Ambiente di Condivisione dei Dati: un Nuovo Approccio
L'Ambiente di Condivisione dei Dati (ACDat) è uno strumento centrale nella gestione digitale, basato su processi che favoriscono la collaborazione e il controllo dei dati. Gestito da un CDE Manager, garantisce interoperabilità e sicurezza lungo il ciclo di vita dei progetti. Come strutturare al meglio un ACDat per garantire una maggiore interoperabilità e sicurezza dei dati? In questo articolo un esempio pratico.
Centralità dell’Ambiente di Condivisione dei Dati
L’Ambiente di Condivisione dei Dati, ovvero ACDat, noto internazionalmente come Common Data Environment (CDE) è un elemento fondamentale nell’ambito della Gestione dell’Informazione (Information Management) e, segnatamente, nella Gestione Informativa Digitale di cui al D. Lgs. 36/2023 e s.m.i.
La ragione della sua centralità, sfortunatamente spesso travisata nella pratica da parte degli operatori, risiede nel fatto che l’Ambiente sia, anzitutto, il frutto della modellazione dei processi (Business & Process Modelling) anziché degli esiti di questi ultimi, vale a dire delle entità informative (Information Modelling).
Ciò comporta che per gli attori che producono dati e informazioni il contesto in cui lo facciano sia condizionante, nella misura in cui una attività è definita dall’attore che la opera, dall’azione che esso compie e dal risultato di tale azione.
Struttura e gestione dell’Ambiente di Condivisione dei Dati
Nell’Ambiente di Condivisione, gestito da un profilo professionale apposito (CDE Manager), saranno sempre presenti un soggetto che risulti sia richiedente sia recettore di dati, un soggetto che ne sia fornitore, in seguito alla richiesta del primo, e un revisore.
L’Ambiente di Condivisione ha a che fare con il fatto che siano stati formulati requisiti informativi (ad esempio, da parte del committente nel Capitolato Informativo o da parte dell’affidatario nei confronti della propria catena di fornitura), che questi siano soddisfatti tramite la produzione di dati e di informazioni e che, infine, queste ultime siano transate.
Naturalmente, l’Ambiente di Condivisione dei Dati deve assicurare agli attori coinvolti che i dati e le informazioni presenti nei contenitori informativi siano aggiornate.
Limiti della gestione dei dati e dei processi
Ovviamente, così come una accorta gestione delle informazioni non garantisce in assoluto la qualità degli esiti delle attività (a iniziare da quelle della fase di committenza e di progettazione), una accurata gestione dei processi attuati da una organizzazione non è garanzia dell’efficacia della stessa, ma evidenzia il ruolo non secondario del Sistema di Gestione dei Processi Digitalizzati, peraltro a breve oggetto della normazione, a seguito della trasposizione in norma di una prassi di riferimento di UNI dedicata al Sistema di Gestione BIM.
La rilevanza della dimensione organizzativa e gestionale spiega, inoltre, la ragione per la quale vi sia un legame assai intenso tra Information Management, Process Management, Project Management e Risk Management.
Al centro delle istanze che caratterizzano la digitalizzazione sta, infatti, l’aspettativa, per un committente pubblico o privato o per uno sviluppatore immobiliare, di conseguire il risultato definito massimizzando i benefici connessi e mitigando il più possibile la probabilità di insuccesso.
Evoluzione dell’Ambiente di Condivisione dei Dati
L’Ambiente di Condivisione dei Dati nasce sostanzialmente come evoluzione del sistema di gestione del documento dematerializzato (Document Management System) e, di conseguenza, continua a presentare un carattere archivistico, legato a luoghi virtuali in cui siano depositati e raccolti i contenitori informativi, principalmente a quelli inerenti alla modellazione informativa.
Il fatto, peraltro, che, sin dalla sua prima definizione, all’interno di una norma britannica (norma BS 1192-1:2007), esso, anzitutto, nell’ottica della fase della progettazione, fosse stato quadripartito (nelle aree della elaborazione dei dati e dei modelli da parte di ciascuna organizzazione coinvolta –Work in Progress –, della loro condivisione – Shared – tra più entità organizzative coinvolte, della pubblicazione, ovvero della loro consegna – Published – alla controparte contrattuale e, infine, della loro archiviazione – Archived –) ne aveva enfatizzato la natura potenzialmente collaborativa, secondo una accezione del termine che indicasse una condizione di sostanziale armonia e integrazione tra i soggetti coinvolti e persino tra le parti in causa.
Il solo riporre i dati e la loro configurazione coerente in documenti accessibili alle parti in gioco che veicolino le informazioni è, al tempo, stato considerato un cambio di paradigma, partendo dal presupposto che, in precedenza, documenti incoerenti avessero avuto grandi difficoltà a essere comunicati con tempestività e con esaustività.
