggi l'essere umano rischia di smarrire il centro di se stesso
Sradicamento, dunque, non significa solo spostarsi da un luogo all’altro, ma perdere i riferimenti che generano appartenenza, smarrire la consapevolezza di abitare un contesto che ci rispecchia.
Le soluzioni tecnologiche, per quanto avanzate, non possono risolvere da sole il senso di estraneità se non si integrano in un disegno più ampio, attento alle radici sociali e culturali di un territorio.
La “modularizzazione” di cui parla Bauman si riflette in ambienti urbani che si costruiscono e si disfano con la stessa rapidità di un clic, come se il tessuto sociale fosse una piattaforma da aggiornare periodicamente. Questo alimenta un disagio profondo, perché laddove mancano radici e riconoscimenti, prevale la solitudine, e i luoghi si trasformano in vuoti scambiatori di flussi umani. Gli architetti e gli urbanisti hanno la responsabilità di invertire questa tendenza, di proporre edifici che non siano soltanto “efficienti” o “sostenibili” in termini di consumo energetico, ma che riescano a veicolare un carattere unico, un segno forte, una capacità di generare relazioni umane autentiche.
L’architettura dovrebbe essere espressione del Dasein, un luogo in cui l’essere umano ritrova il proprio esserci nel mondo, evitando lo sradicamento sociale che nasce da spazi anonimi e modularizzati, privi di radici e significato.
Pensare uno spazio comune non significa solo sistemare panchine e aiuole, ma attivare processi di identificazione e di partecipazione collettiva.
La fragilità dei legami sociali, oggi, non si può curare con scelte progettuali neutre, standardizzate o semplicemente tecnocratiche. Occorre uno slancio che riporti l’architettura nel vivo del discorso identitario: ascoltare la storia dei luoghi, coinvolgere chi li abita, valorizzare l’esistente anche quando appare imperfetto o “vecchio”, rinunciare a quella tensione ossessiva verso la levigatezza e l’astrazione.
Le città hanno sempre espresso l’anima del tempo: in epoche precedenti, però, i segni della mano umana – negli ornamenti, nelle irregolarità costruttive, nel tessuto viario – erano parte di un linguaggio condiviso che celebrava la comunità. Oggi questo linguaggio sembra smarrito fra progetti di rigenerazione urbana replicabili ovunque e palazzine dal design anodino. Dove prima c’erano piazze colme di storie, ora fioriscono spazi “polivalenti” privi di radici; dove c’erano quartieri vissuti, si ergono edifici patinati che non dialogano con chi ci vive.
Le città moderne rispecchiano questa crisi della narrazione. Gli spazi pubblici si svuotano di significato, trasformandosi in ambienti funzionali ma privi di anima. Le architetture modulari, perfette ed efficienti, cancellano il vissuto e la memoria del luogo. Come la storia viene ridotta a un flusso di eventi isolati, così l’urbanistica moderna produce spazi sterili, senza connessione con il passato.
Non è un’operazione nostalgica, ma un riconoscimento del fatto che l’architettura è un atto politico e culturale, un veicolo per dare forma ai valori e alle aspirazioni collettive.
La vera sfida è progettare in modo che le persone ritrovino un senso di radicamento, nonostante la società multirete pare incoraggiare la precarietà.
Come afferma Bernard Stiegler serve coraggio, il coraggio della verità, ciò che i greci chiamavano parresia.
Serve coraggio per restituire alla progettazione la dimensione umana e sociale che la modernità a volte dimentica, per mettere in discussione la logica del “perfetto e veloce” e riavvicinarsi al “vivo e condiviso”. Significa riscoprire quei dettagli che fanno di un luogo un’entità inimitabile, una trama di storie che si fa protezione contro lo smarrimento.
Significa, in definitiva, saper leggere e interpretare i sintomi che Bauman individua: alienazione, sradicamento, estraneità. E offrire, in risposta, architetture che non si accontentino di essere scenografie, ma che producano uno spazio collettivo capace di dare forma e sostanza all’appartenenza.
Perché solo quando ci si sente parte di un luogo – nelle sue imperfezioni e nei suoi contrasti – ci si sente davvero meno soli, meno estranei, meno sradicati.
Dedicato a mia nonna Dina, che nei giorni in cui la malattia mi portava via mia madre ha saputo radicare in me un amore capace di arginare il senso di estraneità. Quella stessa forza l’ho ritrovata più tardi grazie a moglie Susanna che mi ha rivelato quanto l'amore profondo possa diventare antidoto allo sradicamento di cui parliamo in queste pagine, ricordandomi che l’essenza di ogni luogo è, prima di tutto, il legame che ci unisce agli altri.
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L'architettura moderna combina design innovativo e sostenibilità, mirando a edifici ecocompatibili e spazi funzionali. Con l'adozione di tecnologie avanzate e materiali sostenibili, gli architetti moderni creano soluzioni che affrontano l'urbanizzazione e il cambiamento climatico. L'enfasi è su edifici intelligenti e resilienza urbana, garantendo che ogni struttura contribuisca positivamente all'ambiente e alla società, riflettendo la cultura e migliorando la qualità della vita urbana.
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