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60 anni fa il disastro della diga del Vajont: esiste ancora il rischio che possa ripetersi?

Potrebbe sembrare una domanda retorica ma così non è. E lo si può capire leggendo le parole del racconto del disastro da parte del Prof. Paolo Paronuzzi, esperto di questo evento che ci fornisce anche una sua visione della lezione che questa tragedia ci ha dato o non ci ha dato.

Il 9 ottobre ricorre il 60° anniversario del disastro della diga del Vajont.

Per ricordare questo tragico evento e capire se e cosa ci ha lasciato abbiamo intervistato il Prof. Paolo Paronuzzi, Professore di Geologia Applicata all’Università di Udine e profondo conoscitore della materia da circa 25 anni.

Attraverso una bellissima chiacchierata abbiamo quindi cercato di ripercorrere la storia della diga, per molti anni non interamente raccontata e cercato di capire che cosa ci ha e può ancora insegnarci oggi.


Il racconto della diga più alta del mondo di allora

Professore Paronuzzi, può raccontarci cosa accadde quel 9 ottobre del '63 e come si arrivò a questo tragico evento? 

Il 9 ottobre 1963 è la data ovviamente della tragedia, ed è quindi la fine della storia, una storia che parte sei anni prima con la posa della “prima pietra” della diga, avvenuta il 6 gennaio del 1957.

In particolare la sera del 9 ottobre 1963 un gigantesco blocco di oltre 270 milioni di metri cubi di roccia si stacca dalle pareti del monte Toc e scivola nel bacino artificiale ad una velocità di 90 km/h generando due enormi onde alte oltre 250 metri.

La prima raggiunge Casso ed Erto. La seconda, la più devastante, scavalca la diga per finire nella valle del Piave, verso ovest travolgendo completamente la cittadina di Longarone dopo solo 4 minuti. In quell'evento persero la vita quasi duemila persone, tra cui centinaia di bambini.

Parliamo di una diga che sarebbe dovuta diventare la più alta diga del mondo, un'opera di ingegneria che rappresentava il vanto dell'ingegneria italiana nel mondo anche perché l'ingegneria italiana di quegli anni aveva ormai una grande tradizione nella costruzione di dighe e quindi avrebbe dovuto rappresentare la massima eccellenza mai raggiunta nella costruzione di dighe di quella tipologia.

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Il 9 ottobre 1963 un'enorme frana si stacca dal Monte Toc per finire nelle acque del bacino generato dalla diga del Vajont. L'onda che si genera, alta oltre 250 metri provocherà la morte di quasi 2000 persone. All'interno una breve cronistoria di un'opera che doveva essere il vanto dell'ingegneria italiana ma che alla fine è stato solo un esempio di errori da non rifare più.

Prima di entrare nel vivo della storia, quali sono stati gli studi e le indagini geologiche fatte prima della progettazione?

Per quanto riguarda gli studi geologici in quegli anni si faceva molto poco, perché l'attenzione di quegli anni era concentrata soprattutto sulle difficoltà progettuali dell'opera.

Addirittura in quegli venne reso obbligatorio procedere alle analisi geologiche per un progetto come quello di una diga nel momento in cui il progetto di quell'opera era già stato approvato.

Quindi l'obbligo normativo di uno studio geologico di dettaglio, come avviene adesso, nella zona d'imposta della diga e nelle future sponde dell'invaso non esisteva.

Nella realtà quello che si fece, lo si fece, lo spiegherò più vanti, per una serie di eventi non per un obbligo normativo.

La relazione geologica di partenza era un documento poco dettagliato, fatta per altro da un geologo che non aveva le competenze specifiche su problematiche tecniche di questo tipo.

Parliamo di Giorgio Dal Piaz, geologo con una certa età che si era occupato nella sua vita di problematiche diciamo tipiche della geologia naturalistica.

Giorgio Dal Piaz fece le prime perizie geologiche ma in maniera molto superficiale senza alcuno studio specifico.