La condivisione, tanto più se entro un Ambiente dedicato, di un modello informativo disciplinare o la sua federazione con altri modelli informativi costituisce un banco di prova di particolare evidenza di lacune o di contrasti: ragion per cui, la collaborazione, il lavoro in comune, diverrebbe prassi forzata.
Occorre, peraltro, osservare come, in un primo tempo, minore attenzione fosse stata riposta sulla transizione dei dati e delle informazioni (dei modelli informativi) da una fase o da una area all’altra, per soffermarsi, invece, sulle quattro aree di ripartizione, coi relativi diritti di accesso.
La nozione di collaborazione, tipica della serie normativa UNI EN ISO 19650 (che definisce l’Ambiente di Condivisione dei Dati nella Parte 1), attualmente in fase di revisione, significa sostanzialmente che sia il versante della domanda (pubblica o privata) sia quello dell’offerta (privata), articolato lungo la catena di fornitura, si trovano a operare all’interno di una piattaforma comune.
Il che, peraltro, non vuol dire che l’attitudine sia realmente collaborativa e che tenda all’integrazione tra i soggetti coinvolti: basti pensare alla forte distinzione identitaria che sussiste tra gli attori appartenenti al mondo professionale e quelli appartenenti al mondo imprenditoriale.
D’altra parte, se la parola «collaborazione» appare improbabile, ciò che ci si attende, in realtà, è stabilire una convergenza di intenti e di interessi tra stakeholder irriducibili a unità.
Non per nulla, il quadro giuridico-contrattuale sottostante riguarda la mediazione tra le parti in causa e la redistribuzione eventuale dei vantaggi conseguiti.
Come che sia, l’Ambiente di Condivisione dei Dati gradualmente è divenuto parte di un ecosistema digitale in cui alcune funzionalità di base, almeno a livello elementare, come quelle relative a una migliore navigazione e visualizzazione dei modelli informativi o all’espletazione delle attività di controllo e di verifica dei modelli informativi, sono divenute disponibili.
In questo senso, l’Ambiente non è più esclusivamente la sede del deposito degli esiti di processi avvenuti altrove: anche se, appunto, esso è ben lungi dal divenire il luogo dove i dati agiscono i processi stessi.
La maggior parte degli applicativi utilizzati, tendenzialmente interoperabili tra loro in vari modi restano, tuttavia, «esterni» all’Ambiente stesso, nel senso che non sono stati internalizzati, a iniziare dai dispositivi di produzione dei modelli informativi.
Potenzialità future e sfide dell’ACDat
Tra le funzionalità che un Ambiente di Condivisione dovrebbe presentare figura la gestione dei piani e dei programmi di consegna dei contenitori informativi, a partire dai modelli informativi, denominati in inglese Information Delivery Plan.
L’Information Delivery Planning sarà, poi, seguito dall’Information Delivery e dall’Information Approval.
Allo stato attuale, del resto, la normativa internazionale contempla l’eventualità che l’Ambiente di Condivisione dei Dati sia relativo al singolo intervento o investimento (Project-Based) o, come avvenuto nella prassi locale italiana, addirittura a una singola fase dell’intervento (Stage-Based).
Con questa veste, sostanzialmente riduzionista, quello che potremmo chiamare grossolanamente strumento, è proposto solitamente da parte dei fornitori al mercato e in questa veste anche le stazioni appaltanti e gli enti concedenti lo acquisiscono.
È, tuttavia, proprio in questo passaggio che emergono le difficoltà, risolvibili solo con una revisione radicale del tema, che, invero, la normativa a livello sovranazionale, europeo, sta cercando di proporre.
Per prima cosa, bisogna affermare con chiarezza che l’Ambiente di Condivisione dei Dati ha ormai a che fare con tutte le fasi di ciò che si definisce progetto, nell’accezione anglosassone di Project, dalla fase di committenza a quella di avvio della operatività del bene o del cespite immobiliare o infrastrutturale, sovrapponendosi in parte con altre piattaforme digitali, come quelle che riguardano il Digital Twinning.
La qual cosa comporta la banale constatazione che i dati, strutturati o meno, che l’Ambiente riceve e/o che ospita hanno e avranno fonti di origine assai eterogenee, molto al di là della modellazione informativa, che rimane solo una delle modalità possibili di produzione di dati, strutturati o meno.
In altri termini, ad esempio, le funzioni dell’ufficio di direzione dei lavori e della commissione di collaudo tecnico-amministrativo, per prime, saranno investite da questa evoluzione della digitalizzazione e dell’Ambiente di Condivisione dei Dati.