Partono cosi nel ’57, e anche velocemente, i lavori della diga realizzati dalla ditta costruttrice Sade, ditta molto esperta nella costruzione di dighe e di impianti idroelettrici che realizzò il manufatto avvalendosi di uno dei principali ingegneri esperti di fondazioni di dighe di quegli anni che era l'austriaco Leopold Müller.

Nei primi due anni ci si concentrò sugli aspetti progettuali relativi alla realizzazione di questa grande e importante diga e null'altro. Ma ad un certo punto cambio qualcosa.


La frana nell'invaso della diga di Pontesei

Io me lo sono chiesto per molti anni, ma l’ho capito solo dopo, anche perché questo non sta scritto in maniera chiara e lo si evince solo se si studia tutta la storia della diga, dalla costruzione a ciò che successe dopo.

Il fatto che segnò un punto di svolta fu un evento che avvenne nel marzo del '59.

La Sade, in quel periodo stava costruendo diversi impianti, diverse dighe e tra queste stava completando la diga di Pontesei. Si tratta di una diga che si trova a circa una decina di chilometri dalla diga del Vajont, dalla parte opposta della valle del Piave.

Per la diga di Pontesei i lavori partono nel 1955, viene completata e quando iniziano le operazioni di invaso/svaso previste per legge fino alla massima quota prevista per la vita dell'impianto, da una parte del versante settentrionale, iniziano a manifestarsi numerosi spostamenti superficiali, deformazioni di notevole entità, vistose fessure di trazione sulla strada presente, e quindi la ditta costruttrice, la Sade appunto, incomincia a fare rilievi, ma alla fine partirà una frana, che in miniatura sarà praticamente un “modellino” della frana del Vajont. Si pensi che questa frana, si calcolò dopo, aveva un volume stimato di circa 1/50, 1/100 del volume di quella del Vajont.

In questo caso si è trattato di uno scivolamento in blocco molto simile, anche per forma, a quello del Vajont che ha prodotto un'onda stimata di circa 20 m sopra la superficie dell'invaso al momento della rottura e che ha causato anche un sovralzo dell'acqua che ha superato il coronamento della diga fuoriuscendo e provocando anche un morto.

La frana nell’invaso della diga di Portesei metteva in evidenza un fatto in realtà già noto tra i tecnici specialisti nella progettazione di queste opere: la realizzazione degli invasi poteva dare luogo anche a conseguenze negative di questo tipo, ossia attivare processi di rottura in corrispondenza delle future sponde interessate dai primi invasi.

Questo è il reale punto di partenza. Perché dopo la frana di Pontesei furono prese delle decisioni successive che riguardarono la diga del Vajont.

Di fronte a questo evento l'ingegnere capo progettista della grande diga del Vajont, Carlo Semenza capisce che questi fenomeni non vanno sottovalutati e partono gli studi e le indagini geologiche incaricando suo figlio, Edoardo Semenza un giovane geologo di 35 anni sotto la supervisione di Leopold Müller.

E’ in questo momento, con la diga ormai in fase di completamento, che iniziano gli studi geologici di dettaglio e tutte la altre operazioni di monitoraggio e di modellazione idraulica che verranno fatte negli anni successivi.

Lo studio di Edoardo Semenza condotto insieme a un altro geologo, Franco Giudici durerà circa 12 mesi e verrà consegnato nell'estate successiva (del 1960), mentre i lavori della diga vanno avanti e vedono il completamento dei suoi aspetti fondamentali a fine '59.

Questa è la prima fase.

Dopo i rilievi sul terreno, Edoardo Semenza, figlio del progettista, consegnerà una relazione non prima di essersi confrontato, su suggerimento del padre, con l’ormai anziano Giorgio Dal Piaz.

Nella relazione tecnica il geologo scrive di aver individuato una grande frana sul versante settentrionale del M. Toc, una frana di cui comunque non definisce il volume totale. Infatti nelle sezioni geologiche allegate alla relazione la geometria del corpo di frana ipotizzato non è completa e si limita al piede del versante e alla sua parte mediana. Questa prima ipotesi sulla frana “preistorica” avanzata da Giudici e Semenza necessita dunque di ulteriori dati per giungere ad una prima valutazione del volume complessivo di materiale franato.