Secondariamente, contemporaneamente, è in atto, embrionalmente, un processo di trasposizione o di migrazione dei contenuti, espressi in linguaggio naturale, dei documenti prodotti nel corso del Project in basi di dati o, comunque, secondo modalità leggibili e interpretabili dalla macchina.
Tale possibilità agevola l’ipotesi di poter stabilire relazioni e determinare nessi tra dati presenti in contenitori informativi assai diversi tra di loro, oltreché di poter interrogare gli stessi, anche mediante le soluzioni del Linked Building Data.
In terzo luogo, tenendo conto delle esigenze ormai pressanti espresse dalla cyber sicurezza, la trasformazione degli Ambienti di Condivisione dei Dati in dispositivi gestionali ne impone l’interoperabilità con gli altri sistemi informativi a supporto delle decisioni che qualsiasi organizzazione, pubblica o privata, adotta, ma, allo stesso tempo, è opportuno garantire la protezione e la sicurezza del dato.
Queste considerazioni fanno sì che, ad esempio, per le stazioni appaltanti e per gli enti concedenti, perda di significato implementare in maniera estemporanea, da intervento a intervento, differenti dispositivi tecnici come Ambienti di Condivisione dei Dati, poiché, al contrario, ne urgerebbe uno solo, strutturale.
La conclusione di un intervento e di un investimento pubblico, col collaudo tecnico-amministrativo provvisorio, potrebbe, del resto condurre definitivamente un patrimonio di data set in una archiviazione problematica, rendendo questa sorta di cespite immateriale, di notevole pregio, inutilizzabile.
Ed è a questo punto che sorgono le questioni più delicate, che invitano a un ripensamento del dispositivo medesimo.
L’Ambiente di Condivisione dei Dati, una volta integrato nel novero dei sistemi informativi e gestionali di una Amministrazione Pubblica recepisce, dunque, i cruciali portati tanto della pianificazione e della programmazione pluriennale economico-finanziaria e socio-ambientale quanto dei processi di affidamento dei contratti pubblici, sino a poter giungere ai sistemi relativi alla gestione patrimoniale, oltre a poter entrare a far parte dell’Ecosistema Nazionale dei Dati e della Piattaforma Nazionale Dati.
Stupisce, da questo punto di vista, che, a differenza della Piattaforma di Approvvigionamento Digitale, non vi siano regole e riferimenti di conformità per l’Ambiente di Condivisione dei Dati né che sia presente un registro corrispondente.
D’altronde, a parte la citazione nella serie normativa UNI EN ISO 19650, il progetto di rapporto tecnico del CEN, intitolato Framework and Implementation of Common Data Environment Solutions, in accordance with EN ISO 19650, e qualche citazione nella serie normativa UNI 11337, non è data una definizione analitica univoca dell’Ambiente di Condivisione dei Dati.
La stessa norma antesignana, la norma BS 1192-1 è stata, peraltro, ritirata nel 2019.
Definizione canonica di ACDat
La definizione canonica è quindi la seguente: «fonte informativa concordata per una determinata commessa o cespite immobile, per raccogliere, per gestire e per inoltrare ciascun contenitore informativo per tutta la durata della gestione di una commessa».
Nella nota in calce si trova, tuttavia, il rimando a uno dei risvolti più significativi, qui affrontato successivamente: «un flusso di lavoro per l'ACDat descrive il processo da utilizzare mentre una soluzione per l'ACDat può fornire la tecnologia atta a sostenere tale processo».
Immaginare di adottare un Ambiente di Condivisione dei Dati esclusivamente legato al singolo investimento pubblico significa, perciò, letteralmente dis-integrare processi che, sfortunatamente, oggi già lo sono e che, al contrario, necessiterebbero di una profonda interazione.
Si tenga presente che ormai, nelle organizzazioni, pubbliche e private, il valore aggiunto offerto dalla Gestione dell’Informazione consiste proprio nell’assicurare quella continuità e accessibilità (e tempestività) dei flussi informativi che possa consentire di integrare le unità organizzative orizzontalmente nell’economia del Programma, del Portafoglio degli Investimenti, oltre che del singolo progetto (Project).
Invece che pensare all’Ambiente come a un mero deposito passivo di contenitori informativi, tendenzialmente di carattere prevalentemente tecnico, varrebbe la pena di immaginarlo come a un mediatore di culture e di prassi.
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L'articolo prosegue delineando una struttura innovativa per l'Ambiente di Condivisione dei Dati, presentando un modello avanzato che integra nuove funzionalità e tecnologie. Questo schema mira a ottimizzare la gestione dei flussi informativi, garantendo una maggiore interoperabilità e sicurezza dei dati, facilitando la collaborazione tra gli attori coinvolti e rendendo l'ACDat un elemento centrale per la digitalizzazione dei processi.
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