La segnalazione della grande frana preistorica che il figlio fa, sulla base dei suoi rilievi geologici, al padre aprirà tutta una serie di importanti quesiti soprattutto perché ci troviamo nella fase di inizio degli invasi.


Iniziano gli invasi: siamo nel 1960

A febbraio del 1960 inizia il primo invaso che provocherà dei franamenti anche se non di grande entità, sulla sponda idrografica sinistra del torrente Vajont. A quel punto Carlo Semenza decide di fare una serie suppletiva di indagini facendo partire diverse attività di monitoraggio sul versante della grande frana. Vengono installati i primi caposaldi per misurare gli spostamenti superficiali che verranno integrati nel tempo fino raggiungere il numero di una sessantina circa.

Verranno fatti dei sondaggi profondi, si installeranno dei piezometri, si misureranno le variazioni dei livelli di falda nel versante, e verrà installato anche un sismografo che rileverà tutte le attività microsismiche.

Si è trattato di un caso in cui è stata realizzata un’elevatissima attività di monitoraggio ma che alla fine è finito male nel senso che non è servito poi a prendere le decisioni giuste; si tratta di un insegnamento che deve servire anche oggi.

Occorre riflettere su questo aspetto. Si può monitorare e non capire quello che sta succedendo oppure se vogliamo usare un altro termine potremmo anche dire che si può monitorare e non voler capire ciò che sta succedendo.

Sempre nel 1960 verso fine ottobre/inizio novembre compare una fessura lunga circa 1,5 km che di fatto segna il limite della futura frana del Vajont. Vengono convocati d’urgenza tutti i tecnici tra cui anche Leopold Müller che comprendendo che la manovra dell’invaso andava a creare una falda al piede del versante, destabilizzando la frana preistorica suggerisce di abbassare rapidamente il livello dell’invaso. A questo punto i tecnici posso verificare che gli spostamenti superficiali si riducono e il versante instabile si arresta.

E’ in questa fase, con i livelli dell’invaso molto bassi che viene deciso di costruire la galleria di bypass, ossia una galleria che praticamente serve a mantenere la continuità idraulica del futuro serbatoio, visto che ormai risulta accertato che c’è un grande corpo di frana che si sta muovendo.

Carlo Semenza purtroppo morirà il 30 ottobre del 1961, ma sulla base del monitoraggio, prima di morire tra le varie cose, decide di fare anche una serie di test fisici cioè di fare dei modelli idraulici per simulare la formazione di onde nell’invaso causate da una futura frana.

Con la morte di Semenza cambia la guida del progetto, che passa al suo braccio destro, l’ing. Idraulico Alberico Biadene, e la storia cambierà completamente. I precedenti consulenti che seguivano l’instabilità del Monte Toc verranno praticamente tutti eliminati, fatta eccezione per Augusto Ghetti dell’università di Padova, interpellato per i modelli idraulici sulla frana.

IL CONTESTO STORICO
1962: esce la legge sulla nazionalizzazione dell'energia idroelettrica

Per comprendere meglio tutto la storia occorre ricordare anche che proprio in quegli anni avveniva la nazionalizzazione dell'energia idroelettrica. La Sade era un'impresa privata, e quindi tutte le imprese private avrebbero dovuto vendere gli impianti allo Stato e tra questi anche l'impianto del Vajont, parliamo della legge di nazionalizzazione dell'energia idroelettrica del 1962.

Con il passaggio allo Stato e sotto la direzione di Biadene, si è probabilmente proceduto ad una nuova gestione tecnica dell’impianto in fase di collaudo nella quale è stata sottovalutata la complessa situazione geologica delle sponde della diga, che richiedeva invece competenze complesse e valutazioni accurate di carattere geologico e geotecnico.

Le scelte che furono prese dopo, saranno infatti proprio espressione di questa nuova linea di gestione. Verranno infatti mantenute solo le prove idrauliche su modello fisico condotte a Nove, pur sapendo la totalità dei tecnici coinvolti (internamente alla Sade) che il monte Toc era rotto.

Le ultime fasi di collaudo dell’impianto sotto la conduzione Biadene si limiteranno quindi allo svolgimento degli ultimi test in scala affidati a Augusto Ghetti, professore di idraulica dell'Università di Padova, sugli effetti idraulici causati da una possibile frana nel bacino del Vajont, associate alla continuazione delle misure degli spostamenti superficiali e dei livelli piezometrici.

Dopo la conclusione dei lavori della galleria del bypass, nel 1962 si procede al secondo invaso che prevede il superamento delle quote precedenti raggiunte dal livello del serbatoio.

Nel momento in cui si incomincia ad arrivare a quote superiori la grande frana si rimette di nuovo in moto.
Analogamente al 1960 il team dei tecnici – ormai tutti esclusivamente ingegneri idraulici – decide di svasare rapidamente per ridurre gli spostamenti superficiali e fermare l’intero fenomeno di instabilità del versante.

Si tratta di un passaggio cruciale perché l’analisi dei fenomeni in questo secondo invaso finisce per dare a quei tecnici la sicurezza di poter “controllare” il grande fenomeno di instabilità in atto sul Monte Toc. Ma si tratta di una sicurezza molto pericolosa perché è completamente infondata.

I tecnici, in particolare Biadene, pensano di poter gestire il grande versante instabile agendo sugli invasi e svasi. Sarà una scelta sbagliata soprattutto perché entrerà in gioco un processo molto complicato, legato alla meccanica delle rocce, a quei tempi ancora poco noto e che gli ingegneri idraulici coinvolti nel progetto del Vajont non conoscono.

Su questo punto vorrei sottolineare l’importanza, per chiunque si occupi di progettazione di grandi opere, di valutare in maniera corretta l’incertezza sui processi geomeccanici, idrogeologici e idraulici che stiamo cercando di analizzare. Processi che possono essere estremamente complessi come la tragica esperienza del Vajont insegna ancora oggi.

Il disastro del Vajont mantiene quindi il suo grande insegnamento per i tecnici di oggi. Questa è sicuramente una lezione per il presente e per il futuro. Il resto è storia.


Le lezioni del disastro del Vajont

Cos'altro ci ha insegnato questa vicenda?

Dopo tanti anni e studi, la mia impressione attuale è che questo tragico evento abbia “insegnato molto ai tecnici e agli ingegneri e anche ai geologi del resto del mondo e ahimè credo meno agli ingegneri e geologi che lavorano in Italia”.

Il perché sta nella diversa reazione che in Italia abbiamo avuto di fronte a questa enorme catastrofe.

Dopo il disastro, molti tecnici sono venuti da tutte le parti del mondo per cercare di andare a fondo e capire cosa non aveva funzionato, per capire cosa era successo dal punto di vista tecnico, per farne una lezione per la progettazione delle proprie grandi opere, per evitare che una tragedia di queste proporzioni abbia a ripetersi.

Da questo punto di vista la lezione del Vajont si offre a tantissime prospettive. La primissima lezione è stata tecnica: quali sono stati i processi? cosa è accaduto? quale era la complessità geologica che ha determinato la sequenza di processi meccanici e idraulici responsabili alla fine del collasso in massa di un volume di rocce e detrito di gigantesche proporzioni, stimato in circa 270 milioni dimetri cubi?

La prima lezione da apprendere è sul piano prettamente tecnico, e da questo punto di vista la conoscenza tecnica ha fatto dei passi da gigante nel mondo perché è nata per esempio la meccanica delle rocce che oggi è una disciplina riconosciuta ed affermata che si insegna a livello internazionale in diversi corsi di laurea a carattere ingegneristico.

Oggi a sessant'anni di distanza abbiamo assistito ad un enorme crescita della conoscenza nel campo della stabilità dei versanti, nel campo della modellazione idraulica delle falde presenti all'interno dei versanti, nel campo dei fenomeni caratteristici della meccanica delle rocce ecc.

L’altra lezione è sul piano operativo, ossia ci insegna come dovrebbe muoversi una macchina progettuale soprattutto nel campo delle grandi opere e come dovrebbe operare un team di progettisti che include diversi specialisti, ognuno con le proprie competenze specifiche (ingegneri strutturali, idraulici, geotecnici e geomeccanici, geologi, idrogeologi, ecc.).

Dal mio punto di vista è fondamentale l'interazione tra specialisti di diverse materie che devono sapere lavorare insieme nel progetto di una grande opera, ma devono essere veramente qualificati e competenti, non solo per la progettazione strutturale del manufatto, ma anche per accertare la presenza di un eventuale sito caratterizzato da una grande complessità geologica, la quale a sua volta significa complessità geotecnica, complessità idrogeologica, ecc.

Ma la vera domanda è : e l'Italia cosa ha fatto?

Mi restano diversi punti interrogativi, molti dubbi e anche qualche perplessità.
Come è già accaduto tante volte, la reazione tipica dell'Italia è stata quella di “seppellire questa tristissima storia”, cioè non parlarne per molti anni.

Un'altra soluzione è stata quella di non fare più grandi dighe. Per questi motivi, purtroppo, la tragedia del Vajont rappresenta una occasione di crescita tecnica che non è stata completamente colta in Italia.

Nel panorama italiano penso quindi che l’Italia abbia ancora bisogno di parlare del Vajont, non per cercare colpevoli ma per capire le carenze e gli errori, elementi decisivi per una progettazione tecnica migliore, capace di accertare i siti non adatti per certe grandi opere e sempre più adeguata per vincere sfide tecniche che saranno sempre più impegnative in futuro.

Esiste un rischio che riaccada?

Secondo lei si può dire che oggi con le strumentazioni e le conoscenze che abbiamo, un disastro di quel genere non potrebbe più accadere oppure ci sono altri rischi che comunque sono difficili da valutare?

Di tecnologia oggi ne abbiamo tanta su tutti i fronti e questo è sicuramente un bene: sul fronte delle misure, sul fronte delle modellazioni, sul fronte dei rilievi, ecc. ma c'è un problema (o una fortuna), se così si può dire, ed è che l'elemento chiave nelle progettazioni è e rimane la mente umana e la sua capacità di analisi e di giudizio.

La progettazione oggi non si risolve affidando a un ente “ imparziale” che viene definito intelligenza artificiale; la progettazione, in particolare quella complessa, passa ancora attraverso l'uomo ed è giusto che sia così, ma l'uomo vuol dire l'uomo attraverso le sue effettive conoscenze e le sue esperienze tecniche di lavoro e di progettazione.

Nascondersi dietro le tecnologie avanzate di cui oggi disponiamo può essere molto pericoloso, perché il protagonista, nel bene e nel male, è sempre l'uomo, il tecnico, il progettista, il team.

Questo vuol dire che situazioni tipo Vajont si possono ripetere; si possono ripetere quando le persone coinvolte non rappresentano un team efficiente di professionisti e di personalità tecnico scientifiche realmente esperte e in grado di maneggiare quel tipo di problema.

Il problema si può verificare quando in una grande opera vengono coinvolte diverse personalità tecniche e scientifiche ma mancano le figure chiave per affrontare delle problematiche fondamentali che risultano magari di grande complessità. Queste figure tecniche sono decisive per una buona progettazione o per pervenire ad una decisione finale adeguata ai requisiti di sicurezza richiesti per salvaguardare la popolazione interessata dal progetto. In certi casi infatti, certi requisiti progettuali e certe analisi risultano mancare per l’inadeguata composizione iniziale del team di progettisti. In simili circostanze, le scelte finali risultano essere più politiche che tecnico-scientifiche.

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